Opera Mundus

Venezia, Teatro La Fenice: Otello

Venezia, Teatro La Fenice Otello - Ph Michele Crosera - recensione Opera Mundus
Venezia, Teatro La Fenice Otello - Ph Michele Crosera - recensione Opera Mundus

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Tra il successo di Aida al Teatro dell’Opera del Cairo nel 1871 e la successiva opera di Giuseppe VerdiOtello che avrà la sua prima rappresentazione al Teatro alla Scala nel 1887 – passano ben sedici anni. In questo lungo periodo di tempo, seppure lavorando alla Messa da Requiem e alle revisioni del Simon Boccanegra e di Don Carlo, le tiranniche pressioni del mondo del teatro per nuove opere lo avevano portato a un volontario ritiro nella sua villa di Sant’Agata dove si sarebbe potuto finalmente dedicare all’attività, che in quel periodo sentiva più importante della musica, d’imprenditore agricolo: conosceva la coltivazione dei terreni e l’allevamento del bestiame come l’armonia e il contrappunto, tanto che i fattori della zona si rivolgevano a lui per delucidazioni e consigli in campo agrario. È comunque dai primi anni ’80 che inizia la collaborazione con Arrigo Boito, sorta anche dalla comune e sconfinata devozione nei confronti dell’opera di William Shakespeare. Come compositore e nei suoi scritti pubblicati, Boito s’era dimostrato un valente letterato e musicista, e Verdi era molto sensibile al modo in cui per altri autori le parole si facevano respiro musicale ed espressiva forma drammaturgica: dopo aver trattato da despota i precedenti librettisti come semplici verseggiatori, sente che questo fine intellettuale avrebbe dato qualcosa in più nella trasformazione del dramma shakesperiano The Tragedy of Othello, the Moor of Venice in opera lirica. Nelle molte lettere intercorse fra i due si percepisce infatti una continua e proficua osmosi di riflessioni, stimoli, consigli che sottendono sempre una reciproca e creativa dipendenza, un fruttifero incontro-scontro che produrrà il libretto dell’Otello, in quattro atti rispetto ai cinque dell’originale testo teatrale. Lo sviluppo della trama è sempre funzionale e compatto, ad esempio nell’abolizione del primo atto veneziano del testo di Shakespeare dove viene narrato l’innamoramento e il matrimonio segreto di Otello e Desdemona che invece vengono rievocati dai due nel primo atto dell’opera nel duetto “Già nella notte densa” dopo lo sbarco del Moro a Cipro. Il libretto non è semplicemente una messinscena d’invidia, inganno, gelosia e vendetta ma sa esprimere momenti di profonda riflessione e di sintesi narrativa quando viene eliminata la tematica razziale che invece è ben presente in Shakespeare dove Otello è accusato di pratiche magiche per aver fatto innamorare Desdemona, il rapporto tra un nero e una bianca era cosa inconcepibile. E, non ultimo grande pregio del libretto ai fini della composizione musicale, la depurazione del linguaggio in uno stile elevato rispetto al crudo realismo a tratti volgare del dramma shakespeariano, con “She (…) is a subtle whore” trasformato in “Che? Non sei forse una vil cortigiana?”, e in sfarzo lessicale e ritmo sintattico nelle abissali certezze nichiliste cantate da Jago nel “Credo in un Dio crudel”. È proprio in questo profondo solco tracciato da Verdi e Boito che s’impone la direzione di Myung-Whun Chung: anche se la musica è centrale, il suo scolpire con l’orchestra ogni singola parola dell’arduo libretto è già una lezione magistrale. Il grande maestro coreano ha spesso frequentato con successo Otello e l’ha già diretto, con il coro e l’orchestra della Fenice, in uno dei più famosi eventi musicali veneziani del 2013: l’indimenticabile allestimento all’interno del cortile di Palazzo Ducale. Più d’ogni altra del repertorio verdiano, questa è un’opera in cui l’orchestra è protagonista in virtù d’una interna tensione, un’agitazione che si trasforma in puro teatro e sembra non placarsi mai. Un travolgente spasmo orchestrale che, dalle prime ed esplosive battute, si fa feroce uragano con taglienti scale cromatiche e lacerazioni timbriche fino al fragoroso “Dio, fulgor della bufera!” del coro, per potente terribilità secondo soltanto al “Dies irae” del Requiem. Un continuum di tensione musicale che Myung-Whun Chung sa coglie da grande interprete e che nei decenni ha saputo metabolizzare restituendocelo oggi nel tappeto sonoro su cui Jago imbastisce la sua perfida tela di ragno nel duetto con Otello “Ciò m’accora… Che parli?” e, all’inizio dell’ultimo atto, attraverso gli angosciati presentimenti di Desdemona anticipati dal contrappunto dei fiati, dove il corno inglese rende così desolata l’intima cupezza della scena, oppure quando il Moro disperato intona alla fine “Un bacio…Un bacio ancora…Ah!…Un altro bacio…” e il direttore trasforma in straziato pianto interiore lo stesso accompagnamento orchestrale del soave duetto amoroso del primo atto.

Lo scenografo Massimo Checchetto allestisce un impianto imponente e sontuoso che svela una sognata Venezia bizantina, un contenitore che rievoca le lucenti lamine sbalzate della Pala d’Oro della Basilica di San Marco, certi cofanetti medievali con inserti in smalto multicolore, le sfarzose copertine d’antichi manoscritti con preziose pietre dure incastonate. E, ovunque, citazioni delle intrecciate decorazioni a mosaico del tempio marciano e degli stellati cieli cobalto del ravennate soffitto di Galla Placidia. Anche i bei costumi di Claudia Pernigotti si rifanno agli abbaglianti abiti regali della liturgia di corte bizantina, come nel corteo musivo dell’imperatore Giustiniano e della moglie Teodora in San Vitale a Ravenna o nelle teorie di Vergini martiri in Sant’Apollinare Nuovo. Ai cantanti e ai coristi, nella grande scena di massa dell’arrivo degli ambasciatori veneti sull’isola di Cipro, vengono apposti, sopra i sobri abiti blu, paludamenti dorati che sfolgorano nel lucente scrigno della scena. Pochi oggetti qui e là e tutti rigorosamente Bisanzio-style: un trono monolitico, un siège pour deux che sembra appena arrivato dall’IKEA di Costantinopoli, un letto matrimoniale di enormi smalti cloisonné. In un allestimento scenico così preponderante, l’intervento registico di Fabio Ceresa si limita, in modo comunque funzionale, a muovere qui e là il più espressivamente possibile i cantanti e posizionare le masse corali in giusta simmetria. Uniche idee: un’Idra, soltanto evocata da Jago nel duetto del secondo atto, in sembianza d’un accrocco di mimi che si sbracciano intorno ai protagonisti per dare sottolineatura ai momenti del Male quando la calunnia di Jago sortisce effetto, come se ce ne fosse la necessità visto che una sola breve frase da lui cantata mette già in scena tutte le sfumature malvage del personaggio; e poi un mimo come doratissimo Leone alato di San Marco che dovrebbe significare la possibile salvezza che soltanto il Bene dell’incivilimento può dare, l’Eden sociale di un’umanità avulsa dall’odio, opposta al “fango originario” del quale Jago si fa apostolo. Nella progressiva discesa verso una paranoia autodistruttiva, Otello alla fine recide il capo al Leone: una resa incondizionata all’oscuro lato primigenio degli istinti, dove l’accecante gelosia gli spegne anche gli ultimi bagliori d’un possibile pensiero illuminato dalla ragione.

Dal primo interprete Francesco Tamagno della prima assoluta del 1887, molto s’è scritto sulla figura di Otello come ruolo tenorile. Nel secolo scorso è emerso un tipo di vocalità che non poteva esimersi da una potenza vocale straordinaria, da una timbrica bronzea e scura, da un imperioso declamato. Nella fin troppo rigida catalogazione del canto lirico, l’etichetta era quella di “tenore drammatico” e Mario del Monaco ne è stato la perfetta incarnazione, visto che nella sua carriera ha interpretato questo ruolo quasi cinquecento volte sui palcoscenici di mezzo mondo, escludendo a priori la parte a qualunque “tenore lirico”, anche se “lirico spinto”, come si asseriva fra i tanti vociologi, il più delle volte improvvisati, tanti anni fa. Ancora nel 1991, l’incisione discografica di Luciano Pavarotti, “tenore lirico puro”, suscitò una sdegnata sequela d’arricciamenti di naso. Ci prova in questa edizione Francesco Meli, e proprio nella logica d’una lettura del personaggio partendo nota su nota da quello che Verdi ha scritto in partitura. Se nell’ ”Esultate” d’esordio non può inevitabilmente competere con la veemenza delle tonnellate di suono di Del Monaco, la rinuncia a un canto viscerale e talvolta stentoreo fa progredire il personaggio in molte sfumature psicologiche che il suo espressivo fraseggiare mette bene in evidenza. Nel suo notevole Don Carlo scaligero dello scorso anno non erano molte le possibilità d’approfondimenti della personalità del protagonista vista la sognante inconsistenza del Principe spagnolo, pur nella bellezza vocale della parte. Nell’estrema complessità di Otello, Meli ha potuto invece meditare frase su frase la sua progressiva metamorfosi psichica dalla sicurezza di sé di potente Generale dell’Armata veneta, molto innamorato e ricambiato con ardore dalla moglie, alla devastante derelizione omicida e suicida del finale. Una voce talvolta un po’ affaticata nell’emissione in zona sovracuta e con uno squillo che tende a opacizzarsi, ma un Otello che non ha comunque bisogno di gonfiare i suoni ma che si plasma un po’ alla volta attraverso intense mezzevoci e un mirabile legato nel “Dio! mi potevi scagliar” e nell’accorato finale del “Niun mi tema”. Chissà quale censura registica del woke a oltranza ha impedito il trucco black is black del personaggio, come invece Meli in un’intervista avrebbe desiderato!

Per il ruolo di Jago, a partire dal perfetto phisique du rôle, è difficile oggi scegliere un altro cantante: prendete uno straordinario baritono dal bel timbro brunito, capace di mezzevoci e di fraseggio molto espressivo; poi, un puro attore che ha modellato egregiamente tanti personaggi sui palcoscenici non solo operistici ma di prosa, con prestigiosi riconoscimenti come il Premio Ubu (2011) e il Premio Internazionale Pirandello (2015); ancora, un intelligente regista teatrale che ben conosce e mette a frutto i modi e i tempi della scena; in più, un efficace scrittore di romanzi (Tutta la felicità, ed. Sedizioni, 2015), traduttore e adattatore drammaturgico. Ecco, avrete Luca Micheletti. Ha maturato negli anni il suo Jago regalandogli un’introspettività che non è mai truce e sinistra ma sempre in sottesa tensione, come una molla d’implacabile energia giovanile pronta a scattare al momento giusto. Elegantissimo e spietato dandy nel progettare la rovina degli altri, riesce anche a far fuori tutti i lividi Jago del passato che esageravano in modo tonitruante, dal punto di vista vocale e scenico, la componente torva e malvagia del personaggio. Gran maestro d’istigazione al male e al contempo di reticenza, il suo carisma attoriale mette talvolta in ombra gli altri cantanti e, nel maleaugurante brindisi “Innaffia l’ugola!”, galvanizzato dalla trascinante ritmica che Myung-Whun Chung imprime all’orchestra, Micheletti fa risaltare Jago come deux-ex-machina del meccanismo narrativo dell’opera. Del resto, se Verdi e Boito avrebbero voluto assegnare il title role a questo personaggio anziché ad Otello, una ragione ci sarà ben stata! Il lavoro di approfondimento è comunque in studiata sottrazione perché, si sa, la calunnia è un venticello e ha bisogno d’essere sussurrata con mezzevoci suadenti e rubati impercettibili nel replicare con altre domande alle domande del Moro, nel lento ma ben calcolato insinuarsi nella sua testa, nelle profferte di amore e fedeltà nonostante lo consideri soltanto un “selvaggio dalle gonfie labbra”. E il blasfemo “Credo” di Micheletti s’inscrive nella lucida ma molto partecipe grammatica vocale di chi è mosso dalla granitica sicurezza d’essere depositario di devastanti quanto assolute certezze: grandezza di Verdi e Boito che trasformano in musica e parole la scaturigine del peggior integralismo, votato sempre alla guerra, che ancora oggi ci fa riflettere con preoccupazione.

Desdemona era la coreana Karah Son che, anche per il bell’aspetto e le discrete capacità d’attrice, viene considerata la Madama Butterfly dei nostri giorni, visto le tante volte in cui ha interpretato Cio Cio-san un po’ ovunque. Per il ruolo in Otello, Verdi vedeva in questo ruolo sopranile una vocalista più che un’attrice-cantante e, in una lettera all’editore Ricordi, scrisse: “Desdemona canta dalla prima nota del recitativo, che è una frase melodica, fino all’ultima nota, ‘Otello non uccidermi’, che è ancora una frase melodica. Quindi la più perfetta Desdemona sarà quella che canta meglio.” In questo senso, alla Fenice abbiamo ascoltato una vocalista di pregio che ha dimostrato quasi sempre omogeneità vocale e il timbro, nonostante il forte vibrato, di buona caratura. Di non particolare potenza, la Son ha portato fino in fondo il ruolo riuscendo a sostenere bene il duetto “Già nella notte densa” con Francesco Meli, un riconosciuto fuoriclasse nei ruoli che presentano questi momenti d’abbandono lirico. E nella “Canzone del salice” ha saputo restituire le giuste mezzevoci con apprezzabili pianissimi nel finale della successiva preghiera “Ave Maria”.

Buone nel complesso le interpretazioni d’Emilia di Anna Malavasi, di Cassio di Francesco Marsiglia, di Roderigo di Enrico Casari, di Lodovico di Francesco Milanese e di Montano di William Corrò.

23 novembre 2024 | Otello | Teatro La Fenice

di Giuseppe Verdi

libretto di Arrigo Boito

nuovo allestimento Teatro La Fenice

CAST

Otello Francesco Meli
Jago Luca Micheletti
Cassio Francesco Marsiglia
Roderigo Enrico Casari
Lodovico Francesco Milanese
Montano William Corrò

Un araldo Antonio Casagrande

Desdemona Karah Son
Emilia Anna Malavasi

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
direttore Myung-Whun Chung
maestro del coro Alfonso Caiani

Piccoli Cantori Veneziani
maestro del coro voci bianche Diana D’Alessio
altro maestro del coro voci bianche Elena Rossi

regia Fabio Ceresa
scene Massimo Checchetto
costumi Claudia Pernigotti
light designer Fabio Barettin
video designer Sergio Metalli
movimenti coreografici Mattia Agatiello

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Emilio Pappini

Vive e lavora a Milano e Trieste e si occupa di Storia dell’arte. È laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Genova e specializzato in Storia del Teatro all’Università Cattolica di Milano con una tesi pubblicata sul rapporto tra opera lirica e televisione: L’opera lirica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Vita e Pensiero ed.) Ha pubblicato Nascita e metamorfosi del melodramma nella TV italiana (in Le sigle televisive, Eri ed. RAI-TV). Grande appassionato di opera lirica, scaligero da sempre, ha collaborato con la rivista L’Opera e ha presentato a Radio Popolare profili di grandi cantanti del Novecento.

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