Opera del debutto di Giacomo Puccini, “Le Villi” non è mai entrata stabilmente nel cosiddetto grande repertorio. Eppure l’accoglienza di pubblico e critica, in quel lontano 1884, era stata lusinghiera, tutta tesa a sottolineare soprattutto il sinfonismo dell’autore toscano come nuovo sbocco per l’opera italiana.
In luce vi erano elementi che il futuro Puccini avrebbe trattato con ben altri mezzi: si pensi alla poetica delle “piccole cose” che accomuna la parte iniziale della protagonista Anna alla futura Mimì, al breve preludio in cui non è difficile scorgere gli abbandoni orchestrali di “Manon Lescaut” oppure l’uso del valzer che tornerà esaltante nella “Rondine” e inquietante nel “Tabarro”. Tutto ciò non è bastato a esorcizzare una certa diffidenza verso la triste storia di Anna, che muore di dolore per essere stata abbandonata dal suo Roberto, e delle sanguinarie creature ultramondane evocate per vendicarne il torto subito.
Senza arrivare al giudizio di Celletti che parlò di “opera da dimenticatoio”, “Le Villi” ha senz’altro bisogno di un notevole dispiegamento di forze per far bella figura e il Regio ha confezionato una messinscena memorabile. La regia di Pierfrancesco Maestrini e le scene di Guillermo Nova sono d’impronta classica e regalano dei tableaux vivants come raramente se ne vedono: tutto è espresso in modo elegante, raffinato, il sovrapporsi di immagini proiettate e classici fondali è fatto con intelligenza mentre i costumi paiono uscire da un quadro di Boldini. Riccardo Frizza è a capo di un’orchestra che trae dalla sua tavolozza ogni colore possibile mentre il coro diretto da Ulisse Trabacchin ci ricorda, ma non ce n’era bisogno, quale sia oggi il vero punto di forza del teatro torinese.
I tre protagonisti hanno sorte diversa. Il baritono Simone Piazzola, nei panni di Guglielmo, padre di Anna, dimostra tutta la nobiltà del ruolo: in “Anima santa della figlia mia” trova i giusti accenti accorati e viene a capo senza sforzi di una tessitura in cui le note acute erompono quasi all’improvviso. La protagonista, Roberta Mantegna, anche se canta benissimo “Se come voi piccina”, pare molto più a suo agio nel finale quando Anna si libera delle vesti di candida innamorata per ergersi a giudice del suo amato: “Ricordi quel che dicevi nel mese dei fior?” è lanciato come un potente guanto di sfida (la mente va subito a Turandot, ossia la prima e l’ultima delle eroine pucciniane) e il finale “Sei mio!” è scandito in modo spaventoso ed emozionante. Il tenore Azer Zada, nel ruolo di Roberto, sfoggia un bel timbro di voce nella zona centrale che però pare sfaldarsi nel registro acuto. Ancora una volta alla recita assisteva un folto pubblico giovane che ha apprezzato la messinscena (era impossibile non sentire i commenti durante l’intervallo o a fine serata): chi scrive è convinto che se uno spettacolo non tradisce la lettera e lo spirito del libretto avrà le frecce migliori per affascinare la platea. Magari ne riparleremo.