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Teatro Regio di Torino: Manon Lescaut, o della tenerezza (Auber)

Teatro Regio di Torino Manon Lescaut, o della tenerezza (Auber) - ph Daniele Ratti
Teatro Regio di Torino Manon Lescaut, o della tenerezza (Auber) - ph Daniele Ratti

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Terza ed ultima delle tre Manon nella soggettiva in scena al Teatro Regio di Torino, la Manon Lescaut di Auber è un piccolo gioiello di squisita fattura; una lettura, quella del librettista Eugène Scribe – che con Auber formava un sodalizio strettissimo e super produttivo –  che si allontana in misura molto maggiore delle altre due dalla fonte letteraria, il romanzo “Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut” dell’abate Prévost, ma che, forse più di esse, ne riconsegna lo spirito realmente autentico. Il merito di questo apparente ossimoro risiede in una partitura che restituisce appieno l’assunto di fondo del romanzo, ovvero la volontà, spinta letteralmente all’estremo, di non sottostare alle pressioni sociali ma, al contrario, di prendere in mano la propria esistenza: Auber, alla fine della sua carriera così come della sua vita, riesce ad infondere in Manon tutta la poesia e la tenerezza che ruotano attorno al perno fondamentale della vicenda, ovvero la fedeltà di Manon al sentimento che la lega a Des Grieux, indissolubile nonostante le avversità, ma comunque privo di ogni convenzionalità, in primis il matrimonio.

La protagonista di Auber, per attenersi al gusto perbenista del Secondo Impero, perde per strada un po’ di sensualità, e non c’è in lei né il rovello interiore che caratterizzerà la sua omonima di Puccini, né la tensione erotica dell’eroina di Massenet; essa acquista, invero, una apparente, dolcissima fragilità che nasconde un’anima libera ed esuberante, una joie de vivre tutta francese che va ben oltre la fatuità della coquetterie cui spesso Manon è associata.

Se il personaggio di Marguerite, l’amica di Manon – una delle aggiunte di Scribe, poiché nel romanzo non v’è traccia di questo personaggio – rappresenta la voce della ragione, la morale tutta  borghese dell’attaccamento al lavoro, alla famiglia, alle convenzioni sociali, Manon ne è l’esatta nemesi, non per superficialità, ma, al contrario, per una libertà di pensiero ed un’intraprendenza modernissime, sovversive, intense.

La stessa costruzione musicale riflette il percorso di Manon verso l’affermazione di sé, che purtroppo, non trovando posto nella compagine sociale dell’epoca, la conduce irrimediabilmente alla rovina. Il primo atto è un’esplosione di gioia e vivacità, rispecchiato da fuochi d’artificio e virtuosismi che consegnano senza riserve la parte di Manon all’interpretazione di grandi soprani di coloratura; ben tre arie hanno l’ambizioso – e riuscitissimo – compito di suggerire il carattere della protagonista attraverso la vocalità. La cavatina (ovvero l’aria con cui un personaggio fa la sua prima apparizione sulla scena, in questo caso una vivace cabaletta) “Les dames de Versailles” è un pezzo di bravura, brillante e molto tecnico; ma è con il celeberrimo “Éclat de rire” che Auber costruisce un’aria destinata a diventare banco di prova irrinunciabile per i soprani di coloratura. La scena è cifra dell’intraprendenza di Manon, che non ha bisogno di un principe azzurro che la salvi perché è perfettamente in grado di salvarsi da sola: per pagare il conto del rinomato ristorante Bancelin, dato che Lescaut ha dilapidato al gioco i denari di Des Grieux, Manon imbraccia una vecchia chitarra e improvvisa la deliziosa ed irriverente “bourbonnaise”, canto popolare vivace e canzonatorio, che suscita l’entusiasmo di tutta la clientela del ristorante tanto da farle ricevere mance in grado di coprire ben più della somma dovuta alla padrona del locale.

Già dal finale I si intravvedono, però, nella partitura i segni di un cambiamento che gradualmente porterà l’opera a virare dall’opéra-comique verso un genere più vicino al larmoyante, per giungere infine, nel finale, al dramelyrique. Il secondo atto si svolge in casa del Marchese d’Hérigny, altro personaggio inserito da Scribe che non trova rispondenza in Prévost, e che sostituisce Geronte nel ruolo di pretendente di Manon; introdotto da un Intermezzo che non ha più il carattere spensierato e vivace dell’apertura d’opera, ma presenta un’eleganza con venature dolenti, ci mostra una Manon in crisi con se stessa. Ha rinunciato a Des Grieux per salvarlo, ma il suo cuore sanguina; la grande aria “Plus de rêve qui m’enivre” è un disegno di ampio respiro che scava nella psicologia del personaggio mettendone a nudo l’anima. Pizzi, merletti, perle e diamanti non bastano a lenire la pena che porta in cuore, e se in scena ella si abbandona ad una folle danza, al suono di un’orchestrina che si insinua dalla finestra, si percepisce benissimo che sotto l’apparenza di un’inclinazione sfrenata per il lusso ella porta nel cuore la tristezza più cupa per la fine del suo vero, grande amore. Eppure il ritrovarsi successivo dei due amanti non è foriero di alcuna gioia, dato che la situazione precipita in pochi momenti: Des Grieux uccide il Marchese D’Hérigny, e il Finale II ha una forza drammatica potentissima, in cui la Stretta mostra il sapiente uso che Auber fa del concertato in funzione della scena.

Nel terzo atto assistiamo ad un deciso cambiamento di stile e d’intenti. Dopo un inizio improntato alla couleur locale creola per introdurre l’ambientazione in Louisiana, dove Manon è stata deportata per la sua condotta, è impossibile non pensare a Berlioz – la cui opera Auber aveva ben presente – nella grande, dolente, espressiva sinfonia che ne costituisce l’ossatura sul piano musicale quanto su quello drammaturgico; nessuna concessione al sentimentalismo, bensì accenti di reale tensione emotiva,  ed un finale cupo e doloroso degno del grand-opéra, in cui la protagonista si trasfigura in una morte che la consegna al Cielo non meno che all’amore eterno per Des Grieux.

L’allestimento del Teatro Regio di Torino, che riporta in Italia la Manon di Auber dopo quarant’anni dall’ultima rappresentazione, prosegue, nell’idea registica di Arnaud Bernard, il parallelismo con il cinema; questa volta però, con un’idea che rende l’intero divenire dell’opera un makingof cinematografico di fronte al pubblico, la Manon è un set all’interno del laboratorio del regista George Méliès a Montreuil. Le grandi vetrate delle bellissime scene di Alessandro Camera citano letteralmente lo stabilimento in cui il regista lavorava, e tutto è specchio della realtà storica, dalla stufa al banco di montaggio, dalle cineprese ai bozzetti, fino alle comparse che affollano il capannone in attesa delle proprie scene.

Anche i costumi, nuovamente di Carla Ricotti come per le altre due Manon, sono perfetti, nella duplice veste settecentesca (il film tratto dal romanzo dell’abate Prévost) e del primo Novecento (l’ambientazione scenica).

Il titolo scelto è “When a man loves” di Alan Crosland, film muto del 1927 con Johnny Barrymore e Dolores Costello: le scene scorrono, principalmente, durante ouverture ed intermezzi, per trovare poi sostanza, durante gli atti, nello svolgimento dell’azione scenica che viene immortalata dalle cineprese; a differenza che nelle altre Manon, in cui il cinema entrava molto più prepotentemente sul palcoscenico, qui la pellicola (video di Marcello Alongi) è complemento e non protagonista.

Gli stessi movimenti delle masse vengono trattati in maniera cinematografica, e mostrano di spostarsi in favore di cinepresa seguendo le direttive del regista e dei suoi assistenti; cinematografici sono anche i tableaux vivants in cui, nei momenti salienti, i gruppi in scena si cristallizzano – grazie anche all’esperto uso delle luci di Fiammetta Baldiserri – come fotogrammi rubati al tempo di montaggio, o come respiri tra le volute di un’orchestra scintillante che, sotto la sapiente guida di Guillaume Tourniaire, sa mostrare tutta la verve e i colori di una partitura in cui luci ed ombre sono egualmente importanti.

Il coro di Ulisse Trabacchin è, as usual, garanzia tecnica ed interpretativa, e restituisce appieno il carattere della scrittura di Auber senza mai tradirne gli intenti, mostrando – tra l’altro – una notevole versatilità nel passare da una Manon all’altra, a volte nello spazio di una giornata.

Il cast vocale si dimostra all’altezza di un’opera sicuramente impegnativa per stile e scrittura, nonché talmente poco rappresentata da non essere entrata nella consuetudine di studio e messa in scena.

Nei panni della protagonista abbiamo Rocìo Perez, che, tra l’altro, è attualmente incinta del secondo figlio ma non mostra alcun cedimento, pur nella lunghezza del ruolo (nel primo atto Manon praticamente non smette mai di cantare!). Voce cristallina e limpida, seppure dal volume talvolta un po’ sottile e messo in ombra dall’orchestra, mostra agilità e saldezza nei virtuosismi; particolarmente apprezzata dal pubblico la sua “bourbonnaise”, che suscita applausi calorosissimi. Il soprano spagnolo risolve, inoltre, molto bene la propria parte nella recitazione, che nell’operacomique di Auber ha un peso molto maggiore rispetto a quella di Massenet.

A fianco di Manon, nella parte un po’ sottotono di Des Grieux, troviamo il tenore Sébastien Guèze; purtroppo il suo personaggio non ha nemmeno un’aria tutta per sé, ma può contare soltanto sui duetti con la protagonista per mettersi in luce.  Questo perché all’epoca Auber – secondo una pratica piuttosto diffusa – aveva scritto l’opera  modellando le parti sulle voci per cui le aveva pensate, nel caso specifico il brillante soprano di coloratura Marie Cabel e il baritono, allora famosissimo, Jean-Baptiste Faure, per il quale era stata pensata la parte, ben più sostanziosa, del Marchese d’Hérigny.  Forse per questo il tenore francese fatica ad emergere, pur dimostrando un timbro piacevole e ben intonato, nonché una recitazione espressiva, specialmente nell’ultimo atto.

Il baritono argentino Armando Noguera, dalla gestualità raffinata e dalla presenza scenica efficace, regala pagine di pregio soprattutto nel corteggiamento del secondo atto (“Je veux qu’ici vous soyez reine”), in cui convincono il fraseggio elegante e l’attenta modulazione della voce.

Le parti dei comprimari risultano ben interpretate: il Lescaut di Francesco Salvadori, la splendida  Marguerite di Lamia Beuque, che unisce una voce bella, vivace e dall’emissione sicura ad una recitazione in cui è palpabile il sincero affetto per l’amica Manon; è, infine, un ottimo Gervais, il marito di Marguerite, il tenore fiorentino Anicio Zorzi Giustiniani. 

Completano molto efficacemente il cast la battagliera Manuela Custer (Madame Bancelin) e  Guillaume Andrieux (Ispettore Renaud); Paolo Battaglia è un Monsieur Durozeau dignitoso ma non eccezionale.

I tre validi artisti del Regio Ensemble Albina Tonkikh (Zaby), Tyler Zimmermann (Un sergente), Juan José-Medina (Un borghese) chiudono la lista dei ruoli di contorno.

Da qui in poi non legga chi ancora deve assistere alla recita: perché è nel finale che questa deliziosa Manon trova la sua forza e sostanza, nella giustapposizione delle tre declinazioni di questo personaggio così potente da ispirare letture tanto differenti.

Già nelle ultime scene di questa Manon di Auber una delle maschere presenti nel film “Les enfants du paradis”, visto nella Manon Lescaut pucciniana, con il suo grande cappello bianco ed il pesante cerone candido in viso, fa capolino dalle impalcature del laboratorio cinematografico di contorno alla vicenda; poi, gradualmente, il palcoscenico si immerge nel buio e, dietro i due protagonisti stretti nell’ultimo abbraccio, compaiono i volti “cinematografici” delle tre Manon.  Arletty per Puccini, Dolores Costello per Auber, Brigitte Bardot per Massenet: di fronte a ciascuna si radunano i personaggi del cast che ha dato vita alle rispettive opere. Tutti rimangono in piedi, quasi impietriti di fronte agli ultimi istanti della protagonista, e sembrano rivolgersi al pubblico in un muto saluto pieno di pathos.

Grazie a loro abbiamo vissuto tre vite diverse di Manon, abbiamo sognato con lei, ci siamo abbandonati alle follie della giovinezza e abbiamo pianto lacrime amare nel vederla scivolare via. Abbiamo assaporato la joie de vivre di Cours-la-Reine, le torbide atmosfere del gioco d’azzardo dell’Hôtel de Transylvanie, lo squallore di Le Havre, l’arsura del deserto, il lusso di una prigione dorata parigina, le false promesse della Louisiana.

Siamo tutti un po’ orfani, ora, di questa ragazza, sfrontata, tenera, impulsiva, disarmante nel suo fascino a volte così crudele. Possiamo soltanto lasciare che le emozioni provate rimangano a raccontarci di lei, mentre sull’ultimo capitolo di questa potente trilogia cala, definitivamente, il sipario.

17 ottobre 2024 – Manon Lescaut – Teatro Regio di Torino

Opéra-comique in tre atti

Musica di Daniel François Esprit Auber

Libretto di Eugène Scribe

tratto dal romanzo Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine-François Prévost

Prima rappresentazione assoluta:
Parigi, Théâtre national de l’Opéra-Comique, 23/02/1856

CAST

Manon Lescaut Rocío Pérez

Il marchese d’Hérigny Armando Noguera

Lescaut Francesco Salvadori

Des Grieux Sébastien Guèze

Madame Bancelin Manuela Custer

Renaud Guillaume Andrieux

Marguerite Lamia Beuque

Gervais Anicio Zorzi Giustiniani

Monsieur Durozeau Paolo Battaglia

Un sergente Tyler Zimmerman

Un borghese Juan José Medina

Zaby Albina Tonkikh

 

Direttore d’orchestra | Guillaume Tourniaire

Regia | Arnaud Bernard

Regista collaboratore | Yamal das Irmich

Scene | Alessandro Camera

Costumi | Carla Ricotti

Luci | Fiammetta Baldiserri

Video | Marcello Alongi

Scenografo assistente | Andrea Gregori

Assistente ai costumi | Luciano Cappiello

Assistente alle luci | Oscar Frosio

Maestro del coro | Ulisse Trabacchin

Orchestra e Coro Teatro Regio Torino

Nuovo allestimento Teatro Regio Torino

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Ilaria Castellazzi

VICE PRESIDENTE VICARIO DI OPERA MUNDUS APS ETS - Team Recensioni | Critiche, Interviste

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