Il mito di Eros e Thànatos coinvolge appieno l’Ottocento culturale, letterario e, soggetti con figure che intreccino e rappresentino questi ideali, influenzano ogni espressione e corrente artistica.
Luigi Illica è tra questi ed il soggetto di Andrea Chénier – apparso sulle pagine del giornale “Le Pays” nel romanzo di Joseph Mèry nel 1849 – lo attrae per la stesura di una trama drammaturgica di ispirazione storica destinata a diventare l’opera “verista” di Umberto Giordano.
Il fascino degli elementi che catturano Illica e Giordano in quel contesto storico e sociale ci sono tutti: la crisi economica, il fermento politico e sociale, la ricchezza decadente ostentata alla povertà desolante, il vento rivoluzionario che investe l’Europa e la Francia in particolare, la passione ideologica e quella sentimentale, si trasformano in evidenza scenica e linguaggio musicale.
Nella storia dell’ Ancien Régime e delle vicissitudini del Terzo Stato, Andrea Chénier è un poeta moderatamente antigiacobino realmente vissuto ed eccessivamente idealizzato per la sua vicenda personale che lo vede improvvido autore di una lode dedicata alla filo-girondina Charlotte Corday artefice dell’accoltellamento di Jean-Paul Marat nella sua vasca da bagno.
Per questo motivo l’odio giacobino del cupo periodo del Terrore, lo arresta, lo condanna in un sommario processo a furor di popolo e, a soli 32 anni, lo ghigliottina nel 1794.
Poco dopo, nello stesso anno, anche Robespierre, esponente di spicco nella Rivoluzione Francese, subì la stessa sorte per le sue estreme posizioni radicali.
Sia Illica che Giordano approfondiscono e descrivono scrupolosamente i dettagli della vicenda storica ed inseriscono nell’opera solo quegli elementi che sono necessari al corpo della narrazione di intreccio tra Amore e Morte dell’esaltante lavoro.
Ed è con questa ispirazione e con questo rispetto che, altrettanto scrupolosamente, la regia di Pier Francesco Maestrini realizza l’interpretazione di Andrea Chénier per la mise en scène al Teatro Carlo Felice di Genova.
Favorito forse anche dalla dimensione del teatro, ma il risultato è a dir poco straordinario.
I rigogliosi giardini della Contessa di Coigny hanno l’opulenta bellezza di quella aristocrazia che verrà rovesciata dallo stesso ceto del Terzo Stato (che con la Borghesia ne avrà anche un Quarto) il quale si avventa affamato sulle ceste di viveri della festa a palazzo, nella scena prima, lasciano poi il fondale ai palazzi neoclassici distrutti dai cannoni fumanti mentre appaiono e scompaiono da balconi e terrazzi, esaltati e sbandieranti rivoluzionari, con un centrale ed inneggiate Robespierre non ancora travolto dalla reazione termidoriana.
Sic transit gloria mundi la distruzione della statua di Marat si abbatte sin quasi al limite della buca d’orchestra e così le macerie della devastazione sparse con grande effetto lungo tutto il proscenio.
La videoproiezione in realtà aumentata dell’incendio devastante che colpisce Parigi ha sulla platea un impatto scioccante per la sua spettacolare efficacia didascalica con le scene e video di Nicolàs Boni e luci di Daniele Naldi.
I costumi di Stefania Scaraggi con le coreografie di Silvia Giordano esprimono in più scene la bellezza e l’efficacia di veri e propri tableau vivant usciti dalle tele di Delacroix.
L’esaltazione di questa perfetta sezione aurea che sembra realizzata dal Fibonacci, avviene attraverso la bellezza del canto lirico dei suoi personaggi che, nella indovinata triade dei principali, annovera Fabio Sartori, Amartuvshin Enkhbat e Maria Josè Siri.
Fabio Sartori è Andrea Chénier. La voce di fama internazionale dello straordinario tenore , al debutto in questo ruolo, ha proiezione sicura, forte ed estesa. Le spinte acute reggono senza incertezze con timbri saldi e sostenuti anche negli impegnativi e difficili prolungamenti imposti talvolta dalla direzione orchestrale. C’è vera ed omogenea unicità interpretativa; armoniosa sia quando le arie prevedono carattere di maschia energia drammatica che nelle morbide e struggenti delicatezze dell’Andrea poeta. Ça va sans dire gli attesi “Un dì all’azzurro spazio”, “Come un bel dì di maggio”, “Ora soave, sublime ora d’amore!” o ““Sì, fui soldato”, godono di attacchi pressoché perfetti con fraseggi pulitissimi ed echeggianti in naturalezza.
Amartuvshin Enkhbat è Carlo Gérard. Enkhbat è indiscutibilmente punta di diamante nel panorama baritonale mondiale. Unisce doti eccezionali sia vocali che teatrali ed interpretative. Il suo ruolo è complesso e si trasforma da rancoroso aguzzino in pentito d’amoroso riscatto. Minaccia efficace l’ “uccide e trema” tonante e cupo nel monologo “Nemico della patria?!”, grave e brunito nella romanza “Compiacente a colloqui…Son sessant’anni”. Il baritono possiede un accurato fraseggio che meraviglia lasciando tutti stupiti per la conosciuta origine mongola e fa scuola a molti. Ma quello che ferma il respiro a chi l’ascolta è l’assoluta padronanza tecnica, l’emissione stentorea e la bellezza del timbro; un verdiano perfetto, solido e morbido allo stesso tempo, potente, inteso e risonante. Voce rara.
Veste i panni di Maddalena di Coigny, Maria Josè Siri. Il soprano, reduce da una indisposizione febbrile che le ha fatto saltare due recite, non rinuncia con grande senso professionale a chiudere questo Chénier al Carlo Felice. L’indubbio talento vocale unito all’esperienza lirica, sostengono la sua performance che pur non la vedono in piena forma. Lo standard è invero sotto la resa che ci si aspetta, ma Siri è disinvolta nel cambio dei registri, la voce è calda e morbida, le colorature sapientemente dosate, l’estensione è controllata per ovvii motivi e deve fare i conti con i livelli dei titani che le stanno accanto. La presenza scenica trasmette emozione e, se pur leggermente appannato nella brillantezza del timbro “La mamma morta” ha buon risultato. Più che discreta la sua prova nel duetto al quarto quadro “Vicino a te s’acqueta” accanto a Sartori che è in stato di grazia e, tenendola per mano, rende rispetto all’assieme.
La bacchetta del Maestro Donato Renzetti è tutrice verdiana dell’armonico complesso orchestrale dei pregevoli Coro ed Orchestra dell’ Opera Carlo Felice, con il risultato di ampliare qualitativamente la resa del repertorio il quale prevede passaggi musicali di straordinaria esecuzione. Delicatezze ed enfasi di partitura di bella e grande efficacia peccano solo un pochino negli allunghi finali di alcune arie, seguite da riprese repentine e veloci che tarpano le ali agli applausi spontanei scaturiti dal pubblico emozionato.
Bella voce, squillante ed omogenea Siranush Khachatryan a suo agio nella parte della contessa di Coigny, intensa ed accorata la Madelon di Manuela Custer, ben sostenuti i ruoli Roucher/ Nicolò Ceriani e di Flèville/Matteo Peirone. Convincente e sostenuto tutto il cast: Bersi/Cristina Melis, Fouquier Tinville/Marco Camastra, Mathieu/Luciano Roberti, Un incredibile/Didier Pieri, L’Abate/Gianluca Sorrentino, il Maestro di casa/Franco Rios Castro, Dumas/Angelo Parisi e Schmidt/ Andrea Porta.
Tantissimi applausi diffusi con tantissimi “bravo” in una meritata standing ovation delle oltre 1500 persone presenti molte delle quali hanno gridato “bis” a tutta l’opera in chiusura di sipario.
Comprensibile, per questo Andrea Chènier, ma impossibile – e per questo unico – Andrea Chènier.