Alzi la mano chi avrebbe voluto essere a Roma, al Teatro Costanzi, il 14 gennaio del 1900, quando si aprì per la prima volta il sipario sulla “nuovissima Musica di Giacomo Puccini per il Melodramma in tre atti di V. Sardou, L. Illica e G. Giacosa: Tosca” secondo quanto campeggiava sui manifesti dell’epoca, che specificavano altresì che l’autore avrebbe assistito alla rappresentazione.
Non è, ovviamente, possibile tornare indietro nel tempo a quella serata, sbirciare l’outfit della regina Margherita – arrivata a partire dal secondo atto – né ascoltare i commenti dei colleghi di Puccini, Pietro Mascagni, Francesco Cilea ed Alberto Franchetti, e nemmeno di incontrare il nostro Giacomo intento a captare le impressioni del suo pubblico; è però possibile, oggi, rivivere con i propri occhi le emozioni vissute a quella prima apertura di sipario, poiché il Teatro dell’Opera di Roma, già Teatro Costanzi, ha ricreato in occasione del 125° anniversario di Tosca scene e costumi originariamente realizzati per la prémière.
Fin dal 2015, infatti, il Teatro ha provveduto a ricostruire fedelmente, utilizzando bozzetti, figurini, testimonianze epistolari, fotografie, gli ambienti di quella prima memorabile Tosca firmata da Adolf Hohenstein, direttore delle Officine Grafiche Ricordi.
Roma, del resto, è legata a doppio filo alla vicenda, intrisa di azione e di passione, che si dipana in un brevissimo lasso di tempo in tre luoghi iconici della città, uno per ogni atto: la chiesa di Sant’Andrea della Valle, Palazzo Farnese, Castel Sant’Angelo. L’ambientazione è tutt’altro che mero sfondo, e diventa parte integrante della vicenda; Puccini ci fa letteralmente ascoltare la voce di Roma, ci accompagna a scoprirne gli abitanti, la loro devozione, le trame di amore, intrighi, potere che vengono intessute all’ombra dei suoi mille campanili.
I bozzetti di Hohenstein, che rivivono sulla scena romana nella ripresa di Carlo Savi, con luci di Vinicio Cheli, sono veri capolavori: la chiesa di Sant’Andrea della Valle presenta un punto di fuga laterale che ne apre a dismisura la prospettiva, rendendola dinamica a dispetto dell’imponenza della struttura; l’ambiente in cui Scarpia si muove nel II atto appare smisurato grazie ad un sapiente gioco prospettico di soffitti, volte ed arcate; nel III atto siamo letteralmente trasportati sulla terrazza di Castel Sant’Angelo, con la Cupola della Basilica di San Pietro che prende vita, lucida dei bagliori dell’alba, sullo sfondo, e la massiccia mole del Castello ad incombere, minacciosa, sulla scena.
Tutto questo, unitamente ai costumi originari (ripresi da Anna Biagiotti) ed all’attrezzeria di scena minuziosamente ricreati fin nei minimi dettagli (“niente cartapesta!” era il motto di Ricordi: tutto doveva concorrere ad un realismo volto a dare autenticità alla rappresentazione) rivive inoltre nella mostra “Tosca 125 – Oltre la scena” allestita in collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi. In esposizione per tutta la durata delle repliche di Tosca, al terzo piano del Teatro, si trovano cimeli, fotografie, costumi, allestimenti video, bozzetti, disegni, locandine e spartiti, nonché la partitura autografa di Puccini corredata dalle sue innumerevoli e puntuali disposizioni scenico-registiche, così importanti e intimamente connesse al tessuto musicale.
Queste indicazioni, per sua stessa ammissione, sono state il punto di partenza per la regia di Alessandro Talevi; ogni gesto, ogni movimento e respiro, che dalla scena trovano e traggono reciproca sostanza nella musica, sono stati accuratamente, cinematograficamente ripresi. A questo si unisce un attentissimo studio scenico ed attoriale del testo del libretto, assolutamente necessario per la resa psicologica dei personaggi, dato che l’imprescindibilità del legame fra parola e musica, in Puccini, è universalmente nota.
Dal punto di vista musicale, la partitura della Tosca, così secca, tagliente, rapida ed incalzante, ma allo stesso tempo piena di pathos, commozione e sentimenti vivi e palpabili, è stata letta in modo scintillante e pieno di sfumature da Daniel Oren, alla testa di un’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma in gran forma. L’affetto che lega Oren a questo Teatro affonda le sue radici negli anni del debutto pucciniano del Maestro, in seguito al quale egli rimase a Roma come direttore musicale.
La sua bacchetta, quanto mai affilata, ha risvegliato ogni minimo afflato dell’orchestra così come degli interpreti in scena, guidandone la performance con mano sicura e scelte coerenti. Gli archi, sorprendentemente lucidi, netti fin nelle tessiture più impervie come nei sussurri dei gravi; i fiati ben calibrati, in grado di evocare il terrore come di disegnare volute di passione e sentimento, sempre con un occhio attento all’equilibrio dei colori; gli ottoni vivi e pieni, senza cedimenti, ma pronti ad aggiustare il tiro, con millimetrica precisione. Senza dimenticare il perfetto concerto degli strumenti volti a ricreare il colore locale e i tempi della narrazione, l’atmosfera liturgica dell’organo nel Finale I, le musiche di scena nel secondo atto, le campane pronte a disegnare l’alba romana ed il risveglio della città in apertura del terzo atto.
Gli interpreti vocali sono stati parte integrante di un meccanismo perfettamente oliato, e hanno suggerito un grande affiatamento “di squadra”, che ha giovato notevolmente all’immediatezza della narrazione scenica.
Yolanda Ayuanet, nel ruolo del titolo, fin dai primi passi sul palcoscenico si è ammantata del ruolo di Tosca come di una sontuosa seconda pelle, mostrandone gli accenti più passionali ed impulsivi, senza dimenticarne il lato più fragile ed emotivo, nonché la religiosità quasi ingenua; ad una bellissima espressività nella recitazione il soprano spagnolo ha unito un’emissione vocale sicura, ben modulata, potente ma senza le intemperanze che talora si osservano nei punti impervi della parte (uno su tutti, il si bemolle del Vissi d’arte!), espressiva, con un controllo perfetto dei respiri ed un fraseggio molto appropriato.
Il suo Vissi d’arte nel secondo atto, appunto, non ha deluso le aspettative, con uno slancio autenticamente disperato e pianissimi pericolosamente lievi risolti con disinvolta padronanza; un brano sicuramente non facile, soprattutto perché congela improvvisamente il dramma in un punto incalzante e ricco di colpi di scena (tant’è che Puccini fu sul punto di eliminarlo in nome dell’azione drammatica!) . Il tormento interiore di Tosca, cui la vita passa davanti in un istante, è stato evocato dalla Ayuanet con convinzione, ed il pubblico ha più volte richiesto a scena aperta un bis, che (sfortunatamente!) non è stato concesso.
Il perfido barone Scarpia, perno dell’azione scenica da vivo e, ahimè, anche da morto – come la partitura ci suggerisce puntualmente con il suo tema sinistro e disturbante – è stato impersonato da un convincente Gabriele Viviani, in grado di restituire al personaggio le sfaccettature che troppo spesso gli si negano nell’intento di scolpirne la malvagità in una fissità che poco ha a che spartire col personaggio. Scarpia non è (soltanto) il terzo incomodo in un triangolo amoroso che volgerà in tragedia; è soprattutto – e qui sta la modernità del Puccini fin de siècle – il simbolo di un potere repressivo, bigotto, viscido, che fa della corruzione e del ricatto l’arma più potente, in uno Stato di polizia che si fonda sul terrore della più crudele dittatura.
Viviani ne tratteggia la figura senza risparmiare e risparmiarsi, unendo una recitazione convincente ad un timbro scuro e vellutato, con sicurezza e controllo dell’emissione e tempi perfettamente coerenti. In Tosca è un buon falco, nel II atto, riesce a evitare l’abusata “caricatura” del cattivo, disegnando un personaggio a tutto tondo che l’abitudine all’esercizio del potere, unita all’intoccabilità, ha reso quel che è.
Il ruolo di Mario Cavaradossi, originariamente affidato a Luciano Ganci, indisposto, è stato invece ricoperto da Vincenzo Costanzo, in un jump-in dell’ultimo minuto egregiamente risolto dal tenore napoletano, che aveva interpretato il ruolo nelle recite dello scorso 17 e 19 gennaio sotto la direzione di Francesco Ivan Ciampa. Costanzo ha portato un tocco sbarazzino nel duetto del suo Cavaradossi con Tosca, nel primo atto, e, nel terzo, ne ha altresì interpretato con accenti convincenti la disperazione in un E lucevan le stelle dal notevole pathos, ben modellato sulle parole del libretto, che muovono l’intera scena. Ad un’emissione ben controllata e sicura, dal bel timbro, si è accompagnata la padronanza del fraseggio, con una precisione di tempi e dinamiche che ha reso perfettamente la parte vocale, così ricca di contrasti, del personaggio. A ciò si unisce una espressività scenica, nei momenti condivisi con la protagonista femminile, molto viva e partecipata, con quell’affiatamento autentico e palpabile di cui si accennava sopra.
Il Coro del Teatro dell’Opera di Roma, preparato da Ciro Visco, ed affiancato dalla Scuola di Canto Corale del Teatro stesso, ha reso con efficacia la complessa architettura sonora delle scene più animate del primo atto come dei momenti di colore solenne e liturgico della chiusura dello stesso; il Te Deum del Finale I è stato un momento autenticamente potente ed espressivo, in grado di evocare perfettamente lo stretto legame della Roma papalina e le sue sotterranee connessioni con la vicenda dei protagonisti in scena.
Hanno completato efficacemente la compagine vocale l’Angelotti di Gabriele Sagona, molto ben tratteggiato vocalmente e scenicamente; il Sagrestano di Domenico Colaianni, efficace soprattutto nei momenti più spiccatamente caricaturali seppure, in alcuni punti, sovrastato dall’orchestra; lo Spoletta, vera ombra di Scarpia, di Saverio Fiore e l’austero Sciarrone di Andrea Jin Chen; il Carceriere di Alessandro Guerzoni; il Pastorello, teneramente e precisamente delineato da Emma MacAleese.
La sala era gremita da un pubblico attento e partecipe, che ha tributato all’intero cast vocale e all’orchestra un entusiastico omaggio finale, con ripetute chiamate in scena.
Si ringrazia il Teatro dell’Opera di Roma per l’ospitalità e la consueta collaborazione.