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Torino, Teatro Regio: La Dama di picche – un noir tra amore e gioco d’azzardo

Torino, Teatro Regio La Dama di picche - - recensione Opera Mundus - ph Mattia Gaido
Torino, Teatro Regio La Dama di picche - - recensione Opera Mundus - ph Mattia Gaido

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La Dama di picche di Pëtr Il’ic Čajkovskij non sfigurerebbe come thriller psicologico, in cui il protagonista è vittima di se stesso e delle proprie ossessioni fino a perdere tutto. L’opera è tratta dall’omonimo racconto di Puškin, ridotto a libretto dal fratello del compositore, Modest Čajkovskij, con notevoli differenze rispetto all’originale; Čajkovskij sceglie una strada completamente diversa rispetto all’ironia e alla concisione del racconto di Puškin, disegnando, letteralmente, i sette Quadri in cui sono suddivisi i tre atti, con una descrizione d’ambiente che si fonde perfettamente con i sottili intenti drammaturgici, e mostrando pienamente la maturità teatrale raggiunta in questo lavoro che egli amava tanto. Il finale differente, con il doppio suicidio di Liza e German – mentre nell’originale lui finiva i propri giorni in manicomio e lei sposava un altro! – mostra, altresì, la decisa virata tragica che Čajkovskij volle dare all’opera, vero e proprio teatro dell’anima in cui viene raccontata, senza sconti, la deriva di due individui che, seppur diversissimi, non riescono, nello stesso modo, a trovare il proprio posto nel mondo, soccombendo infine all’impossibilità di vivere.

La Dama di picche andata in scena a Torino è un nuovo allestimento della Deutsche Oper Berlin in coproduzione con il Teatro Regio di Torino. Tra atmosfere rococò-pop, vecchie pellicole in bianco e nero, linee geometriche segnate da luci al neon le bellissime scene di Stuart Nunn (che firma anche i costumi) sono in bilico tra un presente distopico ed un passato che non ha nulla di idilliaco; l’apertura di sipario, su una veduta che pare un quadro di Magritte – quinte mobili aperte su un fondale di cielo dai colori carichi, abbondanti, quasi psichedelici – introduce alla vivace scena del Giardino estivo di Pietroburgo, in cui la folla si gode il sole mentre German, spettatore muto e prigioniero dei propri dèmoni interiori, si tiene celato dietro le sbarre dorate delle porte del giardino stesso. La scena in cui i bambini, piccoli soldatini obbedienti cresciuti a pane ed armi, si accaniscono contro un ragazzino isolato, solo, vestito poveramente, è specchio dello stato d’animo di German, escluso dalla vita dorata e perfetta che attribuisce al resto del mondo, bersaglio degli strali che egli immagina gli siano indirizzati. In realtà la folla è assolutamente indifferente a lui, che si autoelimina dal vivere esattamente come fugge l’amore, immaginato e sognato da lontano, rivolto ad una fanciulla di cui dichiara di non voler conoscere il nome perché per lui inarrivabile…la regia di Sam Brown, che riprende quella originaria di Graham Vick, scomparso prima di completarla, esplora i meandri di una realtà distopica, proiettata sull’invidia della felicità altrui, che appare perfetta, desiderabile, e raggiungibile, nel caso di German, attraverso una sostanziosa vincita al gioco, vero e proprio riscatto sociale. La Contessa, in questo senso, diventa il personaggio centrale, che possiede la chiave di questa promessa di felicità, e che il protagonista rivede, nella propria follia, ovunque: nei volti dei partecipanti al ballo in maschera, nell’Imperatrice che compare al ballo stesso e che – solo per lui – ha le sembianze della Contessa, ma soprattutto nei suoi incubi, addirittura nei panni di Liza… o quando, finalmente, la donna, ormai morta, gli rivela dall’aldilà (o più probabilmente dall’inconscio?) il segreto della perfetta ed infallibile combinazione di carte. È come se la Contessa, morta a causa dello spavento procuratole dalle minacce di German, fosse ora più che mai decisa a tenerlo in pugno, con quelle fatidiche “Tre carte” che – se non accompagnate dal matrimonio con Liza – diventano feroce strumento di rovina. 

Registicamente e visivamente la più riuscita dell’intera opera è la grande scena sul fiume Neva, con i molteplici piani – la banchina presso i flutti gelidi, il ponte con la grande arcata di luce, le scale, le ringhiere a dividere inesorabilmente German e Liza: inizialmente motivo di contrasto fra i due fratelli Čajkovskij, fu fortemente voluta da Pëtr, che ne comprese l’impatto emotivo di un dialogo impossibile tra due persone che ormai parlano linguaggi opposti, l’uno perso nel delirio della dipendenza dal gioco, l’altra consapevole di aver provato invano a fuggire da una vita all’interno di una gabbia dorata.  Altrettanto ben strutturata la scena in caserma, nell’appartamento di German, dove le mille foto di Liza appese alle pareti – che comparivano, nel fondale, anche nel II quadro del I atto in camera di lei, come un’oscura minaccia – davano quel tocco morboso e patologico all’amore disturbato del protagonista per la nipote della Contessa.

Meno convincente, e un po’ gratuita, la scelta di trasformare il ballo in maschera in un’orgia a scena aperta: sarebbero bastati lo stile discoteca anni ‘80, le luci fluo e le acconciature di un Settecento molto pop a rendere l’atmosfera di parossistico divertimento che si dispiega crudelmente di fronte agli occhi di un attonito e sgomento German, al centro, suo malgrado, dell’attenzione puntata su di lui, come in un incubo in cui deve recitare e cantare una parte che non conosce. Per contro, orge a parte, efficaci e ben inserite nel contesto le coreografie originali di Ron Howell.

Non manca, anche in questo allestimento, il ricorso al cinema durante i momenti salienti della vicenda, ad esempio il racconto del misterioso passato della Contessa da parte del conte Tomskij, o il preludio alla morte di lei nella sua sontuosa camera da letto: la pellicola proiettata è, ça va sans dire, Pikovaja dama (La Dama di picche), film muto del 1916, diretto dal regista russo J. A. Protazanov, fautore del realismo psicologico e specializzato in riduzioni cinematografiche dai grandi classici della letteratura.

La direzione di Valentin Uryupin, alla testa di una sempre magnifica Orchestra del Teatro Regio di Torino, pur nella solidità della concertazione e delle scelte che evidenziano il colore degli impasti timbrici, così importante per il repertorio russo, non convince pienamente; manca il “fuoco” che dovrebbe incendiare l’orchestra e muovere l’animo degli ascoltatori, in particolar modo in una partitura come questa, che oscilla pericolosamente fra il terrore più cupo e le sonorità lievi ma mai leziose di mozartiana memoria. Si avverte, specialmente nella prima parte dell’opera, un volume sonoro che tende a sovrastare le voci, ed uno scollamento piuttosto importante fra la buca e il palcoscenico, con alcuni (brevi) momenti di evidente difficoltà specialmente della massa corale. Il Coro del Teatro Regio di Torino, comunque, al solito splendidamente preparato dall’inossidabile Ulisse Trabacchin, risolve egregiamente il proprio ruolo,  con una particolare attenzione alla riuscita dei movimenti scenici, spesso impegnativi e drammaturgicamente complessi. 

Veniamo ora alle voci soliste: un cast nutrito ed interessante, con alcuni elementi di spicco.

La Contessa di Jennifer Larmore è tutt’altro che una vecchia prossima alla morte, come prevederebbe il libretto: la scelta registica di farne una diva del cinema, un po’ Ute Lemper, un po’ Marlene Dietrich, ben si accompagna alla resa scenica del personaggio, che il mezzosoprano statunitense colora di un’aura di fatalità e di fascino tenebroso e sensuale. La voce scura e piena, ben sostenuta e dal timbro inconfondibile, ben proiettato e con un bellissimo legato, restituisce ogni accento, ogni sfumatura della parte: il capriccio della gran dama annoiata, la severità nei confronti della nipote Liza, la crudeltà venata di sottile seduzione con cui avvince German in una tremenda partita con il Destino. 

Mikhail Pirogov risolve con efficacia la non semplice parte di German, che compare in tutte le scene e che, dunque, necessita di un controllo notevole e di un attento dosare le forze. Il tenore padroneggia bene i salti, i cambi repentini, gli slanci, il declamato sempre misurato e mai sopra le righe: anche se a volte manca un po’ di quell’ansia tormentata e disperante che il personaggio richiede riesce a scolpire abbastanza bene i rovelli interiori di German. Molto riuscite le parti in cui interagisce con le due protagoniste femminili: con Liza mostra accenti di autentica passione, mentre nel confronto con la Contessa fa emergere bene l’attrazione morbosa, venata di un sottile terrore, nei confronti della donna e del segreto che ella custodisce. 

Liza è interpretata con un velo di malinconica grazia, che ben si addice al personaggio, da Zarina Abaeva; pur costretta in un costume di raso celeste molto ampio e pomposo che non le rende giustizia (o forse anche in virtù di ciò?)  Abaeva restituisce i tormenti di un’anima imprigionata in una realtà dorata in cui si dibatte e soffoca. Ha il nobile lignaggio, la ricchezza, l’amore di un Principe: eppure ella sogna la libertà e abbraccia con slancio l’amore di un “angelo caduto” che la trascini fuori dalle lussuose stanze del Palazzo della Contessa. Il soprano russo, con una gestualità trattenuta e tremante, una voce con qualche lieve ombra nel registro acuto ma piena, sicura e dal bel colore, con emissione controllata e sicura, è una Liza riuscitissima, molto “vera”. 

I due baritoni Elchin Azizov e Vladimir Stoyanov, rispettivamente il conte Tomskij ed il principe Eleckij, promesso sposo di Liza, suscitano grandi consensi per le loro magnifiche interpretazioni. Azizov è un conte vigoroso e vivace, con ottime doti attoriali, che aggiunge un tocco di verve ad una voce dal bellissimo colore, molto “russo”, e dai tratti pieni e decisi; Stoyanov, invece, dà vita ad un personaggio dall’eleganza raffinata e nostalgica, lasciando trasparire l’amore puro e dolente per Liza, già segnato dall’ombra poiché non ricambiato. L’emissione ben modulata, il fraseggio, l’intenzione precisa e scenicamente presente concorrono in una prova vocale dall’esito felicissimo.

Nei ruoli “minori” si distingue il mezzosoprano turco-tedesco Deniz Uzun, una Polina dai tratti ben delineati e dal timbro vellutato e lucente. La sua romanza accompagnata dal pianoforte è un piccolo gioiello. 

Completano efficacemente il cast Ksenia Chubunova (la Governante), Alexey Dolgov (Čekalinskij), Joseph Dahdah (Čaplickij), Irina Bogdanova (Maša), Vladimir Sazdovski (Surin), Viktor Shevchenko (Narumov) e Luca Degrandi (voce bianca, il Piccolo comandante).

Qualche contestazione per il versante registico non inficia il plauso entusiastico tributato dalla sala, che non risparmia la propria approvazione sia durante le singole scene che negli applausi finali, e teatro gremito nonostante il titolo non popolarissimo: una evidente dimostrazione del fatto che sia necessario dare più fiducia al pubblico, e che produzioni di alta qualità, per quanto apparentemente “non facili”, possano riservare inaspettate quanto belle sorprese. 

3 aprile 2025 – La Dama di picche – Teatro Regio di Torino

Musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij
Libretto di Modest Il’ič Čajkovskij
tratto dall’omonimo racconto di Aleksandr Puškin
CAST

Zarina Abaeva Liza

Mikhail Pirogov German

Jennifer Larmore la Contessa

Elchin Azizov il conte Tomskij

Vladimir Stoyanov il principe Eleckij

Deniz Uzun Polina

Ksenia Chubunova la Governante

Alexey Dolgov Čekalinskij

Joseph Dahdah Čaplickij

Irina Bogdanova Maša

Vladimir Sazdovski Surin

Viktor Shevchenko Narumov

Luca Degrandi voce bianca, il Piccolo comandante

Valentin Uryupin direttore d’orchestra
Sam Brown regia
Sebastian Häupler ripresa della regia
Stuart Nunn scene e costumi
Ron Howell coreografia originale
Angelo Smimmo ripresa e adattamento della coreografia
Linus Fellbom luci
Martin Eidenberger video
Claudio Fenoglio maestro del coro di voci bianche
Ulisse Trabacchin maestro del coro
Orchestra, Coro e Coro di voci bianche Teatro Regio Torino
Allestimento Deutsche Oper di Berlino
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Ilaria Castellazzi

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