Il “Modena Belcanto Festival” debutta nella città emiliana con l’ultimo capolavoro di Bellini, “I Puritani”, con una protagonista di prim’ordine come Ruth Iniesta.
Quando a Modena si pensa a “I Puritani”, opera del 1833, tra le più musicalmente poetiche e suggestive del Maestro Vincenzo Bellini, la mente corre subito a due fra i massimi figli di questa terra, che proprio in questo titolo hanno lasciato al mondo interpretazioni memorabili. Parliamo di Luciano Pavarotti e di Mirella Freni, il primo dotato di una voce autenticamente e naturalmente ideale per il repertorio belliniano, la seconda che i più anziani frequentatori del teatro modenese potranno ricordare in una splendida edizione del 1962 al fianco di un giovane Alfredo Kraus.
Il caso, o meglio una precisa e azzeccata scelta, vuole che nel teatro che porta il nome dei due grandi artisti modenesi, si siano scelti proprio “I Puritani” di Vincenzo Bellini per inaugurare il nuovo “Modena Belcanto Festival”, che alla loro sconfinata eredità rende omaggio, per trarne linfa vitale e rilanciare il territorio come un punto di riferimento per il mondo dell’opera lirica del presente e del futuro.
Una scelta, quella di eseguire “I Puritani”, che riscuote indubbiamente interesse e attenzione per l’estrema difficoltà che la partitura di quest’opera presenta agli interpreti e per la rarità con cui viene eseguita, nonostante si tratti di un riconosciuto capolavoro, tra l’altro ricolmo di pagine note ed amate dal pubblico. L’opera è un concentrato musicale di poesia, purezza, lirismo, tra arie, duetti, concertati sospesi nel tempo e cabalette pirotecniche; un’esaltazione mai fine a sé stessa del Bel Canto nel senso più vero del termine che con estrema varietà colloca una storia di amore, turbamenti, deliri in un contesto storico politicamente pesante, che si intreccia e si plasma con le vicende private dei personaggi.
Per l’occasione la regia è quella di Francesco Esposito, nella ripresa di un allestimento ben riuscito già visto a Modena nel 2017. Lo spettacolo si presenta molto bene all’occhio, grazie alle scenografie di Rinaldo Rinaldi e Maria Grazia Cervetti, che giocano in casa grazie ai preziosi laboratori originari di scenografia che il teatro ancora conserva e mantiene attivi, caso pressoché unico. Sul palcoscenico, oltre ai loro splendidi fondali dipinti, troviamo una struttura dalla forma semiellittica che avvolge la scena centrale, costituita da pannelli movibili in grado di ricreare l’ambientazione nelle diverse scene dell’opera, tanto quelle esterne quanto quelle interne, trasformandosi quando necessario anche in librerie, specchi, cinte murarie. La struttura presenta inoltre un praticabile superiore, una sorta di ballatoio, utilizzato a più riprese dal coro. Uno scenario ben realizzato e funzionale, che insieme alle suggestive luci di Andrea Ricci e ai costumi colorati e curati del regista Francesco Esposito, non distraggono lo spettatore, come da intenzioni dichiarate nelle note di regia. Tuttavia, ciò che in un contesto sì convincente manca è una regia vera e propria che vada oltre l’estrema convenzionalità di una recita d’ordinanza. Spade che si incrociano, il coro che puntualmente entra, si dispone in forma di concerto ed esce, i cantanti che sfoggiano le più canoniche gestualità e forme recitative. Si sarebbe probabilmente potuto lavorare maggiormente su uno scavo più originale dei personaggi e su movimenti più dinamici. Indubbiamente chi non osa, non reca fastidio ma è anche vero che rinuncia a valorizzare determinati aspetti.
Dal punto di vista musicale, la rappresentazione è inficiata da una direzione, quella del Maestro Alessandro D’Agostini, che purtroppo questa volta non convince quanto in altre occasioni passate (vedasi in occasione de “La Traviata”). L’impressione che si ha, sin dalle primissime note, è quella di una lettura “scolastica”, non ancora del tutto rodata, quasi come si trattasse di una prova di lettura, che pur con la buona volontà di abbozzare timidamente varietà timbriche ed espressive, non trova particolare riscontro da parte di una non sempre precisissima Filarmonica del Teatro Comunale di Modena, su cui appare ancora incompleto un necessario dosaggio di volumi e pulizia di suono nei momenti più concitati e quindi a rischio di “effetto bandistico”. Se negli onirici e sospesi concertati le cose funzionano meglio, in altre parti sono anche i tempi scelti a non mettere sempre a proprio agio le controparti. Viene da chiedersi dunque se le prove a disposizione per preparare adeguatamente lo spettacolo siano state sufficienti e non si sia invece realizzato un autentico miracolo, mettendo insieme il tutto insieme in poco tempo e dovendo necessariamente sacrificare un maggiore approfondimento. Una cosa però è certa: certi, troppi, tagli si sarebbero evitati volentieri.
In una situazione come quella descritta è evidente che anche le voci possano risultare inevitabilmente condizionate e limitate dall’impossibilità di sprigionare le proprie armi migliori. Tuttavia, la scelta di nomi di indubbia qualità mantiene il livello della performance su livelli più che dignitosi, che confermano in buona parte le aspettative. Una nota a sé va fatta per il Coro Lirico di Modena, preparato da Giovanni Farina, che con pochissime prove a disposizione e un organico che ci è parso un po’ ridotto, ha portato a casa lo spettacolo degnamente.
Elvira è Ruth Iniesta, che con la sua sicurezza tecnica e un bel timbro ricco e generoso, padroneggia agilità e acuti, porgendoli con eleganza e varietà espressive, in una interpretazione di prim’ordine, capace di fondere fuoco e dolcezza, trasmettere con eguale efficacia i tratti più lirici, amorosi e malinconici, quanto quelli più deliranti e afflitti.
Ruzil Gatin, dal canto suo, è un Arturo dallo strumento chiaro, di buon volume, dalla dizione perfetta e che canta con finezza, gusto e fraseggio. Non ci convince a pieno l’idea che il suo timbro sia adatto ad un repertorio del genere, quanto più a quello più squisitamente rossiniano. Al netto di qualche incertezza in alcune delle note più temibili ed estreme, che possiamo trascurare, ci aspetteremmo volentieri una voce più calda e morbida, al servizio di un personaggio che già ora ci appare credibile nel suo ispirato amore.
Alessandro Luongo, nei panni di Riccardo, non delude e tratteggia un personaggio dapprima tormentato, poi fermamente determinato nella sua sete di giustizia, sicuro vocalmente e credibile scenicamente.
Splendido, come lo fu nel 2017, l’unico superstite di quell’edizione, Luca Tittoto nei panni di Giorgio. La voce è calda, avvolgente quasi cavernosa ma mai opaca, il fraseggio estremamente variegato e di impatto, l’interpretazione musicale e scenica del tutto convincente, al punto da distinguersi come probabilmente il miglior interprete della serata, al fianco di Ruth Iniesta.
Solido e di qualità tutto il resto del cast, dalla Enrichetta di Nozomi Kato, al Lord Gualtiero di Andrea Pellegrini, fino al Sir Bruno di Matteo Macchioni, voci belle e ben dosate al servizio di interpretazioni soddisfacenti.
Al termine vivo successo per l’intero cast, con qualche isolata ma udibile contestazione al direttore d’orchestra e a Ruth Iniesta, in quest’ultimo caso a nostro giudizio del tutto immeritate e inspiegabili.