Cosa passerà per la testa dei musicisti del Teatro Regio Ducale di Milano quando gli è stato detto che avrebbero dovuto interpretare un’opera composta da un “ragazzino” quattordicenne? Probabilmente, la prima reazione sarebbe stata la risata, per poi trasformarsi in stupore e incredulità di fronte alla bellissima musica scritta dal giovane Mozart per questo mattone irregolare che è il Mitridate, tre ore di meravigliose ma stancanti arie da capo. Anche sotto il sospetto dell’intervento di Leopold Mozart nella partitura, è indiscutibile come si intraveda il genio imminente di Mozart (l’inizio dell’aria di Mitridate “Vado incontro al fato estremo” ricorda quello della Sinfonia n. 25), così come un istinto drammatico straordinario e una capacità sbalorditiva di infondere vita nei rigidi schemi dell’opera seria del Settecento e in un libretto tanto tremendo quanto abbottonato. Come ci si aspettava, e oltre al morbosamente affascinante personaggio del bambino prodigio, il debutto fu un grande successo; tuttavia, dopo 20 rappresentazioni, l’opera cadde nel dimenticatoio più assoluto. Bisognerà aspettare la metà del XX secolo per una riesumazione che porterà alla riscoperta della raffinata scrittura vocale e della perfetta assimilazione dello stile italiano del Mozart precoce.
Queste rappresentazioni segnano il debutto scenico di Mitridate, re di Ponto al Teatro Real, dopo la presentazione in versione concertante offerta vent’anni fa da Marc Minkowski e i suoi Musiciens du Louvre. Per l’occasione, il teatro ha affidato la sua nuova produzione a Claus Guth, nome abituale nella programmazione del Teatro Real, in coproduzione con l’Oper Frankfurt, il Gran Teatre del Liceu e il Teatro di San Carlo, con un inconfondibile marchio estetico e narrativo, in linea con altre produzioni viste su questo palcoscenico, come Rodelinda o Orlando. Però, il manifesto pubblicitario di estetica classica (non così orrendo come in altre occasioni) ha ben poco a che vedere con ciò che lo spettatore troverà in questo Mitridate. Ovviamente, nessuna traccia dell’Anatolia del I secolo a.C.
Come detto, Claus Guth non sorprende affatto, presentando la tipica villa anni ’70 – un assoluto copia e incolla del suo Così fan tutte per Salisburgo (2009) – rotante – come no – con una brillante parete bianca nella parte posteriore, che cerca di rappresentare il subconscio dei personaggi e serve per il gioco con le ombre. Per ogni personaggio, una decina di cloni si aggirano in questo spazio onirico, le cui interazioni vengono interrotte da figure sinistre e sconcertanti avvolte in un tessuto nero. Tutti concordano su una presunta ispirazione di Guth nella serie HBO Succession; così, Mitridate è una sorta di imprenditore-mafioso senza scrupoli; in sua assenza, i suoi figli Farnace e Sifare (caratterizzati con un istrionismo eccessivo) lottano per il controllo dell’impero familiare. Fedele alla sua essenza, la proposta di Guth si inserisce in quelle messe in scena che, senza cambiare nulla, potrebbero benissimo servire sia per Rigoletto che per La vedova allegra. Così, nonostante alcuni isolati fischi, Guth ha ottenuto un plauso generalizzato da parte del pubblico alla prima.
Ivor Bolton si congeda dalla sua direzione con il consueto grigiore che ha caratterizzato la maggior parte delle sue interpretazioni per il teatro madrileno. Considerato da molti uno specialista dell’opera di Mozart, è proprio in questo repertorio, a giudizio di chi scrive, che ha ottenuto i risultati più discutibili nel corso di questi anni. I tagli alla partitura (a partire dal recitativo secco che apre l’opera), l’assenza di dettagli – al di là di qualche accento, tutto suona uguale, senza forza né distinzione tra agitazione e intimità –, un suono poco brillante, e tempi a tratti eccessivamente flemmatici, hanno caratterizzato la serata; nulla, comunque, era del tutto fuori posto, con un’orchestra stabile che risponde senza problemi agli stravaganti gesti di Bolton. È necessaria una menzione speciale per Jorge Monte de Fez, corno naturale solista sul palco, che ha accompagnato meravigliosamente Elsa Dreisig nella sua splendida aria ”Lungi da te, mio bene”. Come sempre, e ancor più nella sua serata di addio, Bolton è stato ampiamente applaudito. In una recente intervista, ha rivelato che, nonostante lasci il posto a Gustavo Gimeno, la sua collaborazione con l’orchestra continuerà nelle prossime stagioni, con A Midsummer Night’s Dream di Britten (ossessione del signor Matabosch; almeno, è proprio in Britten che Bolton ha brillato di più in questi anni) come prossimo progetto. Addirittura minaccia di cimentarsi con Rossini!
Dal punto di vista vocale, la componente femminile del cast ha nettamente prevalso su quella maschile, a partire dall’eccellente Aspasia di Sara Blanch. Se le sue ipnotiche interpretazioni come Fiorilla in Il turco in Italia (Madrid, 2023) e, soprattutto, come Zenobia in Aureliano in Palmira (Pesaro, 2023), già la consacravano come la più grande belcantista spagnola del momento – lo stesso si potrebbe dire di Marina Monzó, di cui parleremo più avanti –, ora ci dimostra anche di essere un’eccellente interprete mozartiana. Fin dall’apertura del sipario con la temibile aria “Al destin che la minaccia”, la soprano tarragonese, molto coinvolta nella parte attoriale, ha conquistato il pubblico con un perfetto dominio della coloratura e un invidiabile equilibrio tra virtuosismo ed emozione, brillando nei passaggi di maggiore intensità drammatica.
Altrettanto straordinaria è stata – nonostante alcune difficoltà puntuali nel far correre la voce correttamente in tutta la sala – la distinta soprano mozartiana Elsa Dreisig nel ruolo del principe Sifare, caratterizzato da Guth come una sorta di Austin Powers, che deve sniffare cocaina e saltare sul divano mentre canta la sua aria d’ingresso. Le interpretazioni della Dreisig si sono distinte per la sottigliezza e l’eleganza del canto, e la sua aria con corno obbligato e il duetto con Blanch sono stati i momenti più sublimi della serata.
Il ruolo di Ismene era stato originariamente affidato alla star africana Pretty Yende. Senza dubbio, abbiamo guadagnato molto con questo cambio dell’ultimo minuto, con una Marina Monzó vocalmente più adatta alla parte ingrata. La soprano valenciana ha sfoggiato un timbro cristallino e una coloratura impeccabile, affrontando senza apparente sforzo gli esigenti salti scritti da Mozart.
Juan Francisco Gatell, eccellente tenorino rossiniano, pur molto coinvolto nella recitazione, è lontano dalla vocalità di baritenore richiesta per Mitridate, un ruolo che in passato è stato interpretato da giganti come Rockwell Blake o Gregory Kunde. Ha quindi sofferto parecchio sugli acuti, risultando spesso forzato. La sua proiezione vocale limitata non lo ha aiutato, ma ha dimostrato professionalità e un fraseggio molto curato.
D’altra parte, il celebrato controtenore Franco Fagioli è stato un Farnace irregolare, con un timbro troppo oscillante e poco gradevole rispetto ai suoi standard abituali. Il tempo disperatamente lento e la mancanza di tensione imposti da Bolton hanno completamente snaturato la sua pirotecnica aria “Venga pur, minacci e frema”, mentre ha dato il meglio di sé nell’aria finale “Già dagli occhi il velo è tolto”. Di certo, Mozart non è il repertorio migliore per Fagioli, sempre musicale.
Molto bene Juan Sancho nel ruolo del cospiratore Marzio, con un’unica ma impegnativa aria, che il tenore sivigliano ha difeso egregiamente. Meno convincente l’Arbate del controtenore Franko Klisovic, potente ma stridente, la cui aria è stata crudelmente tagliata. Inoltre, l’attore José Luis Mosquera è stato un perfetto complemento muto nel ruolo del maggiordomo.
¿Qué pasaría por las cabezas de los músicos del Teatro Regio Ducale de Milán cuando se les comunicó que tendrían que interpretar una ópera compuesta por un “niño” cuasiquinceañero? Seguramente, la reacción primera sería el pitorreo, para mutar en asombro e incredulidad ante la bellísima música escrita por el joven Mozart para ese mamotreto irregular que es el Mitridate, tres horas de maravillosas pero latosas arias da capo. Aun bajo la sospecha de la intervención de Leopold Mozart en la partitura, es indiscutible cómo el inminente genio mozartiano se vislumbra (ese comienzo del aria de Mitridate “Vado incontro al fato estremo” recuerda al de la Sinfonía n.º 25), además de un deslumbrante instinto dramático y una pasmosa capacidad para insuflar vida a los rígidos moldes de la ópera seria dieciochesca y a un libreto tan tremebundo como acartonado. Como cabía esperar, y más allá del aliciente morboso que suscitaba la figura de niño prodigio, el estreno fue todo un éxito; no obstante, tras veinte representaciones, la obra cayó en el más absoluto olvido. Habría que esperar a mediados del siglo XX para una exhumación que supondría el redescubrimiento de la refinada escritura vocal y la perfecta asimilación del estilo italiano del Mozart prematuro.
Estas funciones suponen el estreno escénico de Mitridate, re di Ponto en el Teatro Real, tras la presentación en versión concertante ofrecida hace ya veinte años por Marc Minkowski y sus Musiciens du Louvre. Para la ocasión, el teatro ha confiado su nueva producción a Claus Guth, nombre habitual en la programación teatralrealera, en coproducción con la Oper Frankfurt, el Gran Teatre del Liceu y el Teatro di San Carlo, y bajo un inconfundible sello estético y narrativo en la línea de otras producciones vistas sobre este escenario, caso de Rodelinda u Orlando. Sea como fuere, poco tiene que ver el (no tan horrendo como en otras ocasiones) cartel publicitario de estética clásica con lo que se encontrará el espectador en este Mitridate. Por supuesto, ni rastro de la Anatolia del siglo I a.C.
Como decía, Claus Guth no sorprende en absoluto, presentando la típica mansión setentera –en un absoluto calco de su Così fan tutte para Salzburgo (2009)– giratoria –cómo no–, con una brillante y agujereada pared blanca en su parte trasera, que busca plasmar el subconsciente de los personajes y que sirve para el juego con las sombras. Por cada personaje, una decena de clones pulula por este espacio onírico, cuyas interacciones se ven interrumpidas por unas siniestras y desconcertantes figuras envueltas en una tela negra. Todos coinciden en una supuesta inspiración de Guth en la serie de HBO Succession: Mitridate es una especie de empresario-mafioso sin escrúpulos; ante su ausencia, sus vástagos Farnace y Sifare (excesivamente histrionizados por Guth) luchan por el control del imperio comercial. Fiel a su esencia, la propuesta de Guth se enmarca en la de esas puestas que, sin cambiar nada, bien podrían servir tanto para Rigoletto como para Margarita la tornera. Así, pese a algunos abucheos aislados, Guth obtuvo un beneplácito generalizado por parte del público del estreno.
Ivor Bolton se despide de su titularidad con la habitual grisura que han caracterizado a la mayoría de sus lecturas para el coliseo madrileño. Considerado por muchos especialista en la obra de Mozart, es precisamente en este repertorio, a juicio de quien escribe estas líneas, donde ha obtenido los resultados más cuestionables a lo largo de estos años. Los cortes en la partitura (empezando por el recitativo seco que abre la ópera), la ausencia de detalles –más allá de algún acento, todo suena igual, sin fuerza ni distinción aparente entre la agitación y lo íntimo–, un sonido poco brillante, y unos tempi por momentos excesivamente flemáticos, constituyeron la tónica general de la velada, si bien tampoco nada estuvo fuera de su sitio, con una orquesta titular que responde sin problema a los estrambóticos aspavientos boltonianos. Es necesaria una mención aparte a Jorge Monte de Fez, trompa natural solista en el escenario, quien acompañó maravillosamente a Elsa Dreisig en su preciosa aria “Lungi da te, mio bene”. Como siempre, y más en su despedida, Bolton fue muy aplaudido. Según ha desvelado en una entrevista reciente, pese a ceder el testigo a Gustavo Gimeno, su colaboración con la orquesta continuará en las sucesivas temporadas, con A Midsummer Night’s Dream de Britten (qué obsesión la del señor Matabosch con Britten; al menos, es precisamente con Britten con quien más ha brillado Bolton estos años) como próximo cometido. ¡Incluso amenaza con ponerse con Rossini!
Vocalmente hablando, la parte femenina del elenco destacó con creces sobre ellos, comenzando por la excelente Aspasia de Sara Blanch. Si sus hipnóticas intervenciones como Fiorilla en Il turco in Italia (Madrid, 2023) y, sobre todo, como Zenobia en Aureliano in Palmira (Pesaro, 2023), ya la consagraban como la más elevada belcantista española del momento –bien se podría decir lo mismo de Marina Monzó, de la que hablaremos más adelante–, ahora nos demuestra también ser una excelente mozartiana. Desde la subida del telón con la temible aria “Al destin che la minaccia”, la soprano tarraconense, muy implicada con la parte actoral, supo ganarse al respetable con un perfecto dominio de la coloratura y un envidiable equilibrio entre virtuosismo y emoción, brillando en los pasajes de mayor carga dramática.
Igualmente sobresaliente estuvo –pese a dificultades puntuales para hacer correr la voz correctamente por toda la sala– la distinguida soprano mozartiana Elsa Dreisig como el príncipe Sifare, caracterizado por Guth como una especie de Austin Powers, que ha de meterse una raya de cocaína y saltar sobre el sofá mientras canta su aria de entrada. Las intervenciones de Dreisig destacaron por la sutileza y elegancia de su canto, y su aria con corno obbligato y el duetto con Blanch resultaron los momentos más sublimes de la noche.
El papel de Ismene fue confiado originalmente a la estrella africana Pretty Yende. Sin duda, salimos ganando con creces con el cambio de última hora, con una Marina Monzó mucho más adecuada vocalmente para la ingrata parte. La soprano valenciana hizo gala de un timbre y coloratura cristalinos, acometiendo sin aparente esfuerzo los exigentes saltos escritos por Mozart.
Juan Francisco Gatell, excelente tenorino rossiniano, aun muy implicado con la escena, se encuentra muy lejos de la vocalidad de baritenore que exige Mitridate, otrora defendida por colosos como Rockwell Blake o Gregory Kunde, sufriendo, por ende, de lo lindo en los agudos, muy esforzados. Si bien su escasa proyección tampoco le favorece, destila oficio y fraseó muy gustosamente.
Por otra parte, el celebrado contratenor Franco Fagioli resultó un Farnace irregular, exhibiendo un timbre demasiado oscilante e ingrato para lo que acostumbra. El tempo desesperadamente letárgico y la falta de tensión impuestos por Bolton desdibujaron por completo su pirotécnica aria “Venga pur, minacci e frema”, dando lo mejor de sí en su aria final “Già dagli occhi il velo è tolto”. Desde luego, no está en Mozart lo mejor de un Fagioli siempre musical.
Muy bien Juan Sancho como el conspirador Marzio, con una única pero exigente aria, excelentemente defendida por el tenor sevillano; menos convincente el potente pero estridente Arbate del contratenor Franko Klisovic, cuya única aria se vio cruelmente cercenada. Asimismo, el actor José Luis Mosquera resultó un perfecto complemento mudo como mayordomo.