La Forza del Destino torna in Scala dopo una lunga assenza, proposta l’ultima volta ventitré anni fa con Valery Gergiev sul podio alla guida dell’orchestra Mariinsky, nella versione di San Pietroburgo 1862.
Va questa volta in scena e inaugura la stagione scaligera la versione 1869, legata a doppio filo con la città di Milano grazie a una partitura rimaneggiata appositamente per il Piermarini e a un nuovo libretto ricco di influenze manzoniane – è significativo l’incontro proprio tra Verdi e Manzoni l’anno prima – non solamente per il soggetto in cui già in origine ricorrono i tratti del romanzo storico, ma anche e soprattutto per la nuova visione morale e religiosa maggiormente focalizzata sui temi della redenzione e del perdono, più che sulla crudeltà del fato. Esemplare in tal senso è il finale, totalmente rivisto, in cui Alvaro non sceglie di togliersi la vita – gesto intrinsecamente ateo – ma si abbandona al perdono divino con l’intercessione del frate, nell’estatico terzetto con Leonora morente e Padre Guardiano.
Un’opera assai complessa e maestosa, di rado rappresentata non tanto per la ben nota superstizione nefasta che aleggia sul titolo, quanto per la sua stratificata struttura drammaturgica che ne rende ostica la rappresentazione scenica, nonché l’esigenza di un considerevole organico orchestrale-corale e un cast all’altezza di almeno sei ruoli solistici particolarmente impervi a livello vocale e interpretativo.
Nonostante le importanti criticità da fronteggiare, non v’è nulla in questa produzione che possa comprometterne la riuscita ed il successo, a partire dall’intelligente regia di Leo Muscato. Tra i tanti tòpoi sviluppati nel libretto – e c’è davvero l’imbarazzo della scelta – il cuore di questo allestimento è centrato sul tema della guerra, raccontata principalmente nel suo ricorrere ciclico con la sua brutalità universale e costante, drammaticamente sempre attuale. Vediamo così dipanarsi la vicenda nei quattro atti in quattro diversi scenari militari, ciascuno ambientato in un’epoca differente: il primo atto si apre nel Settecento della Guerra di Successione austriaca (fedele all’ambientazione originale), il secondo si sposta sulle rivoluzioni risorgimentali, il terzo ha come teatro le trincee della Prima Guerra Mondiale, il quarto la desolazione contemporanea di un campo profughi facilmente riconducibile a uno dei conflitti attualmente in corso. La desolante tragedia della violenza bellica come eterno ritorno dell’uguale perfettamente tradotta nella scenografia di Federica Parolini, che propone una struttura circolare rotante perfetta per sviluppare il racconto nei suoi vari contesti in un flusso senza soluzione di continuità, come una sorta di piano-sequenza cinematografico. È importante non cadere in errori di valutazione al primo impatto visivo: sebbene inizialmente l’impianto scenico possa apparire non particolarmente innovativo – sappiamo quanto si abusi da decenni di piattaforme girevoli nel teatro d’opera – la scelta in questo caso è pregna di sostanza concettuale, in grado di rappresentare al meglio la ciclicità degli eventi e l’inesorabile ruota del Destino che muove l’esistenza (da cui il titolo): non una banale soluzione tecnica dunque, ma il brillante coincidere di significante e significato.
Rendono ancor più suggestiva la messinscena i costumi di Silvia Aymonino che ben caratterizzano ciascun momento storico, come anche l’accurato utilizzo delle luci di Alessandro Verrazzi, etereo nel delineare efficacemente le parentesi mistiche che costellano l’opera.
E mistico è anche quel che ascoltiamo, grazie in primis alla magistrale concertazione di Riccardo Chailly. Sin dalla sinfonia – innesto inedito della versione 1869 – emerge non solo l’esplosione di potenza della scrittura verdiana, ma anche un primo assaggio delle innumerevoli facce che confluiscono nell’intero racconto musicale fra il tragico, il comico, il lirico, il drammatico. Con sapiente gestione delle timbriche, tempi spesso d’ampio respiro ma concitati all’occorrenza, dinamiche dal fortissimo (il ruggito reboante della guerra) al pianissimo (l’ascesi religiosa e spirituale), il Maestro milanese ci porta al cuore della poliedricità del Verdi maturo, che aveva iniziato ad esplorare in un Ballo in Maschera e che porterà a pieno compimento nel Falstaff. L’Orchestra del Teatro alla Scala risponde al meglio, con un’esecuzione ricca di páthos e compattezza.
Non è da meno il Coro diretto da Alberto Malazzi, al solito impeccabile ma particolarmente centrale in quest’opera, elevandosi quasi a personaggio aggiuntivo a sé stante con interventi di grande incisività musicale e teatrale.
Oltre le aspettative il cast vocale, ricco di nomi di prima scelta nel panorama lirico contemporaneo.
Con la sua Leonora, Anna Netrebko si dimostra nuovamente artista a tutto tondo con una prova maiuscola. Difficile comprendere come tuttora certa critica si focalizzi su una presunta perdita di smalto vocale o sulla tendenza a gonfiare i gravi, a fronte di una musicalità straordinaria e di un’intelligenza interpretativa fuori dal comune e sempre più consapevole, sostenute da una linea di canto capace di dinamiche più che ampie oscillando con naturalezza tra il sussurro a fil di voce e l’acuto debordante per potenza e volume.
Brian Jagde dà forfait per motivi personali, lasciando spazio all’eccellente prova di Luciano Ganci nel ruolo di Don Alvaro. Solido vocalmente, slanciato nello squillo ma altrettanto attento al fraseggio, il tenore romano si conferma tra le voci più interessanti della scena contemporanea. Particolarmente memorabile la sua esecuzione di “O tu che in seno agli angeli” in chiusura del terzo atto.
È una garanzia anche Ludovic Tézier, che con presenza scenica magnetica e straordinaria varietà d’accenti, impreziosita dalla sua pastosa vocalità brunita, delinea con eleganza un Don Carlo ossessivo e protervo, algido nel perseguire la sua sete di vendetta.
Alexander Vinogradov, nel ruolo di Padre Guardiano, offre una performance solida sostenuta da voce tonante e granitica. Peccato solo per la dizione, spesso inficiata da evidenti inflessioni slave.
Complessivamente buona la prova di Vasilisa Berzhanskaya nei panni di Preziosilla, sicura nel registro acuto ma fuori fuoco in quello grave. Il mezzosoprano russo brilla tuttavia per personalità scenica e si mostra sicura nel tenere il palco, assolvendo al difficile compito di mantenersi punto focale nelle scene corali più concitate.
Marco Filippo Romano offre un cameo impeccabile vestendo il cencio di Fra Melitone, puntando sull’estro interpretativo senza sacrificare la linea di canto, sempre pulita e timbrata.
Ben cantati e caratterizzati anche i ruoli minori del Marchese di Calatrava (Fabrizio Beggi) e di Mastro Trabuco (Carlo Bosi).
Anche in questa replica si rinnova il successo della Prima di Sant’Ambrogio con oltre dieci minuti di applausi al termine. Trionfo anche per Luciano Ganci, nonostante il subentro in corsa.