Quando la cantante Elizaveta Lavrovskaja propose nel 1877 a Pëtr Čajkovskij di mettere in musica l’Evgenij Onegin, romanzo in versi di Alexandr Puškin pubblicato completo più di quarant’anni prima, al compositore l’idea parve assurda: il grande scrittore era il padre della moderna lingua letteraria russa, è come se avessero chiesto a Giuseppe Verdi di comporre un’opera tratta dai Promessi Sposi. Le molte convenzioni della musica operistica avrebbero potuto infatti render vana la ricchezza poetica dei versi insieme all’incomparabile profondità narrativa di atti, stati d’animo e sentimenti dei personaggi nel romanzo. Per nostra fortuna, Čajkovskij cambiò idea: il testo di Puškin non era un monumento inviolabile ma una fonte inesauribile di riflessioni da poter musicare sulle forze antitetiche della volontà e del destino nelle azioni umane. L’amico Konstantin Shilowski fu subito coinvolto nel trattamento del romanzo ma il compositore finì presto per non aver più bisogno di lui lavorando personalmente al libretto. L’Onegin, proprio nel momento della sua composizione per tutto il 1877, fu funestato da gravissimi problemi personali conseguenti al disastroso matrimonio di copertura sociale con Antonina Miljukova, circostanze biografiche testimoniate da recenti documenti senza più vincolo di segretezza provenienti dagli archivi sovietici e ben raccontatate dal regista Kirill Serebrennikov nel film del 2022 La moglie di Tchaikovsky. Nel febbraio del 1878, dopo un concentrato sprofondamento nella composizione dell’opera, annunciò per lettera all’amica e mecenate Nadežda von Meck la conclusione del suo lavoro descritto come “dramma lirico in tre atti e sette quadri”. L’Onegin andò in scena in forma definitiva con grande successo al Teatro Bol’šoj di Mosca il 23 gennaio del 1881 e da quel momento è diventato per giusto diritto un titolo frequente e molto amato nel repertorio dei palcoscenici d’opera di tutto il mondo.
In questa regia scaligera, Mario Martone alterna momenti visivamente intensi ad altri meno riusciti. Quando abbiamo conosciuto per la prima volta il suo nome, nell’epocale e rivoluzionario spettacolo Tango Glaciale (1982) del suo gruppo napoletano Falso Movimento, s’era subito capito che c’era del genio nella sua visionaria idea di teatro. A distanza di più di quarant’anni da quegli eroici momenti di laboratorio registico, il suo lavoro sembra essere maturato in modo discontinuo: c’è qualcosa che lo rende spesso ondivagante in fatto di giudizio critico. A capolavori di regia, come la geniale produzione in tempo di Covid del Barbiere di Siviglia al Costanzi di Roma (2020) oppure la Cavalleria Rusticana scaligera (2011), s’alternano la pessima Cena delle Beffe di Umberto Giordano alla Scala (2016) o la Traviata, sempre al Costanzi (2021), che ha ritentato senza successo l’esperienza sperimentale del Barbiere. Come avviene anche per i suoi film: agli splendidi Noi credevamo (2010) e Qui rido io (2021), si susseguono i molto mediocri Capri Revolution (2018) e Il Sindaco del Rione Sanità (2019). Martone ambienta l’opera ai nostri giorni attraverso la grande esperienza scenografica e la lunga collaborazione con Margherita Palli che fa allestire uno sfondo-ledwall dal video designer Alessandro Papa: s’apre un cielo che più russo non si può nella percezione d’una lontananza senza fine e nelle sfumature cangianti della luce del giorno che lentamente trascolorano in un firmamento notturno illuminato dalla luna. Occupa il centro della scena un unico spazio cubico che alla fine viene fatto crollare, mentre un incendio brucia i molti libri appilati di Tat’jana, mandando in fumo anche ogni sua illusione: è la cameretta della ragazza, un solitario luogo mentale invaso da romanzi, immagine malinconica d’un mondo più sognato che reale. Un conchiuso rifugio salvifico dove un tempo affabulato e recluso si consuma in incessanti letture, un tempo sospeso a protezione degli urti inevitabili della vita. Tutt’intorno, l’estate vibra di calore nella sua forte luminosità, resa con la precisa illuminotecnica di Pasquale Mari, sui campi di grano appena mietuto fino all’orizzonte. Nel secondo atto, nel gelido inverno russo con neve e lastre di ghiaccio, quella che dovrebbe essere la scena di ballo in casa dei Larin per l’onomastico di Tat’jana è risolta all’aperto in stile sovietico anni Ottanta, come un’animata festa paesana in un kolchoz con tanto di banda militare, soldati che sembrano reduci dal fronte afgano e ballerini in scatenate danze da giorno di festa, curate dalla coreografa Daniela Schiavone. La successiva sfida a duello tra Onegin e Lenskij è a colpi di roulette russa anziché con le usuali due pistole, una poco sensata variante di Martone dal punto di vista dei successivi sviluppi drammaturgici del protagonista e di Tat’jana: non dunque la diretta responsabilità di Onegin ma la casualità del fato provoca la morte dell’amico. L’ultimo atto è l’opposto esatto rispetto a certe monumentali e sovrappopolate messinscene viste al Mariinskij o al Bol’šoj, con gran sorpresa dopo che il sipario s’apre sulle note imperiose della polonaise e fa esplodere il coro degli oooh e gli applausi scroscianti degli spettatori: ricostruzione in scala 1:1 di smisurati saloni neoclassici di residenza aristocratica, con centinaia di persone sul palcoscenico tra protagonisti, coro, ballerini e figuranti, ciascuno con un diverso costume, come neanche nel peggior incubo zeffirelliano da horror vacui. In questa produzione invece la scena è minimalista, la celebre polonaise viene eseguita a sipario chiuso e soltanto un buio avvolgente accompagna poi le azioni dei protagonisti, delimitato da scarlatti velari che separano il proscenio dalle quinte dove si sta svolgendo la festa da ballo. Coristi e figuranti sono fugaci ombre danzanti proiettate sulla trasparenza delle tende che s’aprono ogni tanto al centro facendo intravedere una bolgia da volgare festa di fraudolenti arricchiti che neanche al Billionaire di Briatore. Il drammatico duetto fra Onegin e Tat’jana viene svolto nel proscenio mentre pian piano viene smontata ogni traccia scenografica, fino all’angoscioso buio totale che inghiotte progressivamente i due protagonisti.
Con l’indimenticabile Chovanščina del 2019 di Valerij Gergiev era iniziata la feconda collaborazione scaligera con Mario Martone e doveva proseguire con la Pikovaja Dama e con questo Evgenij Onegin. Tutti conosciamo le tragiche e motivate cause che hanno portato all’allontanamento del direttore d’orchestra dai teatri e dalle sale da concerto fuori dalla Russia, con la sostituzione nella Pikovaja Dama del 2022 del giovane Timur Zangiev, nato nell’Ossezia Settentrionale nel 1994: un cambiamento che ha suscitato molti rimpianti per la mancata interpretazione come al solito trascinante e sulfurea di Gergiev e che oggi vede ancora Zangiev alla conduzione di questo Evgenij Onegin. Comunque, quest’ultimo mostra fin da subito una buona sintonia con l’orchestra e con il coro, molto ben diretto da Alberto Malazzi. Nell’annosa querelle su quanto ci sia di troppo occidentale nella musica čajkovskiana rispetto alla linea nazionalistica perseguita dal Gruppo dei Cinque, in particolare da Musorgskij, basta ascoltare l’ingresso dei contadini Le bianche mani per il gran lavorare nel primo atto: la russkaja duša – l’anima russa – subisce una “risciacquatura dei panni” di manzoniana memoria stavolta nel Reno e nella Senna. Lo specchio del canto liturgico ortodosso e della tradizione musicale delle campagne viene rivisitato attraverso il lirico cannocchiale rovesciato del liederismo tedesco imperante nei salotti pietroburghesi e moscoviti e nel recupero folklorico della romanza da camera russa come fosse cantata in un sala da concerti a Parigi. Tutti tratti musicali di studiata mondanità che il direttore sa ben evidenziare nei vari momenti di danza: nel valzer sinfonico del secondo atto, nel tempo di mazurka della successiva scena con il maestro di francese Triquet, nell’allegro vivace dell’écossaise in ritmo binario, soprattutto nella celeberrima e imperiosa polonaise all’inizio del terzo atto. A tre anni di distanza della Pikovaja Dama scaligera, Zangiev dimostra ancora una volta il rigore stilistico e la ferrea tecnica di conduzione orchestrale della grande tradizione russa, con un affinamento interpretativo che ci fa ancor di più ascoltare le sonorità raffinate e lucenti della partitura. Lo dimostra l’accompagnamento alla febbrile scena della lettera che Tat’jana scrive per l’intera notte a Onegin,uno dei vertici assoluti tra le pagine musicali composte per il registro di soprano. Čajkovskij s’era totalmente immedesimato nella protagonista e, in una lettera all’amico Nikolaj Kaškin, scrisse: “Totalmente immerso nella composizione, mi identificai a tal punto con l’immagine di Tat’jana che questa divenne per me come una persona in carne e ossa. Amavo Tat’jana ed ero furioso con Onegin, che giudicavo un dandy freddo e senza cuore”. La notturna stesura della lettera è un intenso monologo che attraversa molti stati d’animo diversi della ragazza: Mi perderò; ma prima, accecata da una sfolgorante speranza, evocherò una felicità sconosciuta, l’iniziale concitazione emotiva sull’opportunità del messaggio con il febbrile dirigersi deciso alla scrivania per iniziare – No, è tutto sbagliato! Ricomincio da capo, il momento dell’indecisione su cosa scrivere – No, a nessun altro al mondo avrei dato il mio cuore, la certezza dei suoi forti sentimenti per Onegin – Ahimè, non ho la forza di sottomettere il mio cuore, l’esitazione ad abbandonarsi per non soffrire – Perché siete venuto qui? Nella solitudine di questo villaggio dimenticato io non vi avrei mai conosciuto, l’aperta confessione d’un amore incondizionato – Pensami: io sono qui sola, nessuno mi comprende, la percezione che nella sua solitudine nessun’altra persona può capirla – Chi sei, il mio angelo custode o un perfido tentatore?, il tenero abbandono attraversato dalla scura ombra d’essere rifiutata – Finisco… Non ho il coraggio di rileggere, l’accettazione finale del “sarà quel che sarà”. Una pagina d’assoluto coinvolgimento vocale, orchestrale e scenico, una molteplicità mutevole di sentimenti al calor bianco che trascina lo spettatore in personali narrazioni amorose da tutti provate almeno una volta nella vita, nessuno escluso. I più anziani loggionisti ancora favoleggiano la luminosa Tat’jana di Galina Višnevskaja della tournée del Teatro Bol’šoj di Mosca a Milano nella stagione del 1972/73. Più vicina nel tempo, nel 1986, ci piace anche ricordare in questo ruolo il grande trasporto emotivo e la perfetta dizione russa di Mirella Freni, scaligera protagonista čajkovskiana e magistralmente diretta da Seiji Ozawa nella bella regia di Andrej Končalovskij. Perché oggi scegliere per un ruolo così complesso Aida Garifullina? Perché è una russa DOC e ha imparato a memoria fin dalle elementari i versi dell’Evgenij Onegin di Puškin? Perché possiede una tale avvenenza che nell’atto finale la fa apparire in abito da sera nero con décolleté e spacco da sfilata di top model, ben confezionato dalla costumista Ursula Patzak, e le concede il vanto di finire a buon diritto sulla copertina di Vogue? La sua voce potrebbe forse essere più a suo agio in ruoli da soprano leggero, anche se nella zona acuta presenta una voce aspra e un timbro non indimenticabile. Poi, un registro medio-grave insignificante e un volume molto esile, tanto che il direttore Zangiev sembra trattenere ogni tanto il suono orchestrale e, di conseguenza, anche tutto l’irrequieto e talvolta concitato pathos della protagonista. Un ruolo così appassionato e mutevole nell’accentazione emotiva delle possibili sfumature vocali che la Garifullina risolve in modo algido e distaccato, talvolta anche noioso. E bisogna proprio mettercela tutta per rendere noioso un personaggio dalle molte sfaccettature espressive come quello di Tat’jana! Detto questo, c’è sembrato eccessivo e anche un po’ maleducato l’uragano di buuu che l’hanno accolta negli inchini finali alla replica del 2 marzo.
Alexej Markov era Evgenij Onegin: un dandy pietrificato nella cinica percezione di sé e in un perenne ennui sprezzante, come uno snob Darcy di Pride and Prejudice in versione russa, oppure come un disilluso personaggio teatrale di Anton Čechov deprivato però d’ogni traccia di slancio visionario. Un timbro poco attraente e talvolta faticato in zona acuta ma che si fa ascoltare grazie a un fraseggio sempre accurato: una dosata espressività nel distaccato atteggiamento dei primi due atti ma che dà il massimo di sé nel lacerante abbandono amoroso del duetto finale.
Un’ottima performance interpretativa, la migliore fra tutte in quest’Onegin, per Dmitrij Korchak nel ruolo di Lenskij, con un meritato uragano d’applausi dopo la celebre aria Dove…dove risolta con le straordinarie mezzevoci d’un canto pervaso dal nobile senso dell’onore ma anche preso da una passionalità velata di grande mestizia. Oppure nella corposità vocale della dichiarazione d’amore a Ol’ga, così ricca di quell’eccitazione giovanile che si risolve nella facilità degli acuti voluminosi, nel virile abbandono lirico, nelle accese sfumature chiaroscurali d’un perfetto fraseggio da eroe romantico. Un tenore di raffinata musicalità, non a caso anche direttore d’orchestra, molto richiesto dai più importanti teatri d’opera e perfettamente a suo agio in repertori diversi da quello russo dove all’inizio di carriera era stato relegato. Basta ricordare le sue interpretazioni rossiniane, come il suo recente Arnold nel Guillaume Tell scaligero o gli impervi ruoli nel Bianca e Falliero, Maometto II, Torvaldo e Dorliska…
Elmina Hasan ha interpretato Ol’ga, un personaggio sospeso in un’atmosfera mentale molto di superficie e nella stupida inconsapevolezza d’uno sconsiderato comportamento seduttivo, provocato proditoriamente da Onegin, che causerà la morte dell’amato Lenskij: un physique du rôle adeguato, una voce omogenea e dal bel timbro, soprattutto nel fatuo arioso “Non sono fatta per la malinconia”.
Sia Alisa Kolosova, come padrona di casa Larina, che Julia Gertseva, come njanja Filipp’evna saggia e protettiva, intonano con una spiccata personalità vocale nell’iniziale duetto vocale tutta l’afflitta rassegnazione per cui L’abitudine ci viene mandata da lassù al posto della felicità. E, per sottolineare l’inadeguatezza della Garifullina, le frasi cantate dalla sua njanja prima e dopo la scena della lettera avevano un volume di voce e una bellezza timbrica che alla fine si ricordano di più di quelle della protagonista.
Breve apparizione solo al terzo atto ma molto significativa, quella del principe Gremin di Dmitrij Ul’janov: una voce scura da vero basso russo nella grande quanto difficile aria Tutte le età sono soggette all’amore ma piuttosto sgradevole dal punto di vista timbrico nella zona più grave.
Lo spiritato maître de langue française delle due ragazze Triquet di Jaroslav Abaimov, nella scena kolchoziana e militarizzata del secondo atto, sembra il classico “scemo di guerra” del villaggio che s’aggira tra la gente in vaniloqui in francese che nessuno riesce a capire. Una voce di piccolo volume nei due couplet, senza alcun fascino, se non altro scevra per fortuna dal solito macchiettismo che accompagna il personaggio.
Qualche accalorato urlo di genere retrò dall’alto del loggione contro la regia e, come detto, l’esagerata esplosione contestataria contro Aida Garifullina.