Al Teatro alla Scala di Milano, quinta rappresentazione del dittico Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni e Pagliacci di Ruggero Leoncavallo con la regia di Mario Martone. Orchestra e coro del Teatro alla Scala davvero straordinari sotto la guida del Maestro Giampaolo Bisanti che fa della attenta e composta direzione un apprezzabile e sicuro riferimento alle partiture soprattutto negli omogenei preludi e ed intermezzi.
A parte piccole variazioni ed aggiustamenti di scena e di costume, si rivedono quelle già proposte di Sergio Tramonti per le scene e di Ursula Patzak per i costumi nelle produzioni degli anni 2010-2011 e 2014-2015.
Per Cavalleria Rusticana lo scarno allestimento nel gioco di sedie povero di luci che si compongono e scompongono per rappresentare ora la navata di una chiesa durante la celebrazione pasquale interna del “Regina Coeli, laetare, Alleluja” ed esterna dell’”Inneggiamo, il Signor non è morto!”, che dell’osteria in piazza. Sono solo tre gli elementi accessori che si muovono: la casetta semovente di Mamma Lucia che attraversa fuggevole la scena all’inizio del terzo quadro, la croce durante la messa alla quale Santuzza non partecipa, ed un grosso ceppo d’ulivo intorno al quale i carrettieri bevono nel quadro del brindisi. Un po’ statico e cupo forse se pur deve rappresentare l’incombere della tragedia che verrà da lì a poco. Tra vesti, cappelli, scialli e grembiali che si ammassano e frusciano, più un Pellizza da Volpedo che una verista sicilianità di campagna.
Per Pagliacci è diverso. L’ambientazione del dimesso gruppo circense è ben collocata sotto i piloni fatiscenti di uno svincolo autostradale. Una periferia degradata illuminata dal riverbero delle luci della città poco distante, la roulotte vecchia ed arrugginita che è casa per Nedda e l’aggressivo Canio, automobili e furgoni da rottamare che sono mezzi di trasporto per il nucleo rom che vive ai margini della società e destinato ad involvere senza riscatto perché succube della violenza, della sopraffazione e della gelosia dove la bellezza e la sensualità della giovane Nedda stimolano appetiti e bramosie di un possesso che sembra di riffa e quindi del potere della supremazia maschile.
In questa recita di Cavalleria, il Sovrintendente Meyer annuncia che Elina Garanča, indisposta, è sostituita da Saioa Hernández che debutta nel ruolo di Santuzza. Bel timbro, buona tecnica ed estensione degli acuti se pur qualche Do risulta più gridato che cantato. Il fraseggio è corretto ma forse pecca un po’ la coloratura espressiva del sentimento.
Lola, Francesca di Sauro, è nella parte, sfacciata e femminea quanto basta per rendere il suo stornello ben eseguito e con buone colorature che caricano il personaggio.
Brian Jagde è un Turiddu credibile, si muove e canta con la virilità sfrontata di chi ha la vita nel cavallo dei pantaloni ed è ben interpretato anche nell’ubriacatura. Ha voce generosa e sicura, brunita e con buon squillo che talvolta però pecca per essere sguaiato anche quando il ruolo prevede un’ accorata supplica a madre Lucia (E poi… mamma, sentite, s’io non tornassi…voi dovrete fare da madre a Santa…).
Del Mezzosoprano Elena Zilio che alla sua invidiabile età conserva altrettanta invidiabile voce interpreta Mamma Lucia, bisognerebbe solo parlare con la deferenza che si deve alla nobiltà del canto lirico diventato patrimonio immateriale dell’umanità. E’ scuola interpretativa, e la grande esperienza le permette di trasformare in recitato alcuni drammatici e impegnativi punti di partitura.
Nei Pagliacci, Nedda è Irina Lungu. E’ vezzosa, leggera, desiderosa di ballare da sola ma non può, vive in un ambiente dove gli uomini la costringono, la imbrigliano e ne paga le conseguenze. La Lungu ha un timbro squillante, buon fraseggio ed emerge in modo più convincente nel duetto con Silvio (Non mi tentar!… Vuoi tu perder la vita mia?…” nel quale sono gradevoli anche i centrali.)
Silvio è strutturato su Mattia Olivieri che ha voce sicura di baritono dai registri equilibrati e ben veste i panni dell’appassionato amante con colori bruniti anche lui soprattutto nel duetto con Nedda (Se tu scordasti l’ore fugaci, io non posso e voglio ancor…).
Nel dittico Roman Burdenko è l’unico ad interpretare i due melodrammi in sequenza: Compar Alfio in Cavalleria e Tonio in Pagliacci. E’ solido, ben timbrato, forse più scolpito che cesellato sulle parti che prevedono passaggi impegnativi tra estesi acuti di potenza ed appassionate morbidezze ma gli va riconosciuto che è l’unico ad avere un long time interpretativo.
Una cornice a parte merita Fabio Sartori che in Pagliacci è Canio. E’ palpabile l’attesa del suo ingresso in scena e viene ricompensata. Sartori è in stato di grazia: voce generosa, ha proiezione senza incertezze, acuti squillanti e sapienti registri centrali. La vocalità ed il fraseggio uniti alla carica interpretativa che lo portano con la regia di Martone, a rabbiose incursioni tra gli spettatori del primo ordine dei palchi, delineano un Canio che indiscutibilmente si lega a questo grande tenore che ben delinea il virile pagliaccio roso dalla gelosia, cieco dal desiderio di vendetta, tormentato dal sospetto ma sgomento dalla potenziale solitudine da Nedda. Non vola una mosca nel suo straordinario e senza incertezze “Vesti la giubba” e poi al pianto “ridi del duol che t’avvelena il cor!” il teatro esplode in potente ovazione mentre chiude il sipario del primo atto.
Bravi gli acrobati e giocolieri e così il Coro di voci bianche dell’Accademia diretti da Marco De Gaspari.
E con “Hanno ammazzato compare Turiddu!” e “La commedia è finita!” si chiude il sipario su questa quinta replica dal successo sicuro trasmessa anche in streaming nella nuova piattaforma del teatro.