“Non dover, non poter altro che ridere! Il retaggio d’ogni uom m’è tolto…il pianto!” [Atto I, scena VIII]. Se il personaggio di Rigoletto dovesse essere condensato in un passo del libretto, sarebbe questo: tutta l’amarezza, la consapevolezza, il rancore del buffone di corte costretto a divertire chi lo disprezza e si prende gioco di lui per la sua deformità. Una deformità, sulla scena che si è mostrata agli spettatori del Teatro Regio di Torino, viva e tangibile, che investe non soltanto Rigoletto, bensì l’intero ambiente e tutti i personaggi che lo animano.
Enormi specchi bruniti, screziati, ondulati dominano infatti una scena girevole formando un muro dalle differenti inclinazioni, che muta continuamente aprendo e chiudendo ambienti, svelando o nascondendo, diventando simbolo di un mondo in disfacimento solo in apparenza euforico e gaudente.
In apertura, il grande tableau vivant dei cortigiani intenti a far baldoria, tra donne discinte, alcol a fiumi e maschere suine, nasconde in sé la frenesia venata di inquietudine di una Belle Époque che, in realtà, può essere letta come qualsiasi epoca, facendosi scenario universale per un uomo che ha smarrito se stesso. Non a caso, contraltare di questo mondo fasullo, l’unico specchio non deformante è quello in cui Rigoletto riflette la propria immagine, segnata dall’alopecia ed ancor più dalla solitudine, mentre si prepara ad indossare i panni e la maschera del buffone, pronto a diventare derisore e deriso, autore e bersaglio di strali pungenti e crudeli, perché la natura e gli uomini l’hanno reso ciò che è…e qui il costume disegnato per lui dalla bravissima Silvia Aymonino, a metà fra Joker e una maschera carnevalesca, mostra proprio sulla schiena, sulla tuta rosso scarlatto, una sagoma per il tiro a freccette…la classica “gobba”, appena accennata, lascia il posto ad una ben più puntuale ed efficace raffigurazione di ciò che Rigoletto rappresenta per la corte in cui trascorre le giornate: un bersaglio, appunto.
Gli ambienti, scarni ed essenziali, scolpiti dalle luci ora spettrali, ora taglienti di Alessandro Verazzi, sono pressoché vuoti; è come se i personaggi si muovessero sempre in un unico, soffocante luogo, che si avvolge su se stesso in spire come il praticabile girevole ruota per mostrarci una realtà distorta.
La regia di Leo Muscato si muove in questa direzione multiforme e straniante, tesa a cogliere soprattutto le contraddizioni, le luci abbaglianti e le ombre più fitte di una partitura che è già essa stessa una narrazione puntuale e nettissima; i cambiamenti operati nell’ambientazione, lungi dall’allontanare dall linea drammatica, ne accentuano ulteriormente la direzione: il rifugio in cui Rigoletto nasconde la figlia è un convitto/educandato gestito da suore, l’osteria in cui Sparafucile offre i suoi servigi in punta di coltello diventa una decadente fumeria d’oppio e postribolo in cui provocanti prostitute, in testa la sorella di lui Maddalena, accompagnano gli uomini nel viaggio verso l’oblio. Un’altra scelta efficace seppur di notevole impatto sull’impianto drammaturgico è stata quella di far morire immediatamente Monterone, subito dopo il dialogo con Rigoletto e la tremenda “Maledizione”, cifra dell’intera opera fin dalle prime note; le successive apparizioni del Conte, in forma di spettro visibile soltanto al buffone di corte, accentuavano il senso di straniamento e di fragilità del personaggio, come preda di allucinazioni.
Gilda vive in un mondo tutto suo, chiuso nei confini dai colori tenui del suo abito ceruleo, delle sue scarpette quasi infantili, della cappella rischiarata da innumerevoli candele dove una Madonnina di gesso sorveglia i suoi sogni d’amore, tanto ingenui quanto incauti. Dopo aver incontrato quello che crede uno studente, ovvero il Duca, sfrontato libertino nel proprio palazzo e quasi timido di fronte alla ragazza, ella ripete “Gualtier Maldé” fino allo sfinimento, come una teenager che scriva mille volte, sul diario segreto, il nome dell’innamorato. E fino allo sfinimento, e alla caparbia decisione di morire al posto suo, rimarrà nel terzo atto a crogiolarsi nel dolore di vederlo fare una serrata corte a Maddalena, senza però risolversi a provare per lui una briciola di risentimento. Quel nome, cui ella si aggrappa con tutta se stessa, è l’unico che viene svelato all’interno dell’opera, ed, oltretutto, è falso…poiché né il Duca né Rigoletto stesso svelano mai il proprio a Gilda.
Rigoletto, padre premuroso fino all’ossessione; per preservare la creatura che rappresenta per lui non soltanto la famiglia, ma l’intera sua vita, ne fa una disadattata, chiusa a qualsiasi rapporto umano, e perciò ancor più facile preda della rete del primo uomo con il quale ella venga in contatto, priva com’è di qualsiasi difesa, di un briciolo di malizia. Gilda è, per Rigoletto, quasi un’icona, un fiore di serra da tenere nascosto, ed è bellissima l’idea registica di evitare volutamente ed ostentatamente ogni contatto fisico, nel duetto “Oh quanto affetto, quali cure!” tra padre e figlia, quasi che Rigoletto temesse di “sporcarla” con il proprio contatto. Un contatto che arriverà soltanto nel secondo atto, dopo il rapimento da parte dei cortigiani e la conseguente “onta” subìta da Gilda; è come se, allora, padre e figlia si riconoscessero, uniti nell’essere stati contaminati dall’ambiente corrotto e malvagio della corte, stretti in un abbraccio che è, insieme, consolazione e accettazione di sé, del proprio essere.
La bacchetta di Nicola Luisotti ha disegnato, letteralmente, la vicenda, volgendo e svolgendo gli eventi e dimostrando, se ancora ce ne fosse bisogno, che la partitura verdiana è il vero motore dell’azione scenica. L’Orchestra del Teatro Regio di Torino, una garanzia ormai, ha seguito ogni respiro, ogni più piccolo gesto del direttore che l’ha guidata in una direzione cinematografica, solidissima, priva di qualsivoglia leziosità, sempre viva nei colori, nelle trasparenze, nelle corrispondenze, vero e tangibile sostegno alle parti vocali. Nel “Cortigiani, vil razza dannata!” il suono arrivava in ondate duttili, sapientemente mosse da Luisotti, ora furiose, ora sussurranti, ma sempre mobili, energiche, dense, modellate perfettamente per aderire alla parte vocale, enfatizzarla, sostenerla. Parimenti, nella tempesta dell’ultimo atto, l’orchestra ha dipinto su un fondale spettrale i suoni del temporale, sostenuta dal sapiente uso – sul palco come all’interno della sala – di effetti di luce sui lampi, rendendo la scena un’esperienza immersiva anche per il pubblico. Gli elementi dietro le quinte hanno aggiunto alla scena profondità di suono e di voce, diventando parte integrante dell’azione scenica come dell’intensità che la muoveva.
Last but not least, le voci: prima di tutto il Coro, maschile, dei Cortigiani, che il Coro del Teatro Regio (altra garanzia) ha trasformato magicamente in un sinuoso personaggio collettivo, pronto all’azione scenica come e quanto agli interventi vocali, magistralmente preparati da Ulisse Trabacchin. Compatto e quasi sincronizzato, ha dato vita ed anima ad una compagine priva di qualsiasi descrittività, vivissima, dai colori intensi e dalla gestualità potente.
La Maddalena di Martina Belli, sensuale ed ammaliante, ha unito un physique du rôle perfetto ad una vocalità intensa e sicura, con un bel timbro scuro ed un fraseggio ben modellato; lo Sparafucile di Goderdzi Janelidze, basso dal bel colore, preciso e ben fermo anche nella tessitura più grave, ha dimostrato altresì sicurezza scenica e doti attoriali notevoli.
Piero Pretti è stato un Duca di Mantova dall’emissione sicura e dalla presenza scenica sbarazzina e a tratti leggera, forse un po’ messa in ombra dagli altri protagonisti; a pensarci bene, però, è proprio questo l’intento perseguito da Verdi, che insieme al librettista Piave sposta il perno dell’azione dai “divertimenti del re” del dramma originario al vero motore scenico, ovvero Rigoletto, protagonista assoluto fin dal titolo di questo soggetto così bistrattato dalla censura e tante volte tagliato, rimaneggiato, spostato di tempo e luogo, ma infine trasformato in capolavoro drammaturgico oltre che musicale. Il Duca, del resto, non veste i panni del cattivo; egli è, piuttosto, l’emblema della superficialità, che soddisfa il suo ego facendo cadere sempre nuove prede ai propri piedi…
Il suo “Questa o quella per me pari sono” è apparso vocalmente pulito e ben sostenuto, ma è nel duetto d’amore con Gilda che Pretti ha dato prova di accenti autenticamente coinvolti, quasi teneri, uniti ad una precisione nelle fioriture e nel controllo dei fiati davvero notevoli. “La donna è mobile”, infine, musica di scena, è stata un capolavoro di disinvolta spavalderia, vocale ed interpretativa, accolta con entusiasmo dal pubblico, che più volte nel corso della serata è intervenuto a scena aperta per esprimere un genuino, autentico plauso.
Giuliana Gianfaldoni È Gilda: tutta la tenerezza, l’ingenua espressività di un personaggio che può, altrimenti, facilmente scadere nel patetico o nel lezioso, sono stati fin dal primo momento scolpiti dal soprano tarantino con un timbro purissimo ed un’emissione superbamente controllata, filati precisi, acuti nitidi e potenti, sostenuti da una tecnica accuratissima e da un’intonazione lucida e perfetta. In “Caro nome” ogni pianissimo era incredibilmente pulito, le fioriture cesellate come pizzi, ed il trasporto dell’interpretazione è stato autentico e struggente; in “Tutte le feste al tempio” gli accenti più scuri e drammatici hanno reso il tormento del personaggio senza peraltro intaccare l’aura di dolcezza e bontà di cui la Gianfaldoni ha circonfuso la sua Gilda, mentre il colore flautato ed angelico che ha saputo dare, nel corso dell’intera prova, alla tessitura acutissima ha incantato il pubblico, che le ha tributato vere ovazioni, a scena aperta e a fine recita.
E infine lui, Rigoletto, il vero protagonista dentro e fuori la scena, in grado di riempirla completamente anche quando non si trovava sul palco: George Petean ha dato al personaggio vibrazioni incredibilmente potenti, trovando il giusto colore per ogni frase, riuscendo a scindere meravigliosamente il buffone impietoso dal padre amorevole, il vendicatore implacabile dall’uomo solo e disperato. Il suo timbro si è rivelato scuro, levigato, potente ma preciso fin nelle emissioni più flebili, ricco di sfumature e mai sopra le righe, pur risultando di statura tale da eclissare quasi i comprimari. Applauditissimo dal pubblico, il baritono rumeno ha dato una prova notevole, sia vocalmente che scenicamente, con alcuni momenti di vera grandezza, uno su tutti il “Cortigiani” guizzante, tremendamente vivido, senza dimenticare il duetto del I atto con Gilda, capolavoro di adorazione e disperazione insieme, o l’accorato “Veglia, o donna, questo fiore” che quasi ossessivamente ripiegava su se stesso, accentuando l’aspetto nevrotico di Rigoletto nella sua iper protettività nei confronti della figlia.
Completavano molto pregevolmente il cast Emanuele Cordaro nei panni di Monterone, Janusz Nosek come Marullo, Daniel Umbelino nel ruolo di Matteo Borsa, mentre erano rispettivamente Il conte e la contessa di Ceprano Tyler Zimmerman ed Albina Tonkikh; Chiara Maria Fiorani ha interpretato Il paggio della duchessa, Siphokazi Molteno Giovanna, e Mattia Comandone Un usciere di corte.
Rigoletto, che è sold out in tutte le recite al Teatro Regio di Torino (previste fino all’11 marzo), si conferma un’opera molto amata dal pubblico, specialmente quando “si allineano i pianeti” in una serata emozionante, viva, riuscita sotto tutti i punti di vista.
Torino, venerdì 7 marzo 2025