Terzo spettacolo offerto dal ROF nella sua edizione del 2024, che segna il ritorno, dopo 16 anni di assenza, di Ermione, un’opera incompresa che dovette soffrire, alla sua prima nel 1819, il rifiuto del pubblico napoletano. In anticipo sui tempi, ci troviamo davanti a un Rossini mai visto prima (il suo autore la definiva “il mio piccolo Guillaume Tell italiano”), con una partitura vocalmente complessa e una musica insolitamente oscura ma innovativa, in contrasto con il classico, sebbene viscerale, libretto di Andrea Leone Tottola, ispirato principalmente all’Andromaca di Racine. Come affermato in un’intervista dal maestro Michele Mariotti, la storia di Ermione è una storia di amori impossibili: Oreste ama Ermione, che ama Pirro, che ama Andromaca.
Johannes Erath elimina nella sua produzione (inizialmente assegnata, prima dell’annuncio dei titoli del festival, al controverso Tobias Kratzer, poi escluso per motivi sconosciuti) qualsiasi riferimento all’Antica Grecia. La localizzazione spaziale e temporale è ambigua, esaltando il lato sordido dell’argomento. La scena, di aspetto distopico e con la perenne presenza di Astianatte (il moribondo figlio di Andromaca), rimane sempre nera, dominata da una scalinata e dotata di piccoli tavolini rotondi ai lati del palcoscenico, uno spazio utilizzato frequentemente insieme alla passerella della buca d’orchestra. Nella prima parte, vediamo, in alto sulla scena, una lunga tavola bianca con alcolici, intorno alla quale interagiscono i personaggi; nel finale primo ci si sposta improvvisamente all’interno del Teatro Rossini di Pesaro. I personaggi, ad eccezione dei protagonisti, appaiono caratterizzati con un’estetica punk. Il movimento scenico è continuo, sia per i figuranti che per i personaggi secondari e il coro. Non priva di alcuni dettagli incomprensibili o discutibili, come far ballare i comprimari al suono dei recitativi, o farli applaudire al rallentatore nel finale primo, la messa in scena rispetta il libretto, pur non essendo un prodigio scenico. Non disturba, ed è già abbastanza. Menzione speciale per le suggestive proiezioni di Bibi Abel come complemento, con lo sfondo di una spiaggia.
Interessante la direzione musicale di Michele Mariotti, in crescendo. Come spesso accade nelle sue interpretazioni dei Rossini seri, ha puntato su un suono grandioso e atmosfericamente opulento, pur rimanendo equilibrato. I tempi, in contrasto con la storica versione di Claudio Scimone, sono, ad eccezione della grande scena di Ermione e del finale, tranquilli e riflessivi, ma senza perdere il ritmo né cadere nella routine, con un magistrale contrasto tra il nervosismo e i momenti più lirici. Si potrebbe dire che Mariotti ha scommesso sugli elementi innovativi della partitura di Rossini, con una visione quasi verdiana e meno belcantista. Come in Bianca e Falliero, l’esecuzione dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai è stata impeccabile, vibrante e con un suono diafano e vellutato, in cui si è notato il buon lavoro del timoniere Mariotti. Corretto e coinvolto in scena, come sempre, il Coro del Teatro Ventidio Basso, preparato da Giovanni Farina.
Anastasia Bartoli, chi possiede un materiale vocale molto corposo, acuti incisivi e una proiezione travolgente, degni del Verdi drammatico e forse un po’ lontani stilisticamente dalla prassi rossiniana, ha incarnato alla perfezione il suo tormentato personaggio. Tuttavia, Ermione, come ha dimostrato, è uno dei ruoli rossiniani che meglio si adatta alle sue caratteristiche. Incisiva, coraggiosa, luciferina e al contempo commovente quando il testo lo richiede (la sua cruda pronuncia dei versi “Un’empia mel rapì! Egli più mio non è!” sarà sicuramente rimasta impressa per sempre tra le mura del Vitrifrigo Arena), ha offerto una Ermione insuperabile, giustamente acclamata.
Ancora meno ortodosso è stato il Pirro di Enea Scala, con il suo caratteristico timbro poco attraente, con “tremolio”, sempre in tensione. Tuttavia, come nell’Eduardo e Cristina dell’edizione precedente del ROF, Scala ha affrontato con successo la sua temibile scena del primo atto – va ricordato che Eduardo e Cristina condivide gran parte della sua musica con Ermione, inclusa l’aria di Pirro – e il duetto con Andromaca, interpretata da una Victoria Yarovaya sempre appropriata, con una bella voce ma priva di varietà.
Juan Diego Flórez sembra impermeabile al passare del tempo. Nonostante i quasi trent’anni di servizio a Rossini che lo separano dal suo precoce debutto in Matilde di Shabran del 1996, tutto è ancora al suo posto, inclusi i suoi caratteristici e peculiari movimenti parkinsoniani nel gestire le agilità. È grazie al ROF che ci è permesso godere di una delle poche occasioni rimaste per vederlo affrontare un ruolo rossiniano raro, che ormai tende a evitare. Sorprende la scelta del ruolo di Oreste per il suo ritorno al festival, del quale è attualmente direttore artistico, ruolo ingrato per il poco tempo che rimane in scena rispetto a Pirro, l’altro tenore, e in cui si è mostrato un po’ rigido. In ogni caso, la sua tecnica e i suoi acuti sono ancora incomparabili nel panorama attuale del registro tenorile, con una notevole “Reggia aborrita” e una scena finale memorabile.
Sempre adeguati i comprimari, ai quali è affidato un ruolo importantissimo nella messa in scena. Molto bene il mezzosoprano rumeno Martiniana Antonie nel ruolo di Cleone, confidente di Ermione, che senza dubbio merita ruoli più importanti. Adeguati nel duettino anticlimatico ma incantevole del secondo atto il Pilade di Antonio Mandrillo, dal timbro un po’ più discreto, e il Fenicio di Michael Mofidian. Corretti, inoltre, sia il mezzosoprano Paola Leguizamón, Cefisa, sia il tenore Tianxuefei Sun, Attalo, che non si è distinto particolarmente per il volume.
Tercer espectáculo de los que el ROF nos ofrece en su edición de 2024, y que supone el regreso tras 16 años de ausencia de Ermione, una obra incomprendida que hubo de sufrir en su estreno en 1819 el rechazo del público napolitano. Adelantada a su tiempo, nos encontramos ante un Rossini nunca antes visto –su autor se refería a ella como “mi pequeño Guillaume Tell italiano”–, una partitura vocalmente compleja y una música inusualmente oscura a la par que innovadora, en contraste con el clásico aunque visceral libreto de Andrea Leone Tottola, con inspiración principal en la Andrómaca de Racine. Tal como afirmó en una entrevista el maestro Michele Mariotti, la historia de Ermione es una historia de amores imposibles: Oreste ama a Ermione, quien ama a Pirro, quien ama a Andromaca.
Johannes Erath elimina en su producción (adjudicada en un principio, antes de que se anunciasen los títulos del festival, al polémico Tobias Kratzer, caído de cartel por motivos desconocidos) cualquier referencia a la Antigua Grecia. La localización espacial y temporal son ambiguas, realzando lo sórdido del argumento. El escenario, de apariencia distópica y con la perenne presencia de Astianatte (el moribundo hijo de Andromaca), permanece siempre en negro, presidido por unas escaleras, y equipado con pequeñas mesas redondas en los laterales del escenario, espacio al que se recurre, junto con la pasarela del foso, con frecuencia. En la primera parte, observamos, en lo alto del escenario, una larga mesa blanca con alcohol, en torno a la cual interactúan los personajes; en el finale primo se nos traslada sin previo aviso al interior del Teatro Rossini de Pésaro. Los personajes, a excepción de los principales, aparecen caracterizados con una estética punkarra. El movimiento escénico es continuo, tanto para los figurantes como para los personajes secundarios y el coro. No exenta de algunos detalles incomprensibles o cuestionables, como poner a bailar a los comprimarios al son de los recitativos, o hacerles aplaudir a cámara lenta en el finale primo, la puesta en escena es respetuosa con el libreto, sin tratarse tampoco de un portento escénico. No molesta, y ya es bastante. Especial mención a las sugestivas proyecciones de Bibi Abel como complemento, con la orilla de una playa de fondo.
Interesante la dirección musical de Michele Mariotti, de menos a más. Como suele ocurrir en sus aproximaciones a los Rossinis serios, apostó por un sonido grandioso y atmosféricamente opulento, a la par que redondo. Los tempi, en contraposición con la histórica versión de Claudio Scimone, son, exceptuando la gran escena de Ermione y el final, pausados y reflexivos, mas sin perder el pulso ni caer en la rutina, con un magistral contraste entre el nervio y los momentos más líricos. Con todo, se podría decir que Mariotti apostó por los elementos innovadores de la partitura de Rossini, en una visión cuasiverdiana y menos belcantista. Al igual que en Bianca e Falliero, la rendición de la Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai fue impecable, vibrante y de sonido diáfano y aterciopelado, en el que se notó el buen hacer del timonel Mariotti. Correcto e implicado en escena, como de costumbre, el Coro del Teatro Ventidio Basso, preparado por Giovanni Farina.
Anastasia Bartoli, quien posee un material vocal muy corpulento, agudos incisivos y una proyección apabullante, dignos del Verdi dramático y quizás algo lejos estilísticamente de la praxis rossiniana, bordó a su atormentado personaje. No obstante, es Ermione, tal como ha demostrado, uno de los papeles rossinianos que mejor se puede adaptar a sus características. Incisiva, con arrojo, luciferina a la par que conmovedora cuando el texto así lo reclama (su descarnada pronunciación de los versos “Un’empia mel rapì! Egli più mio non è!” seguramente habrá quedado grabada para siempre en el interior del Vitrifrigo Arena), perpetró una insuperable Ermione, justamente braveada.
Menos ortodoxo aún resultó el Pirro de Enea Scala, con su característico poco atractivo timbre, de voz tremolante, siempre en tensión. Sin embargo, al igual que en el Eduardo e Cristina de la edición anterior del ROF, Scala sale airoso en su temible escena del primer acto –cabe recordar que Eduardo e Cristina comparte gran parte de su música con Ermione, incluida el aria de Pirro– o en el dueto con Adromaca, encarnada por una Victoria Yarovaya siempre apropiada, de bella voz, pero falta de variedad.
Juan Diego Flórez parece impermeable al paso del tiempo. Pese a los cerca de treinta años de servicio a Rossini que le separan desde su precoz estreno en la Matilde di Shabran de 1996, todo sigue en su sitio, incluidos sus característicos y peculiares contoneos parkinsonianos a la hora de acometer las agilidades. Es gracias al ROF que se nos permite disfrutar de una de las pocas ocasiones que quedan de verlo afrontando un papel rossiniano infrecuente, de los que ya rehúye. Sorprende la elección del papel de Oreste para su retorno al festival, del que actualmente es director artístico, papel ingrato por el poco tiempo que permanece en escena respecto a Pirro, el otro tenor, y en el que se mostró algo rígido. Sea como fuere, su técnica y agudos aún son incomparables en el panorama actual de la cuerda tenoril, con una estimable “Reggia aborrita” y una escena final para el recuerdo.
Siempre en la línea de lo adecuado los comprimarios, a quienes se confiere un importantísimo papel en la puesta en escena. Muy bien la mezzosoprano rumana Martiniana Antonie como Cleone, confidente de Ermione, quien sin duda se merece papeles de mayor enjundia. Suficientes en el anticlimático pero encantador duettino del segundo acto el Pilade de Antonio Mandrillo, de timbre algo más discreto, y el Fenicio de Michael Mofidian. Correctos, asimismo, tanto la bogotana Paola Leguizamón, Cefisa, como el tenor Tianxuefei Sun, Attalo, quien no destacó precisamente por su volumen.