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Trieste, Teatro Verdi: Lucia di Lammermoor

Trieste, Teatro Verdi Lucia di Lammermoor - recensione Opera Mundus - ph F. Parenzan
Trieste, Teatro Verdi Lucia di Lammermoor - recensione Opera Mundus - ph F. Parenzan

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Ritorna al Teatro Verdi di Trieste Lucia di Lammermoor dopo l’edizione del 2018 diretta da Fabrizio Maria Carminati. E stavolta in gran spolvero d’ugole visto che Lucia è Jessica Pratt ed Edgardo di Ravenswood Francesco Demuro. Il giovanissimo baritono Maxim Lisiin, proveniente dalle estreme lande orientali della Russia che s’affacciano sull’Oceano Pacifico ma con debutto al Bol’šoj di Mosca, è Enrico Ashton e Carlo Lepore Raimondo. La direzione è affidata a Daniel Oren che sta anche preparando per il mese di maggio Rigoletto, prossima opera in cartellone del teatro triestino.

La produzione è interamente importata dal Teatro Pérez Galdós di Las Palmas de Gran Canaria. L’impostazione registica di Bruno Berger-Gorski è della più prevedibile convenzionalità: talvolta ricorda certe rappresentazioni operistiche di compagnie itineranti del genere Teatro Mobile Carro di Tespi, con apparati scenici ridotti e facilmente trasportabili, messe su alla meglio da un capocomico con l’unico scopo di dare risalto alla primadonna oppure al rinomato tenore di turno. L’insignificanza di questa regia la rende innocua e ci permette d’ascoltare l’opera senza soverchianti distrazioni visive: in fondo nei righi del pentagramma c’è già tutto, la musica e il canto sanno già da soli “mettere in scena” tutto il dramma dei due amanti infelici. Innocua, dunque, anche perché vediamo sorgere in terra germanica una nuova regista (non a caso pupilla di Damiano Michieletto), tale Ilaria Lanzino, che s’immagina deborderà a breve anche sui palcoscenici nazionali: all’Opera di Norimberga, la nostra Lucia diventa Luca di Lammermoor, soprano en travesti, un adolescente middle class che sembra scappato fuori da una teen serie televisiva del genere Heartstopper. Il poveretto è innamorato follemente del coetaneo Edgardo ma si scontra con la sua furibonda famiglia omofoba che gl’impone un matrimonio di copertura con Emilia (il ruolo di Arturo viene affidato a un mezzosoprano, con stravolgimento inevitabile della partitura). La prima notte di nozze commette il femminicidio della sua sposa e irrompe nel tinello di casa in una terrificante crisi psicotica. Alla fine, il tanto negato boyfriend Edgardo piange il triste destino d’essere stato abbandonato, e neanche con un messaggio whatsapp. Ci si chiede se possa esistere una via di mezzo tra la regia di Norimberga e questa di Trieste. Certamente, e – per citare alcune recenti messinscene – basta aver visto il Laurent Pelly de L’Opera seria scaligera di un mese fa o La traviata triestina di Arnaud Bernard a novembre, per non dire della riproposta di quella ormai storica di Robert Carsen alla Fenice, sempre a novembre. In questa regia triestina – comunque inoffensiva, per nostra fortuna! – d’ambientazione “Ottocento scozzese brumoso e avvolto nella più gotica delle oscurità”, i cantanti si muovono un po’ a caso su un pavimento a specchio, come usciti da quei manuali di gestualità teatrale di due secoli fa: anche nei momenti più concitati sembra d’assistere a un tè delle cinque nel più borghese dei salotti biedermeier, con improvvisi quanto improbabili sguainamenti di spade, agitate in aria in modo assai poco convinto come fossero acchiappafarfalle. Il momento clou della pazzia, ad esempio, viene svolto dalla scenografa Carmen Castañón con un semplice fondale di finestrone gotiche che danno su una tenebrosa foresta degna dei romanzi delle sorelle Brontë, con tre tristi lampadari a gocce che penzolando provano a dare una qualche luce alla scena. E, nella festa matrimoniale, il coro – molto ben diretto come sempre da Paolo Longo – improvvisa passi di danza con movenze da baccalà. La tradizionale fusciacca di tessuto tartan messa per obliquo dà un vago tocco scottish ai costumi, ideati da Claudio Martìn, che si limitano per le coriste a severi abiti neri da sciura che s’è infilata la prima cosa che gli è capitata nell’armadio per andare a un funerale oppure, per i coristi, semplici completi color topo giacchetta-pantalone (con piega ben stirata!) da saldi OVS. Poi, in ordine sparso sul palco, tutti i cantanti solisti in un dimesso défilé di costumi ricopiati senz’alcuno slancio creativo dai figurini del Journal des Dames et des Modes
Come al solito, Daniel Oren conduce l’orchestra e il coro del teatro triestino in modo molto partecipato nel gesto direttoriale fin dal breve preludio che introduce l’opera, un lento larghetto che sembra già far risuonare il cupo clima dell’overture di Rigoletto: una ritmica da marcia funebre per i lamenti dei corni, le trombe e i tromboni, i lenti colpi cadenzati delle percussioni.
È nel celebre concertato a sei voci che il direttore raggiunge la fusione più espressiva fra solisti, orchestra e coro. Alla sorpresa dell’apparizione d’Edgardo tutto l’ensemble si mostra musicalmente molto compatto, il tempo sembra immobilizzarsi e, quando Oren avvia un ben sostenuto pizzicato d’archi, ogni personaggio s’arresta, ciascuno chiuso in sé sia nelle proprie emozioni sia nello sforzo d’intuire quelle degli altri.

Purtroppo il duetto fra i due nemici Edgardo ed Enrico è stato tagliato, e ci si chiede il perché. Eliminata quindi la bella scena di tempesta prima del recitativo del tenore Orrida è questa notte come il destino mio: una tormenta anche interiore ai personaggi, metafora musicale dell’imperscrutabile forza esterna della natura, presaga dell’imminente e atroce dramma di Lucia.
Alla prima del venerdì 17, un attimo di panico nel momento d’apertura-sipario: l’annuncio dell’indisposizione di Jessica Pratt che comunque avrebbe cantato. Rispetto ad altre sue Lucie, qualche fatica d’emissione s’è potuta notare nel recitativo d’ingresso Ancor non giunse!… e nell’aria seguente Regnava nel silenzio. Ma, messo a fuoco che il controllo del suono era impeccabile e nonostante non si sentisse in piena forma, la Pratt ha avviato la parte in un crescendo straordinario, come solo pochi soprano possono permettersi. Fin dalla cabaletta Quando rapito in estasi ha infatti saputo restituire una coloratura perfetta che già palesava il forte disagio interiore della protagonista. Compositore e librettista s’allontanano infatti dal personaggio della Lucia del romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott che perde la testa solo alla fine del romanzo: attraverso repentini cambiamenti d’umore e vaneggiamenti, musica e parole disseminano nel canto il latente disturbo psichico che si scatenerà poi nella scena della pazzia. Ben si comprende come la passata tradizione d’affidare un ruolo così impegnativo a pigolanti soprani leggeri fosse sbagliata, abitudine a giusto titolo sbaragliata dalla rivoluzione-Callas. Solo soprani dalla corposa voce d’attitudine drammatica e con facilità nel virtuosismo belcantistico possono affrontare il ruolo: Lucia non è una querula ragazzina, ma una donna matura, consapevole di vivere in una società costrittiva e di subire imposizioni familiari e religiose, un personaggio che prende in mano il proprio destino nonostante la sofferta consapevolezza che ogni sua decisione possa sovvertire l’ordine costituito.

Anche dopo l’ingresso dell’Edgardo di Francesco Demuro, nel duetto del simbolico matrimonio fra i due giovani e poi in una delle più memorabili melodie per soprano e tenore mai scritte, la cabaletta finale Verranno a te sull’aure, i due cantanti volano in alto: è un’unica voce – l’emissione è alla stessa altezza nei due registri – metafora musicale di sintonia assoluta e amore eterno. Nel seguente duetto con Enrico, soggiogata dalla volontà del fratello, si aggrava lo stato di prostrazione di Lucia con gli accenti de Il pallor funesto, orrendo in cui lo rimprovera di crudeltà nell’agitato scandire Perdonare ti possa Iddio / l’inumano tuo rigor. Segue l’imposizione del matrimonio con Arturo e il soprano sottolinea con accenti mirabili che morire a quel punto è l’unica scelta possibile, come per Leonora de Il Trovatore: L’istante di morte è giunto per me (…) La tomba a me s’appresta! (…) Io son tanto sventurata, / che la morte è un ben per me!
Il clou vocale e interpretativo della Pratt, con ovazione finale da stadio, è concentrato inevitabilmente nel momento della follia della protagonista dopo aver assassinato l’aborrito neosposo Arturo. Scena complessa e assai lunga dal punto di vista musicale che nulla aggiunge all’azione, perché il suo educatore e confidente Raimondo Bibedent ha già raccontato con orrore agli astanti tutto quanto è accaduto. Quindi, ecco la tragica esplosione conseguente ai sintomi d’alienazione mentale che Gaetano Donizetti ha straordinariamente sparso in partitura e Salvadore Cammarano ha saputo compendiare nelle deliranti parole di questa grande scena. Una mente alienata che s’esprime attraverso affioranti spezzoni melodici ascoltati in precedenza e fantasmatiche visioni di felicità coniugale con l’amato Edgardo: percepisce un’armonia celeste, biascica stranita Ah! l’inno di nozze! Il rito per noi, per noi s’appresta, ritorna all’amoroso Verranno a te sull’aure… Siamo nella testa di Lucia e questo stato mentale non può che trasformarsi nella più astratta e artificiale possibilità della voce umana: il virtuosismo estremo del registro sopranile, le fioriture del più puro belcanto. Jessica Pratt sulle pazzie operistiche ha molto da dire, memore dell’epocale disco Pazzie celebri di Maria Callas del 1958, ha recentemente inciso il CD Delirio con l’orchestra e il coro del Maggio Musicale Fiorentino diretti da Riccardo Frizza. La sua intensa Lucia triestina si aggiunge alle molte interpretate sui palcoscenici del mondo e le permette di sfoggiare tutto l’armamentario della virtuosa da manuale di belcanto del genere Exercices pour la voix di Manuel Garcia padre: scale ascendenti e discendenti, messe di voce, legati, trilli, picchettati, roulade, note ribattute, ecc. Il tutto con una mirabile facilità di mezzevoci in piano e pianissimo negli attacchi d’ogni parola. Disgregato il numero chiuso apparentemente strutturato in recitativo Il dolce suono mi colpì di sua voce, aria Ardon gl’incensi, cabaletta conclusiva Spargi d’amaro pianto, il soprano ha molto ben evidenziato, anche attraverso la conduzione attenta del direttore Oren, il procedere per strappi vocali, per nessi e scarti privi di logica, per sparsi frammenti melodici naufragati nella mente di Lucia in totale dissociazione dalla realtà circostante. L’aver poi scelto la glassarmonica al posto dell’usuale flauto regala al canto la sorprendente sonorità d’una competizione e, al contempo, d’una simbiosi tra voce e strumento solista: un qualcosa d’allucinatorio indefinibile, quasi al limite dell’udibilità.

Per Francesco Demuro, nell’impervia parte di Edgardo, non si può che ribadire quanto scritto in merito alla sua interpretazione di Alfredo ne La Traviata di qualche mese fa alla Fenice. Il tenore era infatti riuscito in virtù di voce a regalare qualche spessore psicologico al personaggio verdiano, adolescenziale tombeur de femmes d’estrema provincia e d’immodesta superficialità nel suo catapultarsi nella più cinica Parigi demi-mondaine. Nel più sfaccettato personaggio donizettiano s’è potuta ascoltare fin dall’entrata la sua perfetta padronanza del ruolo: non ha una cavatina come la protagonista e il fratello Enrico perché quella che avrebbe dovuto essere l’aria di sortita Sulla tomba che rinserra diventa subito un duetto con Lucia. Dal recitativo, il tenore scandisce in modo appassionato ogni frase in un imperioso cantabile che ribadisce tutti i torti che gli Ashton hanno fatto subire alla sua famiglia e si conclude in splendide mezzevoci con la Pratt nell’aerea melodia a due Verranno a te sull’aure. Nella grande scena finale dell’opera introdotta dal recitativo Tombe degli avi miei, perfetto pendant per voce di tenore di quella sopranile appena precedente, Demuro regala un dolente canto alieno a ogni speranza, con un’espressiva dizione sillabata che solo un cantante che pensa e parla in italiano nella quotidianità può restituire in tutte le sue naturali sfumature di legamento fra le parole, d’impercettibili ma molto eloquenti anticipazioni e ritardi nei rubati, d’incisività drammatica nel fraseggio… Tutto questo si trasforma nel triste cantabile Fra poco a me ricovero con corni e fagotti che accentuano l’impotente disperazione del suo rivolgersi a una Lucia immaginaria e soprattutto nel sublime Tu che a Dio spiegasti l’ali dopo aver appreso la morte dell’amata. Demuro ne intona la prima parte in un tempo dilatato, ansioso di morte, e poi nel da capo dopo il suicidio con la frantumazione dell’andamento melodico in frasi pronunciate e altre dimenticate nella sofferenza, con accompagnamento di violoncelli: nel luttuoso dialogo tra la voce e gli strumenti, si percepivano i brividi degli spettatori.
Al baritono russo Maxim Lisiin il ruolo di Enrico Ashton. Apprezzabile voce dal timbro di buon metallo brunito, physique du rôle eccessivamente giovanile ma tutto sommato adeguato, anche se di scarso carisma per una parte di così grande peso vocale e scenico. La parte l’ha studiata con attenzione e a fondo, come si suol dire: “ha fatto il compito”. Per tutti coloro che lavorano nel teatro d’opera dev’essere imperativo categorico dare grande fiducia ai giovani cantanti a inizio carriera, ma si sa anche che il ruolo di Enrico è più un punto d’arrivo che di partenza. Infatti, nel duetto con la Pratt, non si capisce perché alla fine Lucia non riesca a imporre al fratello il coronamento del suo sogno d’amore con Edgardo vista la netta differenza d’autorità vocale fra i due: nonostante la bella voce, molto scarso è l’impeto degli accenti baritonali tanto da poter dare avvio all’atroce pressione psicologica che condurrà il soprano alla follia. Comunque, tutti i requisiti per una carriera di rilievo sembra che ci siano, ben lo dimostra la bella interpretazione da solista nel primo atto con il recitativo insieme a Normanno E n’ho ben donde. Il sai: / de’ miei destini impallidì la stella, la rabbiosa aria Cruda, funesta smania e la cabaletta La pietade in suo favore.

Complessa è anche la figura di Raimondo Bibedent interpretata dal basso Carlo Lepore con l’autorevolezza vocale e scenica che ha saputo sempre dimostrare sul palcoscenico anche in altri ruoli. Uomo di chiesa e compassionevole mediatore nei più drammatici momenti del racconto, si fa sentire fin dalla prima sortita Ah no, non credere, no, no con il baritono. Oppure, con la sua calda voce dal timbro molto scuro e di volume potente, nel duetto con Lucia si erge a custode della tradizione e, insensibile ai suoi sentimenti, la consiglia a fin di bene d’estinguere il suo amore per un derelitto ormai sradicato e sposare Arturo come esige il fratello. Nella coatta percezione religiosa di Raimondo il simbolico matrimonio con scambio d’anelli fra i due nel primo atto viene vanificato con un imperioso Tu pur vaneggi! I nuziali voti / che il ministro di Dio non benedice, / né il ciel, né il mondo riconosce evocando anche la madre morta di recente Ah! cedi, cedi, o più sciagure / ti sovrastano, infelice (…) o la madre nell’avello / fremerà per te d’orror. A questo punto, la povera Lucia non può che rispondere Ah! cede / persuasa la mente, / ma sordo alla ragion resiste il core! Il dovere e la famiglia: nell’opera lirica sono spesso il motore sociale che impone ogni possibile sacrificio, come Giuseppe Verdi ha meglio dimostrato con la prostituta d’alto bordo Violetta e l’arcigno patriarca di provincia Germont nel duetto de La Traviata. Con voce ferma e determinata, Carlo Lepore esprime al meglio la considerazione di tutti per la sua autorità, sia nel perentorio Rispettate in me di Dio / la tremenda maestà dopo il sestetto, sia nella parte solistica dell’orrorifico racconto Dalle stanze ove Lucia prima della grande scena della Pratt.
Miriam Artiaco come Alisa, Nicola Pamio come Normanno ed Enzo Peroni come Arturo hanno accettabilmente interpretato i rispettivi tre ruoli.

Lucia di Lammermoor- 17 aprile 2025 – Teatro Verdi di Trieste

Musica di Gaetano Donizetti
Libretto di Salvatore Cammarano

Dramma tragico in due parti e tre atti dal dramma The Bride of Lammermoor di Walter Scott

CAST

Lucia: JESSICA PRATT

Edgardo: FRANCESCO DEMURO

Lord Enrico: MAXIM LISIIN

Raimondo: CARLO LEPORE

Lord Arturo: ENZO PERONI

Alisa: MIRIAM ARTIACO

Normanno: NICOLA PAMIO

Maestro Concertatore e Direttore: DANIEL OREN
Maestro del Coro: PAOLO LONGO
Regia: BRUNO BERGER-GORSKI
Scene: CARMEN CASTAÑÓN
Costumi: CLAUDIO MARTÍN
ORCHESTRA, CORO E TECNICI DELLA FONDAZIONE TEATRO LIRICO GIUSEPPE VERDI DI TRIESTE

Allestimento di Amigos Canarios
de la Ópera di Las Palmas de Gran Canaria

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Emilio Pappini

Vive e lavora a Milano e Trieste e si occupa di Storia dell’arte. È laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Genova e specializzato in Storia del Teatro all’Università Cattolica di Milano con una tesi pubblicata sul rapporto tra opera lirica e televisione: L’opera lirica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Vita e Pensiero ed.) Ha pubblicato Nascita e metamorfosi del melodramma nella TV italiana (in Le sigle televisive, Eri ed. RAI-TV). Grande appassionato di opera lirica, scaligero da sempre, ha collaborato con la rivista L’Opera e ha presentato a Radio Popolare profili di grandi cantanti del Novecento.

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