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Teatro Regio di Torino: Il Trittico, o dei colori dell’anima

Teatro Regio di Torino Il Trittico, o dei colori dell’anima - Gianni Schicchi - Foto Daniele Ratti

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La “tinta”: un termine spesso abusato quando si parla di Giacomo Puccini, eppure imprescindibile per renderne il complesso e sfaccettato tratto, drammaturgico, musicale, visivo. Nessuno come Puccini riesce a connotare un mood, un mondo intero, restituendoci immagini vivissime che si imprimono nella memoria con rimandi sicuri, indelebili. Troppe volte etichettato come “verista”, Puccini attraversa invece ad ampie falcate la crisi del melodramma fin de siècle, per operare una sintesi efficacissima tra le forme del passato ed un nuovo modo di fare teatro d’opera, che frammenta, destruttura, ed infine ricompone, stili e linguaggi.

Il Trittico: opera paradosso già nel titolo – che in sé non esiste, né si trova in alcuna partitura o riduzione, ma è stato affibbiato scherzosamente al lavoro pucciniano, come riportano gli amici Mariotti e Pagni, in una delle riunioni semiserie e goliardiche al Circolo dei Pittori di Torre del Lago. Il Trittico: opera dalla gestazione difficile, negli anni oscuri della Grande Guerra, quando Puccini sperimentava, cercava, iniziava ed abbandonava soggetti, intrecciava collaborazioni abortite, si avvicinava al “nuovo mondo” della regia d’opera intuendone, con largo anticipo, le potenzialità e i futuri sviluppi. Il Trittico: sintesi e contrasto insieme, drammaturgia sperimentale e allo stesso tempo recupero del passato, ponte verso la grande incompiuta, Turandot, che avrebbe segnato un punto di non ritorno nella produzione pucciniana.

Ma leggiamo insieme i tre atti unici, o meglio le “tre facce che si spiegano” del Trittico.

 

Il Tabarro, Grand Guignol e oscuro realismo,

un noir in cui l’omicidio non è (soltanto), come in Cavalleria, un delitto passionale, bensì l’inevitabile epilogo di un’esistenza vissuta nel degrado, ai margini della società, dove la vita di tutti i giorni, dura e faticosa, è costellata di sogni infranti: l’amore svanito fra i coniugi Giorgetta e Michele, il calore della loro famiglia che la morte del figlioletto ha distrutto per sempre, il miraggio di una casetta vera per Frugola e il marito, il “Talpa”; la tresca clandestina che Giorgetta intreccia con il giovane Luigi (operaio del marito) con il quale ella condivide abbracci infuocati e progetti di fuga verso la città. L’ambientazione è tutto: un barcone ancorato sulla Senna, vera e viva protagonista fin dal preludio, che Puccini prescrive di attaccare – unico caso! – dopo l‘apertura del sipario, per sottolineare quanto l’azione sia assolutamente figlia del flusso del fiume, monotono, straniante, soffocante, sul quale si innestano i suoni della frenetica vita cittadina, i clacson delle auto, le sirene dei rimorchiatori.

Parigi diventa Sin City, il tramonto infuoca i grattacieli anziché Nôtre-Dame, la scena che si apre agli spettatori del Regio è a blocchi contrapposti come le linee che compongono i riquadri di un graphic novel; le lamiere della stiva dove gli scaricatori accatastano i sacchi, la claustrofobica cabina di Giorgetta e Michele, la banchina con le scintillanti luci della metropoli che fanno da sfondo ad un triste, solitario lampione ad illuminare la solitudine delle creature della notte e il cantastorie, un busker con la chitarra che racconta la storia di Mimì (autocitazione di Puccini che si dipinge come “venditore di canzonette”…). L’idea del regista Tobias Kratzer di unire i tre atti unici operando sottili – ma espliciti – rimandi visivi in scena sta prendendo forma; la TV cui Michele si affida per evadere dalla propria routine di infelicità trasmette una sit-com in cui il protagonista è un abile, simpatico truffatore della classe operaia che si arricchisce con l’inganno (ovviamente parliamo di Gianni Schicchi), la stessa TV propone a Giorgetta una scena d’amore romantico (Rinuccio e Lauretta, ormai l’abbiamo capito!) in cui la ragazza si identifica immediatamente pensando all’amante. L’omicidio di Luigi per mano di Michele, e l’orrida “offerta” alla moglie fedifraga del cadavere dell’amante, sono il naturale e tragico epilogo che si consuma in questo mondo di vinti.

Roberto Frontali è un efficacissimo Michele (baritono): cupo e ombroso nei tratti e nella vocalità, mostra una disperata dignità ed una durezza che si stempera nell’amore non (più) corrisposto della giovane moglie. Il soprano Elena Stikhina interpreta Giorgetta; bel timbro e buona estensione, seppur un po’ spigolosa negli acuti, trattenuta la resa scenica del personaggio, di cui si perde purtroppo l’accesa passionalità. Samuele Simoncini (tenore) è un eccellente Luigi: la celebre aria “Hai ben ragione” è un capolavoro di disilluso realismo, con una messa di voce sicura e ottimo fraseggio nonostante il tempo un po’ troppo lento scelto dalla bacchetta di Pinchas Steinberg. Quest’ultimo non tradisce la propria consueta eleganza di tratto e la precisione del gesto, anche se un maggiore slancio e qualche apertura più audace avrebbero giovato alla resa dell’idea musicale. Vivace e scattante, scenicamente e vocalmente, la Frugola di Annunziata Vestri.

 

Il nero del Tabarro diventa il nero del velo delle monache in Suor Angelica;

una narrazione completamente in black and white, con video di momenti “rubati” in convento, in chiesa, nel chiostro come unico complemento ad una scenografia assolutamente spoglia, che disegna perfettamente un mondo che è, prima di tutto, negazione della vita e dei suoi colori. Angelica è una voce fuori dal coro delle consorelle, lei che nasconde un segreto inconfessabile, madre di un figlio illegittimo per il quale la nobile e bigotta famiglia l’ha rinchiusa senza appello in convento, dimenticandosene per sette anni e senza metterla a parte della successiva morte del bambino; qui Elena Stikhina rende una prova assai più efficace che nel Tabarro, mostrandoci tutta la vitalità severamente imbrigliata di Angelica, tutte le emozioni saldamente trattenute, nascoste sotto un velo che ne appiattisce i tratti come ne seppellisce i sogni. Le giovani novizie che nascondono il fumetto de “Il Tabarro” legano i due atti e allo stesso tempo, come vedremo, sono espediente narrativo per il finale – unica nota colorata di tutto l’atto unico, con le pagine tinte di rosso, ovviamente – oltre a costituire il solo momento di vita e di vivacità di tutta la scena; Puccini, così abituato a far vivere amori disperati e slanci di passione, ha invece concepito una musica uniforme, sfumata, in cui i legni e l’arpa, soprattutto, insieme con i tocchi delle percussioni e i ricami degli archi, si fondono in impasti e colori di rara delicatezza. La direzione di Steinberg, qui, con i tempi lenti e dilatati, gli sfumati e i colori levigati, senza sbavature, aderisce perfettamente all’intento espresso dalla partitura. Gli stacchi, precisissimi, seguono inesorabili le sette “Stazioni di Via Crucis” che scandiscono la vicenda: Preghiera, Punizioni, Ricreazione, Ritorno dalla cerca, Zia Principessa, Grazia e Miracolo. Un “miracolo” che qui è molto terreno, in perfetta linea con quanto immaginato da Puccini, ben poco credente o tantomeno religioso…più che la visione mistico-miracolosa della Vergine che sospinge il figlioletto morto, egli immagina infatti che le erbe con le quali Angelica si è data la morte le procurino allucinazioni in cui la povera ragazza è atterrita per il suicidio commesso e crede di vedere il bimbo che non ha mai conosciuto. In questo senso, l’espediente narrativo della Superiora che brucia il fumetto “peccaminoso” sequestrato alle novizie – il quale genera una scintilla che manda l’intero monastero in fiamme – è un buon compromesso, con il fumo che avvolge Suor Angelica in preda agli spasmi del veleno e l’immagine sfocata del figlio sullo sfondo.

Menzione speciale, oltre al coro delle monache, ben connotate ciascuna nel proprio ruolo, per il mezzosoprano Anna Maria Chiuri, magnifica, perfida Zia Principessa, dal timbro intenso ed inconfondibile e dai gesti volutamente misurati e impassibili; un’icona che scolpisce la crudeltà del personaggio, dagli occhiali scuri fino alla borsetta griffata, un po’ Miranda Priestley de “Il diavolo veste Prada”, un po’ Lady Macbeth, ma senza alcuna ossessione, soltanto una palese, studiata indifferenza, perfino (o soprattutto) nel rivelare freddamente alla povera nipote che il figlio bambino è morto due anni prima.

 

E una ripresa del finale di Suor Angelica, inaspettatamente, apre Gianni Schicchi,

ben prima dell’attacco del relativo preludio: Buoso Donati, per una volta in scena vivo e vegeto, ignaro del  malore fatale che lo coglierà a breve, ascolta il vinile dell’opera pucciniana apportando, nel contempo, le modifiche al testamento che esclude i parenti a beneficio del convento di Santa Reparata… testamento che poi, con un gesto che lega ulteriormente secondo e terzo atto del Trittico, un attimo prima di spirare egli ripone all’interno della custodia del vinile di Suor Angelica.

Una volta entrati in scena gli avidi, interessati parenti l’azione si anima in un crescendo di macabra ironia e situazioni paradossali: il cadavere in bella mostra non suscita alcuna commozione o pietà cristiana, le voci – che Puccini tratta magistralmente come un coro da camera – tratteggiano un mondo dominato dalle apparenze e dall’ingordigia.

È il momento più riuscito, musicalmente parlando, della direzione di Steinberg durante quest’atto, che in generale manca un po’ di quella vivacità che ben si addice alla vicenda cui Dante Alighieri accenna nel XXX canto dell’Inferno e che Giovacchino Forzano, il primo grande regista italiano, propose a Puccini per risolvere il terzo atto che lo teneva in stallo da mesi… Non è un caso, tra l’altro, che il nostro si sia lasciato guidare proprio da chi avrebbe impresso al teatro di regia, in particolare d’opera, una spinta decisiva verso l’affermazione, nell’ottica, a lui tanto cara, di una perfetta aderenza di scena, parola, musica.

Passando al cast, Roberto Frontali torna a vestire i panni del protagonista, e disegna un Gianni Schicchi sbruffone, simpatico, padre affettuoso nonché cinico “beffeggiatore” come prescritto dal libretto; con lui il soprano Lucrezia Drei, una Lauretta sbarazzina, dal timbro fresco e luminoso, che ci regala un “O mio babbino caro” di tenera bellezza. Rinuccio, il suo innamorato, è il tenore Matteo Mezzaro, che si muove bene nella parte, con alcuni riuscitissimi guizzi di vivacità. Menzione speciale per il contralto Elena Zilio (Zita), di cui non scriviamo l’età (incredibile), ma che strappa entusiasmo per una recitazione super espressiva ed una voce piena, rotonda, dal volume straripante!

Completano efficacemente il cast Roberto Covatta (Gherardo), Gianfranco Montresor (Simone), Irina Bogdanova (Nella), Tyler Zimmerman (Betto), Andrés Cascante (Marco), Tineke Van Ingelgem (Ciesca), Roberto Accurso (uno spassoso Maestro Spinelloccio), Lorenzo Battagion (Pinellino, calzolaio) Alessandro Agostinacchio (Guccio, tintore). Buoso è il super mimo Riccardo Mattiotto, che rimane in scena con stoica pazienza in posizioni impossibili, maneggiato con malagrazia dai parenti, piazzato tra il pubblico come un sacco!

A proposito di pubblico: come “spoilerato” in precedenza, il regista Kratzer immagina che Gianni Schicchi sia una sit-com comica, provvista di pubblico in tribuna e mimi “scalda-pubblico” con tanto di cartelli (applausi, esclamazioni di meraviglia, risate, sospiri commossi…). Posso dire di aver sperimentato bene l’idea narrativa, poiché ho visto l’opera due volte, sia da un palchetto del Teatro Regio che…dal palcoscenico, come figurante, proprio sulla tribuna di Gianni Schicchi!

Nonostante qualche mormorio di disapprovazione dei “puristi”, devo dire che l’immagine suggerita da Kratzer funziona alla perfezione: i parenti, nei loro abiti seriosi che contrastano con i glitter di Lauretta, il suo appariscente bomber argentato, la tuta e le sneakers di Gianni, sono gli azzeccati personaggi di una “puntata” in TV in cui si mettono a nudo la grettezza, la sete di denaro facile, l’ambizione che fa dimenticare la dignità…e la vasca idromassaggio in cui tutti si immergono, presi dalla febbrile allegria dell’imminente trionfo, sulle note beffarde di “Com’è bello l’amore fra i parenti!”, è il simbolo tangibile del lusso cui ormai tutti aspirano, sui social, nella vita reale, a qualsiasi costo.

La disillusione dei parenti, al rovesciarsi della truffa in un clamoroso autogol, si taglia col coltello, e quando Gianni rompe – ulteriormente! – l’illusione scenica della quarta parete rivolgendosi alla sala per chiedere “l’attenuante”, si chiude, sull’amore di Rinuccio e Lauretta, una recita sicuramente diversa a ciò cui siamo abituati, ma non per questo meno toccante, appassionante, soprattutto coinvolgente.

Dedicato con affetto a Enzo Cardinale

18 e 21 giugno 2024

Il tabarro | Suor Angelica | Gianni Schicchi

Musica di Giacomo Puccini

Libretti di Giuseppe Adami (Il tabarro) e Giovacchino Forzano (Suor Angelica e Gianni Schicchi)

 

Prima rappresentazione assoluta:

New York, Metropolitan Opera, 14/12/1918
CAST

Michele baritono – Roberto Fontali
Luigi tenore – Samuele Simoncini
Giorgetta soprano – Elena Stikhina
La Frugola mezzosoprano – Annunziata Vestri
Il Tinca tenore – Roberto Covatta
Il Talpa baritono – Gianfranco Montresor
Giovane amante soprano – Lucrezia Drei
Giovane amante tenore – Matteo Mezzaro
Venditore di canzonette e Voce di tenorino tenore – Enrico Maria Piazza*
Voce di sopranino soprano – Irina Bogdanova*


 

Suor Angelica soprano – Elena Stikhina
La zia principessa contralto – Anna Maria Chiuri
La suora infermiera e La maestra delle novizie  mezzosoprano – Tineke Van Ingelgem
La suora zelatrice mezzosoprano – Annunziata Vestri
Suor Genovieffa soprano – Lucrezia Drei
La badessa  mezzosoprano – Monica Bacelli
Suor Osmina soprano – Annelies Kerstens
Una novizia e Prima conversa soprano – Emma Posman
Suor Dolcina e Seconda conversa soprano – Ksenia Chubunova*
Prima sorella cercatrice soprano – Irina Bogdanova*
Seconda sorella cercatrice e Seconda suora soprano – Daniela Valdenassi (18) / Lyudmyla Porvatova (30, 2, 4)
Prima suora soprano – Caterina Borruso (18) / Jang Eun Young (30, 2, 4)
Terza suora mezzosoprano – M. Lourdes R. Martins (18) / Laura Lanfranchi (30, 2, 4)


 

Gianni Schicchi baritono – Roberto Frontali
Lauretta soprano – Lucrezia Drei
Zita contralto – Elena Zilio
Rinuccio tenore – Matteo Mezzaro
Gherardo tenore – Roberto Covatta
Nella soprano – Irina Bogdanova*
Gherardino voce bianca Ludovico Longo (21, 23, 27, 30) / Luca Degrandi (18, 25, 4) / Achille Coatto (2)
Betto di Signa basso – Tyler Zimmerman*
Simone baritono – Gianfranco Montresor
Marco baritono – Andres Cascante*
La Ciesca mezzosoprano – Tineke Van Ingelgem
Maestro Spinelloccio e Ser Amantio di Nicolao baritono – Roberto Accurso
Pinellino baritono – Lorenzo Battagion (18) / Marco Sportelli (30, 2, 4)
Guccio baritono – Alessandro Agostinacchio (18) / Roberto Calamo (30, 2, 4)
Buoso Donati Riccardo Mattiotto

*solisti del Regio Ensemble

 

Pinchas Steinberg direttore d’orchestra
Tobias Kratzer regia
Ludivine Petit ripresa della regia
Rainer Sellmaier scene e costumi
Clara Hertel Ripresa scene e costumi
Bern Purkrabek luci
Gianni Bertoli ripresa luci
Manuel Braun video
Jonas Dahl Collaboratore ai video
Janic Bebi Collaboratore ai video
Matthias Piro Assistente alla regia video
Claudio Fenoglio maestro del coro di voci bianche
Ulisse Trabacchin maestro del coro
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Coro di voci bianche Teatro Regio Torino
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino in coproduzione con il Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles
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Ilaria Castellazzi

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