Sembra incredibile che un teatro come il Teatro Real, che nei suoi albori a metà del XIX secolo metteva in scena quasi esclusivamente opere di Donizetti, non abbia portato sul suo palco un titolo belcantistico dalla stagione 2022/23, con un molto apprezzabile Turco in Italia rossiniano. Questa assenza inammissibile, ormai marchio della casa, o meglio del trio Matabosch-Belenguer-Marañón, è parzialmente mitigata da queste dieci rappresentazioni di Maria Stuarda, il secondo capitolo di quella moderna invenzione che è la Trilogia Tudor (anche se Elisabetta al castello di Kenilworth dissente seriamente), particolarmente attraenti per il pubblico madrileno poiché segnano il debutto della soprano statunitense – e dal 2019 anche spagnola – Lisette Oropesa nel ruolo principale.
Inizialmente commissionata dal Teatro San Carlo di Napoli per essere rappresentata nell’ottobre del 1834, come è noto, Donizetti fu costretto all’ultimo momento, a causa dell’intervento della censura – senza dubbio i versi “Figlia impura di Bolena, parli tu di disonore? / Meretrice, indegna e oscena, in te cada il mio rossore / Profanato è il soglio inglese, vil bastarda, dal tuo piè!“ e la lite tra le cantanti che interpretavano Maria Stuarda ed Elisabetta per aver preso personalmente queste parole non aiutarono – a preparare in tutta fretta una versione alternativa dell’opera, con musica identica ma un libretto nuovo, completamente diverso, che ricevette il nome di Buondelmonte. Fortunatamente, Donizetti ebbe l’opportunità di mettere in scena l’opera con il libretto originale al Teatro alla Scala di Milano. Tuttavia, una Maria Malibran vocalmente fuori forma compromise il risultato finale, e favorì inoltre che la censura vietasse nuovamente l’opera dopo la sesta rappresentazione, poiché si rifiutò di non pronunciare i versi polemici citati sopra. Maria Stuarda non sarebbe più tornata su un palco fino al 1865, quando Donizetti era già morto. In quella occasione, fu rappresentata divisa in tre atti anziché nei due originali, e con alcuni numeri sostituiti da brani tratti da altre opere donizettiane. Fu questa versione spuriosa a servire da base per la ripresa dell’opera nel XX secolo, la cui edizione è ancora oggi in circolazione.
La scoperta negli anni ’80 del manoscritto autografo di Donizetti in un luogo tanto insospettabile come la Stiftelsen Musikkulturens Främjande di Stoccolma permise finalmente di realizzare un’edizione critica, a cura del musicologo svedese Anders Wiklund, che cerca di offrire la versione originale dell’opera, così come Donizetti l’aveva concepita prima dell’intervento della censura. È questa l’edizione che il Teatro Real dichiara di eseguire in queste rappresentazioni. Ebbene, questa affermazione va precisata: l’influenza esercitata dall’allestimento scenico di David McVicar, un aggiornamento di una produzione originariamente concepita per il MET di New York, dove si utilizza ancora l’edizione tradizionale basata sui materiali della ripresa napoletana del 1865, ha portato a fare alcune modifiche alla partitura. Ad esempio, al posto del coro introduttivo pensato da Donizetti, qui si utilizza quello della ripresa spuriosa di Napoli, a sua volta tratto da un’altra opera di Donizetti, Alina, regina di Golconda. Allo stesso modo, negli ultimi istanti dell’opera è stata inclusa, seguendo l’esempio del MET, una breve interpolazione strumentale che riprende il tema della cavatina di Stuarda (“Nella pace del mesto riposo”), che senza dubbio aggiunge un tocco epico alla decapitazione di Stuarda, ma discutibile, non provenendo dalla penna di Donizetti.
Per un’occasione così distinta come la “prima mondiale al Teatro Real“ – così è stata annunciata da alcuni media generalisti – della Maria Stuarda donizettiana (prima di Donizetti, Mercadante e Coccia avevano già composto le loro Stuarda, sebbene riferendosi ad altri episodi della vita di Maria Stuarda), ci viene presentata come nuova produzione questa copia da discount dell’allestimento funzionale di David McVicar per il MET di New York, ora coprodotta con il Gran Teatre del Liceu di Barcellona, il Festival Donizetti Opera di Bergamo, la Monnaie di Bruxelles e l’Opera Nazionale di Finlandia. McVicar ci presenta una scenografia spoglia (troppo) e scura (anche troppo) che funge da ambientazione per tutte le scene dell’opera, delimitate unicamente dai cambi di decorazione. La regia degli attori è piuttosto sommaria, conferendo una maggiore libertà a cantanti che si muovono a loro piacimento. Però, non ci sono strafalcioni o eccessi, e i costumi – in parte riciclati da un’altra produzione di McVicar vista in questo teatro, Gloriana di Britten – sono spettacolari e opulenti, motivo per cui, com’era prevedibile, sono stati accolti molto bene dal pubblico della prima.
Nonostante tempi convenzionali, tendenti – a tratti – al leggero, la piattezza dinamica e la mancanza di dettagli sono stati il tratto distintivo della direzione musicale di José Miguel Pérez-Sierra. Dalla buca dell’orchestra è emerso un suono bandistico, privo di una chiara differenziazione tra piani e texture, con una sezione archi esile, troppo flessibile e a tratti quasi inudibile, a fronte di ottoni e percussioni scatenati. A suo favore va riconosciuto che il maestro madrileno è un formidabile accompagnatore di voci. Ne è prova la differenza di tempo con cui è stata affrontata la cabaletta finale di Stuarda alla première del secondo cast rispetto alla sera della prima, molto più rallentata, presumibilmente su richiesta di Auyanet. Notevole anche la scelta di includere la sinfonia composta da Donizetti per la prima di Milano, al posto del preludio originale di 29 battute, e di offrire la partitura (quasi) completa, riaprendo alcuni tagli di poche battute (anche se non tutti) che di solito vengono omessi per ridondanza; ad esempio, una quadrupla ripetizione della sequenza di accordi I – IV – I(6/4) – V nel finale primo.
Impeccabile, come ci si aspetta ormai a questo livello, il Coro Intermezzo, sotto la guida dell’instancabile José Luis Basso, che ha dimostrato una qualità superiore e non ha nulla da invidiare ai cori di qualsiasi altro grande teatro. Le loro esecuzioni in “Vedeste? – Vedemmo” e, soprattutto, nella preghiera di Stuarda, sono state vibranti.
Senza dubbio, la celebre Lisette Oropesa possiede uno strumento di grande bellezza, ma, come buona lirico-leggera, è troppo esile per un ruolo della portata di Maria Stuarda, che richiede una tessitura più centrale. Nonostante l’handicap di questa mancanza di corpo vocale, Oropesa ha saputo portare a termine la parte con la professionalità e il talento che la contraddistinguono, crescendo progressivamente. Dopo un’entrata corretta, si è sentita la mancanza di molta più grinta in un anemico “Figlia impura di Bolena”, oltre a qualche incertezza nel duetto con Talbot nel passaggio agli acuti. Tuttavia, Oropesa è una maestra del filato e della messa di voce, come ha dimostrato nella sua stimabile interpretazione della preghiera, sapendo commuovere il pubblico e sottolineare il lato malinconico del suo personaggio. Accanto alla fresca Stuarda della Oropesa, il soprano canario Yolanda Auyanet ha offerto una regina esemplare, più orgogliosa che affettuosa, in linea con la vera Stuarda, non così virtuosa e onesta come spesso ci viene presentata, e che avrebbe intimidito persino Elisabetta I d’Inghilterra. La sua voce, più lirica che leggera, non è altrettanto gradevole all’orecchio, ma presenta una zona centrale molto ricca e acuti impetuosi. Se dobbiamo trovare un difetto, come per Oropesa, anche al suo “Figlia impura di Bolena”, culmine indiscusso dell’opera, è mancata molta forza.
Se Lisette Oropesa poteva sembrare l’attrazione principale di queste rappresentazioni, la sorpresa è arrivata dalla giovane mezzosoprano russa Aigul Akhmetshina, fantastica e completa Elisabetta, trionfatrice indiscussa nella serata della prima, confermando così il successo ottenuto nel settembre 2021 nel suo debutto in questo teatro come Cenerentola. Akhmetshina, eccellente attrice e dotata di un timbro da vera mezzosoprano, raro al giorno d’oggi, ha saputo affrontare con ammirabile abilità la temibile pirotecnia della sua grande scena “Sì, vuol di Francia il Rege”, oltre a brillare nel duetto con Leicester. Bravissima. Molto convincente anche l’Elisabetta alternativa della veterana mezzo valenciana Silvia Tro Santafé, più asopranata rispetto alla russa, ma molto sicura negli acuti, sempre una garanzia in questo repertorio.
L’ingrato e poco gratificante ruolo di Leicester – che, sebbene Donizetti non gli affidi nessuna aria, presenta grande difficoltà e frequenti richiami alla zona acuta – è stato incarnato da due tenori spagnoli. Nel primo cast, un consolidato Ismael Jordi, sebbene abbia iniziato in modo un po’ titubante e non sempre perfettamente intonato, ha dimostrato nel duetto con Stuarda una musicalità innegabile. Dal canto suo, Airam Hernández, pur possedendo uno strumento molto più attraente, ha sofferto in alcuni acuti, metallici e aperti. Al di là di ciò, molto impegnato nella scena, ha fraseggiato, come il suo collega, con grande gusto, superando con successo il difficile compito.
Sia Roberto Tagliavini che un autoritario Krzysztof Bączyk sono stati un vero lusso per il ruolo di Talbot, oltre che un fondamentale supporto nei loro duetti con Leicester e Stuarda. Lo stesso vale per i Lord Cecil dei polacchi Andrzej Filończyk, che ho visto quest’estate a Pesaro come Figaro, e Szymon Mechliński, di impressionante presenza sonora. Corrette sia l’Anna Kennedy di Elissa Pfaender che – soprattutto – quella di Mercedes Gancedo, molto ben timbrata.
Parece mentira que un teatro como el Teatro Real, en cuyos albores a mediados del siglo XIX prácticamente solo hacía óperas de Donizetti, lleve sin subir a sus tablas un título belcantista desde la temporada 2022/23, con un muy estimable Turco in Italia rossiniano. Esta inadmisible ausencia, ahora marca de la casa, o mejor dicho, del trío Matabosch-Belenguer-Marañón, se ve parcialmente paliada por estas diez funciones de Maria Stuarda, segundo capítulo de esa invención moderna que es la «Trilogía Tudor» (Elisabetta al castello di Kenilworth discrepa seriamente), especialmente atractivas para el público madrileño por suponer el debut de la soprano estadounidense –y, desde 2019, española– Lisette Oropesa en el rol titular.
En un principio comisionada por el Teatro San Carlo de Nápoles para ser estrenada en octubre de 1834, como es bien sabido, Donizetti se vio obligado, a última hora y ante la intervención de la censura –sin duda, los versos «Figlia impura di Bolena, parli tu di disonore? / Meretrice, indegna e oscena, in te cada il mio rossore / Profanato è il soglio inglese, vil bastarda, dal tuo piè!» y la trifulca entre las cantantes que interpretaban a Maria Stuarda y Elisabetta por tomárselos como algo personal, no ayudaron– a preparar a toda prisa una versión alternativa de la ópera, con música idéntica, pero un libreto nuevo, totalmente diferente, que recibiría el nombre de Buondelmonte. Afortunadamente, Donizetti tiene la oportunidad de representar la ópera con su libreto original en el Teatro alla Scala de Milán. Sin embargo, una María Malibrán en un estado vocal ya tocado lastra el resultado final, además de propiciar que la censura vuelva a prohibir la obra tras la sexta representación, al negarse a no pronunciar los polémicos versos anteriormente citados. No será hasta 1865, muerto ya Donizetti, que Maria Stuarda vuelve a subir a un escenario, en esta ocasión dividida en tres actos en lugar de los dos originales, y con algunos números sustituidos por fragmentos extraídos de otras óperas donizettianas. Es esta versión espuria la que sirvió de base para el reestreno de la obra en el siglo XX, cuya edición todavía circula actualmente.
El hallazgo en los años 80 del manuscrito autógrafo de Donizetti en un lugar tan insospechado como la Stiftelsen Musikkulturens Främjande de Estocolmo permitió, finalmente, realizar una edición crítica, a cargo del musicólogo sueco Anders Wiklund, que busca ofrecer la versión original de la ópera, tal como Donizetti la había pensado antes de la intervención de los censores. Esta es la edición que el Teatro Real asegura estar usando en las presentes funciones. Pues bien, no está de más matizar esta afirmación: la influencia ejercida por la puesta en escena de David McVicar, actualización de una producción originalmente ideada para el MET de Nueva York, donde aún se emplea la edición tradicional basada en los materiales de la reposición napolitana de 1865, ha llevado a realizar algunas intervenciones en la partitura. Así, en lugar del coro introductorio pensado por Donizetti, aquí se ha hecho el de la reposición espuria de Nápoles, a su vez extraído de otra ópera de Donizetti, Alina, regina di Golconda. Igualmente, en los últimos compases de la ópera se ha incluido, siguiendo los pasos del MET, una breve morcilla instrumental que recapitula el tema de la cavatina de Stuarda (“Nella pace del mesto riposo”), que sin duda aporta un plus de epicidad a la decapitación de Stuarda, mas discutible, al no provenir de la pluma de Donizetti.
Para tan distinguida ocasión como es el «estreno mundial en el Teatro Real» –así lo han anunciado algunos medios generalistas– de la Maria Stuarda donizettiana (antes de Donizetti, Mercadante y Coccia ya compusieron sus propias Stuardas, aunque aludiendo a otros episodios previos de la vida de María Estuardo), se nos hace pasar por nueva producción esta copia «de Hacendado» de la funcional puesta en escena de David McVicar para el MET neoyorquino, ahora coproducida con el Gran Teatre del Liceu de Barcelona, el Festival Donizetti Opera de Bérgamo, la Monnaie de Bruselas y la Ópera Nacional de Finlandia. McVicar nos presenta un escenario desnudo (demasiado) y oscuro (también demasiado) que sirve de localización espacial para todas las escenas de la ópera, delimitadas únicamente por los cambios de decorado, y la dirección de actores es bastante somera, confiriendo una mayor libertad a unos cantantes que campan a sus anchas. No obstante, no acudimos a dislates ni boutades, y el vestuario –en parte reciclado de otra producción de McVicar vista en este teatro, Gloriana de Britten– es espectacular y opulento, por lo que, como era de esperar, fue muy bien recibida por el público del estreno.
Pese a unos tempi convencionales tirando –por momentos– a ligeros, la planicie dinámica y la falta de detalles fue la tónica general en la dirección musical de José Miguel Pérez-Sierra. Del foso de la orquesta emanó un sonido bandístico y sin una clara diferenciación entre planos y texturas, con una cuerda raquítica, demasiado dúctil y por momentos casi inaudible, frente a unos metales y percusión desbocados. A su favor, cabe reconocer que el maestro madrileño es un formidable acompañador de voces. Prueba de ello es la diferencia de tempo con que se acometió la cabaletta final de Stuarda en la première del segundo reparto respecto del día del estreno, mucho más pausado, suponemos a petición de Auyanet. Destacamos también el acierto de incluir la obertura compuesta por Donizetti para el estreno de Milán, en lugar del preludio de 29 compases original, y de ofrecer la partitura (casi) al completo, abriendo algunos cortes de pocos compases (no todos) que se suelen tijerear por redundantes; por ejemplo, una cuádruple repetición de la secuencia de acordes I – IV – I(6/4) – V en el finale primo.
Impecable, para sorpresa de nadie a estas alturas, el Coro Intermezzo, a las órdenes del infatigable José Luis Basso, a un nivel superior, y que no tiene nada que envidiar al coro de cualquier otro gran teatro. Sus intervenciones en “Vedeste? – Vedemmo” y, sobre todo, en la preghiera de Stuarda, fueron vibrantes.
Sin duda, la célebre Lisette Oropesa es poseedora de un instrumento de gran belleza pero, como buena lírico-ligera que es, demasiado liviano para un papel de la talla de Maria Stuarda, cuyas intervenciones requieren de una tesitura más central. Pese al hándicap que supone esta falta de cuerpo vocal, Oropesa supo sacar adelante la parte con la profesionalidad y el buen hacer que le caracterizan, yendo de menos a más. Tras una correcta escena de entrada, se echó en falta mucha más garra en un anémico “Figlia impura di Bolena”, además de pasar en el dueto con Talbot por algunas inseguridades en el salto a los agudos. No obstante, Oropesa es toda una maestra del filado y la messa di voce, tal como demostró en su estimable lectura de la preghiera, y sabe cómo conmover al respetable y remarcar lo melancólico de su personaje. Frente a la lozana Stuarda de Oropesa, la soprano canaria Yolanda Auyanet ofreció una reina modélica, más orgullosa que afectiva, en línea con la Stuarda auténtica, no tan virtuosa y honrada como la Historia nos suele vender, y que achantaría a la mismísima Elisabetta I d’Inghilterra. Su voz, más lírica que ligera, no es tan grata al oído, pero revela una franja central muy rica y unos agudos impetuosos. Por poner una pega, al igual que con Oropesa, a su “Figlia impura di Bolena”, clímax indiscutible de la ópera, le faltó mucha fuerza.
Si Lisette Oropesa podía parecer el principal reclamo de estas representaciones, la sorpresa vino de la mano de la joven mezzosoprano rusa Aigul Akhmetshina, fantástica y completa Elisabetta, indiscutible triunfadora en la noche del estreno, revalidando así el éxito alcanzado en septiembre de 2021 en su debut en este teatro como Cenerentola. Akhmetshina, excelente actriz y poseedora de un timbre de verdadera mezzo de los que hoy día escasean, supo sortear con admirable habilidad la temible pirotecnia de su gran escena “Sì, vuol di Francia il Rege”, además de brillar en el dueto con Leicester. Bravísima. Muy convincente, asimismo, la Elisabetta alternativa de la veterana mezzo valenciana Silvia Tro Santafé, más asopranada que la rusa, pero muy segura en los agudos, siempre una garantía en este repertorio.
El ingrato y poco lucido papel de Leicester –aunque Donizetti no le confía ningún aria, sus intervenciones presentan una gran dificultad y recurren con frecuencia a la zona aguda– fue encarnado por dos tenores patrios. En el primer reparto, un consolidado Ismael Jordi, si bien empezó algo inseguro, no siempre debidamente afinado, demostró en el dueto con Stuarda una innegable musicalidad. Por su parte, Airam Hernández, aun en posesión de un instrumento mucho más atractivo, sufrió en algunos agudos, metálicos y abiertos. Muy comprometido con la escena, fraseó, al igual que su colega, con mucho gusto, saliendo airoso de su intrincado cometido.
Tanto Roberto Tagliavini como un autoritario Krzysztof Bączyk resultaron todo un lujo para la parte de Talbot, así como un apoyo fundamental en sus duetos con Leicester y Stuarda. Ídem el Lord Cecil de los también polacos Andrzej Filończyk, a quien pude ver este verano en Pésaro como Figaro, y Szymon Mechliński, de apabullante presencia sonora. Correcta tanto la Anna Kennedy de Elissa Pfaender como –especialmente– la de Mercedes Gancedo, muy bien timbrada.