Nel ventennale, La Fenice ripropone l’allestimento della Traviata di Robert Carsen del 2004 che inaugurò il teatro finalmente ricostruito dopo l’incendio. Più volte ripreso negli anni, è ormai molto conosciuto, reperibile in DVD e anche visibile su RaiPlay. Nel rivederlo ancora una volta, mi suggerisce alcune riflessioni sulla contemporanea potenzialità creativa di riportare sul palcoscenico partiture d’opera composte secoli prima. Da molti anni, ritengo Robert Carsen uno dei più grandi registi che abbiano ripensato la messinscena del melodramma. Non è riuscito sempre a convincermi, ma ho ammirato la ben studiata e molte volte stupefacente monumentalità delle sue produzioni, l’osmosi proficua di idee con scenografi, costumisti, light designer e il gusto mai banale dei dettagli tra scena e personaggi che sa sintetizzare con efficacia raffinata i gesti e i movimenti di cantanti, coristi e figuranti. La sua indimenticabile regia, vista nel 2003 all’Opéra national de Paris, de Les Boréades di Jean Philippe Rameau diretta da William Christie fu una rivelazione sul concetto di regia d’opera oggi. Ai purtroppo tanti metteur en scène che si limitano pedissequamente a leggere soltanto il libretto come fosse un testo di prosa e poi ambientare La Bohème in un’astronave, Robert Carsen dà corpo invece a progetti registici d’ampio respiro, talvolta provocatori ma sempre partendo dalla musica e dal canto. Nel Falstaff scaligero, i coniugi Ford e le annesse comari sono solo degli arricchiti parvenue e acquista quindi senso ambientare la scena negli anni ’50 d’una Londra di case con cucine all’americana così di moda e ristoranti frequentati solo da arricchiti mentre il protagonista, nella piena coscienza del suo status aristocratico e con regale indifferenza ai torti subiti, alla fine invita tutti da imperante capotavola a un banchetto degno di Buckingham Palace. E Les contes d’Hoffmann, anni fa alla Scala, decisamente superiore alla nuova regia del 2023 nello stesso teatro, dove la componente metateatrale della messinscena che riflette su sé stessa fa apparire sul palcoscenico i luoghi stessi del teatro, di ogni teatro: le quinte, la platea, il foyer, il bar interno delle maestranze. Oppure nel visionario Midsummer Night’s Dream di Benjamin Britten, forse il suo capolavoro, produzione spesso ripresa ovunque. Anche nella recente Orontea di Antonio Cesti del 1656, un paio di mesi fa alla Scala, l’idea di trasformare la regina d’Egitto in ricchissima proprietaria d’una galleria d’arte di fama mondiale, e il derelitto ma poi ben mantenuto e reso celebre pittore Alidoro in rampanti presenzialisti della Milano-da-bere, tra affollati vernissage e party a oltranza con sfondo di grattacieli svettanti della New Milan di Porta Nuova e di Citylife, finisce per corrispondere alle reali psicologie – per quanto si possa parlare di psicologia in un’opera del XVII secolo – dei protagonisti. Di quasi tutti questi spettacoli esistono i DVD per chi non ha avuto la fortuna di assistervi e potremmo continuare l’elenco di passate ed eccezionali regie di Carsen scritte sull’acqua perché non esistono riproduzioni ma solo fotografie di scena.
Questa Traviata inaugurale della nuova Fenice aveva avuto vent’anni fa accoglienze molto tiepide, anche dissenzienti con fischi e buuu, e penso sia lecito dire che non è una delle sue produzioni più riuscite rispetto alle regie prima citate. Oggi è stata evidentemente metabolizzata dal pubblico veneziano e salutata da grandi applausi. Forse, a forza di vedere Elisir d’Amore ambientati in una spiaggia di Rimini, si riconosce in questo modo di raccontare le vicende di Violetta Valery un progetto che sa volare alto. Il filo rosso che lega drammaturgicamente tutti gli atti è il dare centralità al presupposto incontrovertibile che la protagonista è una prostituta. Ben esplicito il rapporto denaro-sesso che spesso diventa troppo marcato fin dall’ouverture a sipario aperto dove la protagonista viene presentata nella sua camera, su un letto sfatto e in succinto négligé, con una processione di clienti che a turno le riempiono il talamo di soldi. Nel primo atto piovono banconote sul suo “folleggiar di gioia in gioia” e nel primo quadro del secondo atto, sopraffatta da una gigantesca e incombente fotografia boschiva e da uno spietato Giorgio Germont che non lesina anche lui a metter mano al portafoglio, tutta la vicenda viene cantata su un vasto tappeto di “verdoni” che fanno da prezzolato prato. Ben ideata la scena della festa che dovrebbe essere a casa dell’amica Flora e viene invece ambientata in un cupo strip-club di terz’ordine d’estremo Midwest USA, dove le zingarelle sono ballerine lap-dance e i toreri go-go boys. Tutti luoghi di evidente degrado come in fondo la storia di Violetta dovrebbe essere raccontata. Eclissati dunque per sempre il lusso estremo dei fastosi saloni fin-de-siècle e lo sfarzo d’abiti e gioielli della regia di Liliana Cavani alla Scala, come se la protagonista fosse mantenuta non da un semplice barone Douphol ma direttamente dall’imperatore Napoleone III, come la contessa di Castiglione. La regia di Carsen, con livide scene e situazioni d’estremo squallore, mette in evidenza la quotidianità di chi cerca d’arrabattare la sua vita vendendo il proprio corpo. E il progetto della messinscena coinvolge tutti i personaggi. Perché Annina dev’essere sempre un’anziana serva compassionevole, pronta ai comandi della padrona con zelo protettivo? Eppure è ben consapevole della professione di Violetta e vede tutto quello che in casa succede, processione di clienti compresa: chissà quanti lenzuoli avrà cambiato ogni mattina. Carsen ha voluto una cantante giovane, una sorta di distaccata badante e tuttofare. Nell’ultimo atto, eliminata ogni scena, la povera moribonda distesa a terra si copre come può dal gelo del nudo palcoscenico con una pelliccia, forse ultimo ricordo di qualche generoso cliente. Appena l’orchestra chiude l’opera, Annina afferra la pelliccia da sotto la poveretta defunta da pochi secondi e fugge via. Perché stupirsi? In quest’ambiente, ogni rapporto è mediato dal dare e dal ricevere denaro, e il puro amore tra Violetta e Alfredo non può avere nessuna speranza.
Diego Matheuz è un ormai un direttore affermato in tutto il mondo e in qualche modo veneziano d’adozione, viste le molte collaborazioni con la Fenice. Come Gustavo Dudamel, è figlio della pratica didattica ed educativa venezuelana chiamata El Sistema. In un’intervista del 2010 di Alberto Mattioli a Claudio Abbado, il grande direttore affermò: «Diego Matheuz ha un grande talento. E un frutto del sistema messo in piedi in Venezuela da Josè Antonio Abreu, cioè la più grande, rivoluzionaria idea musicale degli ultimi decenni. Finora Abreu ha educato alla musica trecentomila giovani, sottratti alla povertà e alla violenza dei barrios, ragazzi che maneggiano uno strumento invece di una pistola. Quando suonano in orchestra danno l’anima, senza restrizioni, orari, regole sindacali. Impazziti per la musica». Oggi, direttore d’eccellenza, dà un’interpretazione di Traviata da par suo e si sente subito: la musica dell’ouverture ha già ha in sé il presentimento di tutto il dolore che Violetta sarà costretta a subire. Un’interpretazione analitica e al contempo emotiva e, per individuarne un momento, si prenda la conduzione dell’orchestra molto marcata negli accenti briosi all’inizio della festa a casa di Flora. Poi, l’apparizione improvvisa di Alfredo crea una forte tensione che viene risolta con stacchi di tempo veloce e con cesure del fraseggio. Nel successivo gioco alle carte, il canto è su poche note e Matheuz impone un ritmo incalzante e ripetuto in modo ossessivo. Quest’agitazione viene poi portata al massimo nell’angosciato ingresso di Violetta e del barone Douphol che acquista una progressiva concitazione musicale estinguendosi in un impercettibile e lungo pianissimo (pppp nella partitura) nell’ “Andiamo… Andiamo…” di Alfredo e del barone: progressione verso un implacabile vuoto sonoro che anticipa il drammatico duetto fra i due ex-amanti. Quando si dice dar risalto orchestrale alla grandezza compositiva di Verdi che sapeva far parlare anche i silenzi.
Violetta avrebbe dovuto essere sostenuto dalla spagnola Marina Monzò ma, indisposta, è stata egregiamente sostituita da Ekaterina Bakanova. Appena reduce con successo dalla Manon di Jules Massenet al Regio di Torino (su OPERA MUNDUS l’intervista di Ilaria Castellazzi), non s’è trovata impreparata avendo anni fa debuttato proprio alla Fenice in questo ruolo nello stesso allestimento. Straordinaria presenza scenica, la sua interpretazione è maturata nel tempo e riesce a cavarsela bene nell’abbandono amoroso dell’ “E’ strano!… è strano!”, come negli ardui vocalizzi del “Follie! Follie!”. Ma è nel fraseggio pieno di sfumature espressive che ce lo dimostra, soprattutto nell’ultimo atto e non soltanto nell’ ”Addio del passato” o nel duetto con Alfredo, ma nell’addolorato porgere le parole in apparenza meno significative come “Annina? (…) Dormivi, poveretta? (…) Dammi d’acqua un sorso. Osserva, è pieno il giorno? (…) Dà accesso a un po’ di luce”. Anche negli straziati piani dal timbro smagliante dell’ ”Alfredo, Alfredo, di questo core” ci fa ascoltare in un maturato registro medio e grave una “parola che si fa scena” che, nella situazione terribile in cui si trova alla festa in casa di Flora, dà i brividi. Ma è nella prima scena del secondo atto che Ekaterina Bakanova raggiunge l’apice nella difficile metamorfosi espressiva dalla felicità estrema alla più profonda disperazione, dallo svagato recitativo “Ah! ah!… scopriva Flora il mio ritiro!… E m’invita a danzar per questa sera!… Invan m’aspetterà…” all’inconsolabile esplosione dell’ “Amami, Alfredo”. Se si pensa che la Bakanova nel 2017 ha interpretato Magda della pucciniana Rondine al Maggio Musicale Fiorentino (visibile su RaiPlay), identico personaggio di mantenuta parigina interpretato però con il distacco calcolato di chi si concede un’avventura estiva in Costa Azzurra, coraggioso è l’esplorare in sé le infinite sfaccettature di Violetta, una che s’illude che sia Alfredo l’incarnazione del “dolcissimo signor dell’avvenire”, garante d’ogni felicità.
Francesco Demuro consegna ad Alfredo uno spessore psicologico che il personaggio forse non merita trasformandolo, in virtù di voce, in un giovane dall’irruenta esuberanza ma anche intimamente consapevole della superiore grandezza di Violetta; dall’immodesta superficialità che solo un amante banale può possedere alla presa di coscienza dell’amore puro e disinteressato della protagonista; dagli angusti panorami mentali d’un giovane presuntuoso catapultato in una Parigi demi-mondaine alle aperte visioni che sanno travalicare le convenzioni sociali sui ruoli immutabili che ogni donna deve rigidamente rispettare. Difficile dar lustro a un personaggio che, tra le righe del pentagramma, Verdi non amava e si sente: chissà quanti tentativi da parte del musicista e del librettista Francesco Maria Piave ci saranno stati per dare una qualche profondità drammaturgica ad Armand Duval, adolescenziale tombeur de femmes d’estrema provincia, nella Dame aux camélias di Alexandre Dumas figlio. Come dicevo, Demuro regala in virtù di voce qualche barlume d’intelligenza al personaggio nei bei legati nella sua dichiarazione del primo atto e nel duetto “Parigi, o cara” come nella sua scena protagonistica del secondo atto con un cantabile “tutt’amore” “De’ miei bollenti spiriti”, languido e impetuoso al contempo, e con finale e ben squillante do di petto a ritmo di polonaise nella cabaletta “Oh mio rimorso! Oh infamia!…”.
Giorgio Germont era Nicola Alaimo, baritono dalla voce importante e salutata da lunghi applausi alla fine del celeberrimo e cantilenante “Di Provenza il mare, il suol”. Restituisce un personaggio che per fortuna ha poco del pedante e anziano genitore, materializzazione di tutto il peggior perbenismo borghese: mostra invece una verve decisa e sanguigna, e non è disposto ad accettare soluzioni che siano diverse da quelle della sua volontà. Il canto è quindi imperioso, da vero patriarca e padre-padrone. Anche ogni apparire del suo robusto physique du rôle impone a tutti i personaggi una presenza carismatica che non ammette repliche e suscita una sorta di timore reverenziale. Sono le scolpiture implacabili dei recitativi che lo sottolineano nel duetto con Violetta, dal “Madamigella Valery?” al cantabile “Pura siccome un angelo”, un lento e dosato versar acido solforico goccia a goccia sulla povera protagonista. Anche nella sua improvvisa apparizione alla fine della festa a casa di Flora, Alaimo intona con veemenza “Di sprezzo degno” seguito dal dolente “Dov’è mio figlio… più non lo vedo” con la barcarolle di terzine d’accompagnamento che dà l’avvio al grande concertato della fine del secondo atto. Non so quanto si possa perdonare Giorgio Germont nell’atto conclusivo per tutto il male fatto a Violetta, nonostante il baritono ce la metta tutta per dare credibilità al “Di più non lacerarmi… troppo rimorso l’alma mi divora…” e, nel finale, “Finché avrà il ciglio lacrime io piangerò per te (…) O mio dolor!”, forse è solo il bel timbro di voce di Alaimo che riesce a convince il pubblico del pentimento. Dopo Alfredo, un altro personaggio del testo di Dumas non particolarmente gradito da Verdi, e ce lo dimostra in partitura facendogli fino alla fine replicare le compassate e ben squadrate melodie che lo hanno contraddistinto dall’inizio: sembra che il suo canto ci voglia sempre sottolineare l’impossibilità d’avere una nuora che faceva la prostituta.
Eccellente il coro diretto da Alfonso Caiani e, per tutti gli altri cantanti, l’allestimento è talmente rodato da anni che la resa vocale risulta sempre ben caratterizzata per ogni personaggio: molto rilevante infatti la loro presenza scenica nei momenti topici della vicenda: la Flora Bervoix, mantenuta che sa bene il fatto suo, è Loriana Castellano come il suo protecteur de haut rang Marchese d’Obigny interpretato da Matteo Ferrara; l’Annina premurosa solo per interesse, Barbara Massaro; Gastone grande amico d’Alfredo, Roberto Covatta; lo zelante Dottor Grenvil che non risparmia continue iniezioni di morfina a Violetta, Rocco Cavalluzzi; l’iroso Barone Douphol, Armando Gabba.