Quando il 25 gennaio del 1909, a Dresda, calò il sipario sulla prima rappresentazione di Elektra, il suo autore, Richard Strauss, annotò che il pubblico aveva reagito a quella prima esecuzione con un “discreto successo di stima”. Segno che la platea riconobbe nell’Opera il valore drammaturgico del visionario libretto di un poeta affermato quale era Hugo von Hofmannsthal e del sinfonismo ricco e ardito del compositore di Monaco di Baviera, maestro indiscusso del “poema sinfonico”. Tuttavia fu prevenuta nel concedere un trionfo entusiastico a causa della scabrosità della vicenda, della sua modalità di narrazione e della musica parimenti aspra, brutale e al limite dell’atonalità. A distanza di centoquindici anni, nella domenica appena trascorsa, il pubblico del Teatro San Carlo ha tributato al capolavoro straussiano una ben più calorosa accoglienza, profondendosi in un lungo e convinto applauso partito prima ancora che l’orchestra terminasse l’ultima frase e che il sipario coprisse alla vista il palcoscenico. Complice anche la riproposizione del fortunato allestimento, per la regia di Klaus Michael Grüber e la monumentale scenografia di Anselm Kiefer, proposto ben due volte in questa sede: nel 2017 e prima ancora nel 2003, anno in cui si aggiudicò il Premio Abbiati “quale miglior spettacolo”. Ma procediamo con ordine.
Opera in un unico atto, Elektra rappresenta l’apice della fase sperimentale di Strauss in campo teatrale e insieme alla precedente Salomè, forma un dittico espressionista di straordinaria intensità. Nonostante alcune somiglianze, che preoccupavano l’autore per la buona riuscita del suo nuovo lavoro – entrambe le opere prendono il nome dalle protagoniste femminili e sono ambientate nell’antichità – Elektra si distingue per la profondità dello scavo psicologico. Il libretto di Hofmannsthal, è una trasposizione moderna del dramma di Sofocle, arricchito delle teorie psicoanalitiche di Freud e Breuer, mentre la partitura di Strauss, con la sua ruvidezza e violenza, diventa lo specchio sonoro dei tormenti interiori dei personaggi. Il tema ricorrente di Agamennone, che permea l’intera opera, incarna l’urlo di dolore di Elektra, che anche quando non è gridato a piena voce, cova ossessivamente nel petto della protagonista.
Questa premessa ci permette di entrare nel merito delle scelte sceniche e registiche dell’allestimento. Sin dall’apertura del sipario, l’attenzione dello spettatore viene catturata dall’imponente scenografia ideata da Kiefer: il palazzo degli atridi diventa un diroccato blocco in cemento in quattro piani che ricorda un cupo scenario post-industriale. Esso assolve al duplice scopo di calare la tragica vicenda di Elektra in un contesto atemporale e al contempo di materializzare lo sfacelo mentale degli abitanti del palazzo. La regia di Grüber si innesta simbioticamente in questa ambientazione: Elektra in preda al tormento e alla brama di vendetta si aggira come una furia in gabbia nel cortile del palazzo, al contempo Klytämnestra, lungi dall’essere la tiranna spietata che è, appare altrettanto scossa, preda della colpa che le agita i sogni. I costumi anch’essi creati da Kiefer contribuiscono a dare quel carattere di atemporalità al pari della scenografia. La tunica grigia e insanguinata di Elektra contrasta con il bianco asettico e impreziosito dai riflessi delle lucenti pietre della veste della regina, che vorrebbero celare il disagio interiore. Bianco e disadorno è invece il vestito di Chrysothemis, la pura e innocente sorella di Elektra, unico personaggio della casa che pur afflitta mantiene un contegno e una speranza di una vita felice. I movimenti e i gesti dei personaggi sul palcoscenico, accompagnano lo sviluppo drammatico e non risultano mai caricaturali, eccessivi o fuori luogo, al contrario sono caratterizzati da una pulita essenzialità, forse eccessiva nelle due sezioni finali, in particolare nella scena del riconoscimento di Oreste e dell’assassinio di Egisto. A completare l’impianto scenico, le luci di Guido Levi si rivelano un elemento fondamentale, integrandosi perfettamente con la visione registica e dialogando in modo efficace con la partitura straussiana.
Il cast vocale che ha dato vita all’opera è di primissimo ordine e nel complesso ha fornito una prova valida e convincente. Pregevolissima la prova di Ricarda Merbeth nel ruolo del titolo. In scena ininterrottamente dal primo all’ultimo minuto, dimostra una solida tenuta vocale e una più che convincente presenza scenica. La sua interpretazione cresce in intensità nel corso dell’opera, e sicura è la gestione degli acuti e delle ardue sfide vocali presenti in gran quantità nella parte. Particolarmente efficace risulta la scena del riconoscimento di Oreste, dove la Merbeth raggiunge un’espressività vocale toccante.
Evelyn Herlitzius debutta nel ruolo di Klytämnestra, dopo aver recitato per anni in quello di Elektra, con una performance di rilievo. Herlitzius affronta con maestria lo stile principalmente declamatorio richiesto dal personaggio, gestendo con efficacia le frasi spezzate che caratterizzano la parte. La sua interpretazione si distingue per l’attenzione al fraseggio e soprattutto alla caratterizzazione drammatica, compensando con intelligenza interpretativa e presenza scenica lievi differenze di volume rispetto alla protagonista.
Chiude il terzetto dei personaggi principali femminili, Elisabeth Teige nel ruolo di Chrysothemis. Teige offre una prestazione vocale di pregio, il suo timbro caldo e lirico si adatta perfettamente alle esigenze della parte, conferendo al personaggio la giusta caratterizzazione musicale. Inoltre, ella affronta le sfide vocali del ruolo con sicurezza sebbene sul piano prettamente scenico la sua interpretazione risulta leggermente meno incisiva, e a tratti rigida.
Łukasz Goliński, nel ruolo di Oreste, offre una prestazione vocale di discreto livello, ma la sua presenza scenica, limitata dalla natura stessa del ruolo, tende a sfumare sullo sfondo del dramma. A fatica emerge sul piano dell’espressività scenica pur affrontando la sua parte correttamente e con competenza tecnica.
In ordine di apparizione chiude il quintetto dei personaggi principali l’Egisto di John Daszak. Egli si distingue per una vocalità piena e sicura e per quanto appaia poco sulla scena da sfoggio di una notevole capacità espressiva da attore esperto quale è.
Nulla da eccepire per quanto riguarda i ruoli secondari coperti da Giuseppe Esposito (Tutore di Oreste), Chiara Polese (Confidente di Klytämnestra), Valeria Attianese (La sorvegliante), Andrea Schifaudo e a Simonas Strazdas (rispettivamente ervo giovane e anziano), Antonella Colaianni, Valentina Pluzhnikova, Arianna Manganello, Regine Hangler e Miriam Clark (Ancelle). Il coro diretto da Fabrizio Cassi chiamato in causa dietro le quinte nella scena conclusiva fornisce una prova convincente e pulita.
Sul podio, Mark Elder guida l’Orchestra del Teatro San Carlo con mano sicura e visione interpretativa personale. La sua lettura della partitura straussiana si caratterizza per una scelta di tempi leggermente più dilatati rispetto alle indicazioni originali. Questa impostazione, tende a smorzare le tinte più violente dell’opera, privilegiando una maggiore morbidezza e un più accentuato lirismo. La direzione di Elder produce un equilibrio efficace tra la brutalità espressiva richiesta dal dramma e una resa sonora più levigata. L’Orchestra ha risposto con precisione alle indicazioni del direttore, offrendo un supporto solido e ben calibrato alle voci.
In definitiva, questa produzione di Elektra si conferma un successo, grazie a una regia e a una scenografia che sembrano non risentire del passare degli anni, e a una resa vocale e orchestrale solida e priva di evidenti sbavature. Come detto in apertura, il pubblico, concentratissimo fino al termine della rappresentazione, ha sciolto la tensione accumulata, culminata nella danza delirante e liberatoria della protagonista, con una convinta ovazione.
Ulteriori due repliche sono previste martedì 1 e giovedì 3 ottobre