Questa Theodora rappresenta il debutto stellare di un Georg Friedrich Händel indiscutibile protagonista della presente stagione del Teatro Real, con altri tre titoli handeliani in versione concerto in programma (Alcina, Jephta e Tamerlano) e un marcato sapore barocco. Molti concordano nel considerare che l’oratorio Theodora – perché tanto impegno nel mettere in scena un oratorio, quando Händel conta non meno di 42 opere in catalogo e alcuni capolavori come Giulio Cesare in Egitto, Alessandro o, soprattutto, Rinaldo non hanno ancora calcato questo palco? – si collochi tra il meglio della produzione musicale del caro sassone. Presentato per la prima volta nel 1750 con una tiepida accoglienza al Covent Garden di Londra, Theodora si caratterizza per una musica suggestiva e commovente, che però può risultare impegnativa per le introspezioni e le talvolta interminabili arie da capo, affidate ai virtuosi personaggi cristiani. Al contrario, i rari momenti di baldoria inseriti nella partitura sono affidati agli idolatri romani.
“Questa produzione mostra scene di violenza e contiene temi di terrorismo, molestie e sfruttamento sessuale”. Questo è il testo che si poteva leggere sul sito del Teatro Real come avvertimento per il pubblico riguardo alla nuova produzione (coproduzione con la ROH di Londra, lo stesso teatro che vide nascere l’opera nel 1750) di Katie Mitchell, e che molto cortesemente veniva reiterato al momento dell’acquisto dei biglietti. A questo si aggiunge, come è stato sottolineato con esagerata enfasi, la presenza nelle prove di una coordinatrice di intimità. Promettente, senza dubbio. Tuttavia, se qualcuno si fosse presentato al teatro in cerca di polemica, probabilmente ne sarebbe uscito piuttosto deluso, consapevole di essere caduto in un’altra delle abili strategie del Teatro Real per cercare di riempire le poltrone – qualsiasi altro giorno al modico prezzo di 247 euro, 407 in questa occasione, giorno della prima – di una platea mezzo vuota. Tutto studiato!
Mitchell, come sottolineato impetuosamente dai media, cerca di offrire con la sua regia una prospettiva femminista al moralistico libretto di Thomas Morell, trasportando l’azione ai giorni nostri, dove la fermezza nella fede di Theodora contro i tirannici romani si trasforma in un’arringa contro l’oppressione maschile. Valens è un ambasciatore romano maschilista, eteropatriarcale e irrispettoso verso le donne, che costringe i suoi dipendenti cristiani a partecipare alle celebrazioni in onore di Giove e dell’imperatore. Questi ultimi, capitanati dalle super-femministe ed emancipate Theodora e Irene, sono, a loro volta, una sorta di terroristi fanatici che si infuriano perché il capo Valens non permette loro di celebrare il Natale (quando, in realtà, se vogliamo essere precisi, l’equivalente più vicino al Natale cristiano nella cultura romana sarebbero i Saturnali). Per vendicarsi, decidono che la cosa migliore da fare è fabbricare degli esplosivi nella cucina dell’ambasciata per farla saltare in aria. Ma, loro malgrado, vengono sorpresi sul fatto, e Theodora finisce condannata (per aver dato un ginocchio nei genitali a Valens quando tentava di molestarla) a lavorare in un bordello al servizio dei romani. Qui incontra due ballerine di pole dance che si esibiscono mentre lei canta la sua aria “With darkness deep, as is my woe” (e che, va detto, hanno svolto molto professionalmente il loro compito). Parallelamente, Didymus, una guardia di sicurezza dell’ambasciata segretamente innamorato di Theodora, decide, dopo essere stato battezzato da Irene sul tavolo della cucina usato come altare improvvisato, e con l’aiuto del romano Septimius, di infiltrarsi nel bordello per tentare il salvataggio. Qui scambia il suo abbigliamento con quello di Theodora, in modo che lei possa fuggire mentre lui, vestito con il suo strettissimo abito, inizia a praticare il pole dance con le sue compagne meretrici, per non destare sospetti. Ma, sorpresa! Valens nota che la sua nuova prostituta sembra un po’ strana e scopre l’inganno, condannando entrambi, dopo un matrimonio lampo, a morire – sfiorando il comico – congelati nella cella frigorifera della cucina dell’ambasciata. Il libretto originale si conclude con la condanna a morte dei protagonisti come martiri; ma, qui assistiamo a una scena epica al rallentatore, degna di un film d’azione, in cui i cristiani uccidono i romani e Irene riesce a tirare fuori dalla cella frigorifera, ormai quasi assiderati, i due sposi.
A prima vista, tutto questo sembra una serie di idee strampalate, a partire dall’aspetto più elementare, la decisione di mettere in scena un oratorio. Comunque, affrontare le tre ore di durata dell’opera (forse uno degli esempi più rappresentativi dell’Händel “difficile”) in versione concertante sarebbe stato un autentico tour de force per il fan medio. Così, bisogna riconoscere alla regista britannica la straordinaria capacità di mantenere costantemente vigile lo spettatore, curioso di scoprire quale nuova idea geniale seguirà la precedente, e di sfruttare al massimo un argomento, come ci si può aspettare da un oratorio – pur trattandosi del più aperto alle interpretazioni tra quelli di Händel – molto limitato. La messa in scena, con una direzione attoriale – nel bene e nel male – eccellentemente delineata, funziona, e la scenografia di Chloe Lamford, una struttura rotante composta da cubicoli che rappresentano i diversi spazi in cui si svolge l’azione, è piacevole alla vista. Tutto ciò è ottimo, ma può comportare una conseguenza poco desiderabile: che la musica venga relegata in secondo piano. Come prevedibile, i responsabili della ripresa – Michell non si è fatta vedere – sono stati accolti con sonori fischi da un pubblico diviso, sebbene gli applausi e i “bravi” dell’altra metà degli spettatori siano riusciti a superare i contestatori.
Ivor Bolton non si è mai distinto per immaginazione o vivacità e, come previsto, anche questa volta non ha fatto eccezione. Il maestro inglese e direttore stabile – il cui contratto scade questa stagione – dell’orchestra del Teatro Real, considerato da molti un esperto di Händel e Mozart, ha offerto una lettura priva di fantasia e contrasti, ma funzionale e adeguata come supporto al canto. Le arie di bravura sono state solo “di mezza bravura”, e la varietà dinamica inesistente. Probabilmente, è grazie al carattere eccessivamente cerimonioso e pesante della musica di Theodora che il suo approccio, sebbene routinario – insisto – efficace, non ha stonato quanto avrebbe potuto in altre occasioni; penso, ad esempio, alle sue discutibili Nozze di Figaro (2022) o Medée (2023). Vale anche la pena ricordare che Bolton è stato il direttore musicale della produzione di Salisburgo (2009) che ha contribuito a rivalutare Theodora, perciò conosce bene l’opera. L’Orchestra Sinfonica di Madrid, questa volta con un numero molto ridotto di componenti e una buca dell’orchestra semivuota, seguendo le consuetudini interpretative del repertorio barocco, e pur essendo distante anni luce dal suono di un’orchestra d’epoca, ha risposto con grande professionalità ai peculiari gesti di Bolton. Da segnalare gli interventi degli ottoni naturali e del continuo, composto da due clavicembali (suonati dallo stesso Bolton e dal suo abituale Roderick Shaw), arpa, tiorba e organo. Il volume del Coro Intermezzo, sublime come sempre, è stato purtroppo penalizzato, così come quello dei solisti, dalla decisione scenica di collocare i cantanti all’interno dei cubicoli che compongono la scenografia. Brillanti in “And draw a blessing down”, la loro interpretazione nel coro finale “O Love divine, thou source of fame” è stata il momento più emozionante della serata.
A eccezione dell’assenza del celeberrimo Jakub Józef Orliński, il Teatro Real è riuscito a riunire l’intero cast che ha partecipato alla prima della produzione alla Royal Opera House di Londra (che, a quanto pare, è recentemente stata ribattezzata Royal Ballet and Opera). Senza dubbio, l’esperienza pregressa ha favorito la credibilità di una direzione attoriale molto elaborata. Però, se scenicamente ha funzionato, vocalmente non tutto è stato rose e fiori. Julia Bullock, ottima attrice, ha mostrato nei panni di Theodora seri problemi negli acuti, aperti e talvolta vicini all’incidente, oltre a alcune evidenti stonature, come nell’aria “With darkness deep”. Probabilmente – o almeno voglio crederlo – si è trattato di una serata sfortunata. Questi inconvenienti sono stati compensati da un registro centrale corretto, una musicalità convincente e un emotivo “O, that I on wings could rise”.
Joyce DiDonato (Irene), in sintonia con Bullock nel vivace duetto “Whither, princess, do you fly?”, ha portato esperienza alla scena. Il trascorrere degli anni non è indifferente alla voce di una DiDonato dalla travolgente presenza scenica, molto amata dal pubblico madrileno sin dalla sua rivelazione in una Cenerentola nel già lontano 2001. Irene ha la sfortuna e la fortuna di avere le arie più tediose dell’oratorio, ma anche musicalmente le più affascinanti. Questo non ha impedito al mezzosoprano “sopranoide” statunitense di elevarsi un gradino sopra gli altri colleghi.
Il controtenore Iestyn Davies, interrotto da applausi troppo entusiasti nel bel mezzo del climax dell’aria “The raptur’d soul”, ha delineato un Didymus corretto ma un po’ monotono. Sono da sottolineare anche i suoi ammirevoli tentativi di pole dance. Ed Lyon è stato un Septimius dal timbro più gradevole rispetto a quello abituale dei tenori secondari handeliani, e Callum Thorpe un Valens imponente e odioso. Sufficiente, infine, il messaggero di Thando Mjandana. Non mi viene in mente alcun motivo valido per portare un cantante straniero per un ruolo con un intervento vocale di pochi secondi, se non la necessità di un buon attore, dato che la regia lo fa muovere sulla scena per tutta l’opera.
Una produzione discutibile ma drammaticamente efficace e un comparto musicale corretto ma, salvo rare eccezioni, poco emozionante. In definitiva, una serata che non passerà alla storia, ma comunque godibile.
Esta Theodora constituye la primera aparición estelar de un Georg Friedrich Händel indiscutible protagonista de la presente temporada del Teatro Real, con otros tres títulos handelianos en versión de concierto programados (Alcina, Jephta y Tamerlano) y un fuerte sabor barroco. Son muchos los que se ponen de acuerdo en considerar que el oratorio Theodora –¿a qué se debe tal empeño en escenificar un oratorio cuando Händel cuenta con nada menos que 42 óperas en catálogo y algunas obras maestras como Giulio Cesare in Egitto, Alessandro o, sobre todo, Rinaldo, siguen sin pisar este escenario?– se encuentra dentro de lo mejor de la producción musical del caro sassone. Estrenado en 1750 con una tibia acogida en el Covent Garden de Londres, Theodora se caracteriza por una música sugestiva y conmovedora, pero que puede acabar resultando desafiante por sus introspectivas y en ocasiones interminables arias da capo puestas en boca de los virtuosos personajes cristianos. En cambio, los escasos momentos de jolgorio insertados en la partitura vendrán de mano de los idólatras romanos.
«Esta producción muestra escenas violentas y contiene temas de terrorismo, acoso y explotación sexual». Este el texto que se podía leer en la web del Teatro Real como advertencia al espectador sobre la nueva producción (coproducción con la ROH de Londres, mismo escenario que vio nacer la obra en 1750) de Katie Mitchell, y que muy gentilmente se reiteraba a la hora de adquirir las entradas. A esto se le sumaba, tal como se ha venido insistiendo con desmesurado esmero, la presencia en los ensayos de una coordinadora de intimidad. Prometedor, sin duda. No obstante, si es que alguien se presentó en el teatro con ganas de gresca, muy probablemente habrá salido bastante decepcionado del mismo, consciente de que ha caído de nuevo en una más de las hábiles estrategias teatralrealeras para intentar ocupar las localidades –cualquier otro día al módico precio de 247 euros, 407 en este caso, día del estreno– de un patio de butacas medio vacío. ¡Si es que está todo pensado!
Mitchell, tal como se han encargado de enfatizar impetuosamente los medios generalistas, trata de proveer con su puesta en escena un enfoque feminista al mojigato libreto de Thomas Morell, trasladando la acción a nuestros días, y en el que la fortaleza en la fe de Theodora ante los tiránicos romanos se ve transformada en un alegato contra la opresión masculina. Valens es un embajador romano machista, heteropatriarcal y con la mano muy larga que obliga a sus empleados cristianos a participar en las celebraciones en honor a Júpiter y el emperador. Estos, capitaneados por las cocineras superfeministas y empoderas Theodora e Irene, son, a su vez, una especie de terroristas fanáticos que se enfadan porque el jefe Valens no les deja celebrar la Navidad (cuando, en realidad, si nos ponemos exquisitos, el equivalente más cercano a la Navidad cristiana en la cultura romana serían las Saturnales). Para vengarse, deciden que lo mejor que pueden hacer es fabricar unos explosivos en la cocina de la embajada que la harán saltar por los aires. Pero, muy a su pesar, son pillados en plena faena, y Theodora termina condenada (por meterle un rodillazo en la entrepierna a Valens cuando intentaba forzarla) a trabajar en un puticlub al servicio de los romanos. Allí conoce a dos bailarinas de pole dance que dan vueltas mientras ella canta su aria “With darkness deep, as is my woe” (y que, todo sea dicho, cumplieron muy profesionalmente su cometido). Paralelamente, Didymus, un guardia de seguridad de la embajada secretamente enamorado de Theodora, decide, tras ser bautizado por Irene en la mesa de la cocina como altar improvisado, y con la ayuda del romano Septimius, infiltrarse en el burdel para emprender el rescate. Allí se intercambiará el outfit con Thedora para que esta pueda escapar mientras él, ataviado con su apretadísimo vestido, se pone a practicar pole dance con sus compañeras meretrices, para disimular. Pero, ¡oh, sorpresa!, Valens nota que su nueva cortesana está un poco rara y acaba descubriendo el engaño, siendo ambos condenados, tras una boda express, a morir –rozando ya lo cómico– congelados en la cámara frigorífica de la cocina de la embajada. El libreto original finaliza con la condena a muerte como mártires de los protagonistas; no obstante, aquí asistimos a una épica escena a cámara lenta, digna de una película de acción, en la que los cristianos dan muerte a los romanos e Irene logra sacar del congelador, al borde de la hipotermia, al matrimonio.
A priori, todo esto parece una sarta de ideas disparatadas, comenzando por lo más básico, el hecho de escenificar un oratorio. Sin embargo, tragarse las tres horas que dura la obra (quizás uno de los ejemplos más ilustrativos del Händel «difícil») en versión concertante habría supuesto todo un tour de force para el aficionado promedio. Así, hay que reconocer a la directora británica la fascinante capacidad de mantener alerta al espectador en todo momento, expectante de qué nueva ocurrencia genial vendrá después de la anterior, y de exprimir a niveles extremos un argumento, como cabe esperar de un oratorio, y aun tratándose del más abierto a la interpretación de sus oratorios, muy limitado. La puesta en escena, con una dirección de actores –para bien o para mal– excelentemente delineada, funciona, y la escenografía de Chloe Lamford, una estructura giratoria formada por cubículos que representan los diferentes espacios en que transcurre la acción, es grata a la vista. Todo eso está muy bien, pero puede conllevar un desenlace poco deseable: que la música se vea degradada a un segundo plano. Como era de esperar, los encargados de la reposición –Michell no apareció por allí– fueron recibidos con sonoros abucheos por un dividido público, si bien los aplausos y bravos de la otra mitad de espectadores supieron hacerse notar por encima de los abucheadores.
Ivor Bolton nunca ha destacado por su imaginación o chispa y, como era de esperar, esta tampoco ha sido la excepción. Así, el maestro inglés y director titular –cuyo contrato finaliza esta temporada– de la orquesta del Teatro Real, considerado por muchos especialista en la obra de Händel y Mozart, ofreció una lectura ayuna en fantasía y contrastes, aunque funcional a la par que apto soporte para el canto. Las arias di bravura fueron solamente «de bravura a medias», y la variedad dinámica inexistente. Es, quizás, gracias al carácter excesivamente ceremonioso y plomizo de la música de Theodora, que su rutinario aunque –insisto– eficaz acercamiento a la obra no desentona tanto como pudiera haberlo hecho en ocasiones anteriores; pienso, por ejemplo, en sus muy cuestionables Bodas de Fígaro (2022) o Medea (2023). También, cabe recordar que Bolton fue el director musical de la producción de Salzburgo (2009) que sirvió para revalorizar Theodora, por lo que ya tiene la obra rodada. La Orquesta Sinfónica de Madrid, esta vez con un muy menor número de componentes y un foso semivacío, siguiendo los usos interpretativos del repertorio barroco, y aun a años luz del sonido de una orquesta de época, respondió con gran profesionalidad ante los inherentes aspavientos de Bolton. A destacar las intervenciones de los metales naturales y el continuo, formado por dos claves (interpretados por el propio Bolton y su habitual Roderick Shaw), arpa, tiorba y órgano. El volumen del Coro Intermezzo, sublime como siempre, se vio lamentablemente perjudicado, al igual que el de los solistas, por la decisión escénica de situar a los cantantes dentro de los cubículos que componen la escenografía. Brillantes en “And draw a blessing down”, su intervención en el coro final “O Love divine, thou source of fame” fue el momento más impactante de la noche.
Salvo por la ausencia del celebérrimo Jakub Józef Orliński, el Teatro Real ha conseguido reunir al completo un cast idéntico al que participó en el estreno de la producción en la Royal Opera House londinense (que, según parece, recientemente ha pasado a denominarse Royal Ballet and Opera). Sin duda, la experiencia previa favoreció la credibilidad de una dirección actoral muy elaborada. En cambio, si bien sí escénicamente, vocalmente no fue todo de color de rosas. Julia Bullock, buena actriz, mostró como Theodora serios problemas en los agudos, abiertos y rozando el accidente, así como algunas desafinaciones, bastante evidentes, por ejemplo, en su aria “With darkness deep”. Seguramente –o al menos eso quiero creer– se trate de una mala noche. Estos contratiempos se vieron compensados por un registro central correcto, una musicalidad convincente y un emotivo “O, that I on wings could rise”.
La Irene de Joyce DiDonato, compenetrada con Bullock en el marchoso dueto “Whither, princess, do you fly?”, aportó tablas al asunto. El paso de los años no es vocalmente ajeno a una DiDonato de saber estar escénico desbordante y muy querida por el público madrileño desde su revelación en una Cenerentola en un ya lejano año 2001. El personaje de Irene tiene la mala y buena suerte de contar con las arias más tediosas del oratorio, si bien musicalmente cautivadoras. Esto no resultó impedimento alguno para la mezzo «asopranada» estadounidense para acabar brillando un escalón más arriba que el resto.
El contratenor Iestyn Davies, interrumpido por unos inoportunos aplaudidores de más de entusiastas en pleno clímax del aria “The raptur’d soul”, perfiló un acertado aunque algo monótono Didymus. Es necesario también subrayar sus admirables pinitos poledancistas. Ed Lyon fue un Septimius de timbre más grato a lo que acostumbran los tenores secundarios handelianos, y Callum Thorpe un rotundo y odioso Valens. Suficiente, finalmente, el mensajero de Thando Mjandana. No se me ocurre ningún motivo de peso para traer expresamente a un cantante extranjero para un papel cuya intervención vocal dura solamente unos segundos, más que la necesidad de contar con un buen actor, pues la dirección escénica le hace pulular por el escenario durante toda la ópera.
Una producción cuestionable pero dramáticamente efectiva y un apartado musical correcto pero, salvo contadas excepciones, poco emocionante. En definitiva, una velada que no pasará a la historia, mas disfrutable.