Le stagioni operistiche hanno bisogno di linfa nuova. Il messaggio è stato percepito perfettamente dal Regio di Torino che in quest’ottica ha proposto la prima messinscena italiana di ” The Tender Land ”, vero e proprio gioiello di Aaron Copland datato 1954. L’ambientazione nell’America rurale della Grande Depressione pare continuare il discorso analitico sullo scontro fra società e individuo che circa vent’anni prima aveva cominciato lo scrittore Erskine Caldwell con la sua celebre “Via del tabacco”.
Personalità di ampia cultura, Copland compone una musica che segue l’azione ma che non disdegna di cedere alle forme classiche del melodramma: troveremo così interessanti recitativi come quello iniziale di Ma Moss (la madre di Laurie, una Ksenia Chubunova che una volta di più conferma la sua statura di grande contralto disegnando una figura che ha ancora velleità amorose nonché gelosa della gioventù della figlia), alcuni ariosi per Laurie Moss (la protagonista, incarnata da una dolcissima Irina Bogdanova vocalmente e scenicamente ineccepibile), un lungo duetto d’amore a inizio secondo atto nonché diversi momenti d’insieme come il finale primo, in cui un duetto trasmuta in quintetto.
Si diceva della Bogdanova nei panni di Laurie, anima travagliata in cui si affaccia il desiderio di una vita nuova anche se questo comporta abbandonare i propri luoghi d’origine. Il giovane soprano riesce a trasmettere tutta l’evoluzione a cui va incontro il personaggio nell’arco dell’opera e, nel secondo atto, la splendida frase “The closer I feel to our land, / the more I wonder what those other lands are like” sussurrata con gli occhi fissi lontano ci indica il preciso momento in cui Laurie acquista piena coscienza di sé e comincia a distaccarsi dal contesto patriarcale che l’ha bista arrivare addirittura alla laurea. Nella parte dell’innamorato Martin, il tenore Michael Butler sfoggia una voce dal timbro privilegiato (e piacerebbe che si accostasse quanto prima a qualche grande titolo italiano): un innamorato a cui non arride fortuna, colpevole solo della sua origine vagabonda che quel gretto contesto non gli perdonerà condannandolo a fuggire ancora.
L’intero cast ha dato il meglio per condurre in porto quella che si potrebbe definire opera ‘da camera’, che ha trovato nel ridotto palcoscenico del Piccolo Regio il luogo ideale in cui prendere vita (ricordiamo che, inizialmente, Copland aveva previsto una messinscena televisiva per la sua creatura). La regia di Paolo Vettori è stata efficace nel presentare l’angustia anche mentale in cui vivono i personaggi ricorrendo a simboli precisi (come il modellino della casa cha fa bella mostra di sé all’inizio o il filo rosso che lega i due innamorati all’inizio del terzo atto ma che si spezzerà quando Laurie capisce che il suo Martin è scappato da lei non riuscendo a lasciarsi alle spalle la sua vita precedente).
Alessandro Palumbo ha diretto con grande attenzione un meritevole organico da camera in cui spiccava la presenza di Paolo Grosa, prezioso maestro del teatro torinese, al pianoforte.
La sala era gremita, il pubblico molto giovane entusiasta: il giusto esito per un serata all’insegna di un repertorio che speriamo di ritrovare nelle future locandine.