Bersagliata e impoverita da tagli anacronistici ma impreziosita da un cast di interpreti eccezionali, Lucia di Lammermoor divide il Comunale “Nouveau” di Bologna.
E’ una Lucia d’altri tempi quella presentata a Bologna, nella sala del Comunale “Nouveau”. Non per la regia, di Jacopo Spirei, che anzi ha l’ambizione, pur non essendo sempre chiarissima da decifrare, di essere moderna e toccare temi di attualità, quanto piuttosto per l’incomprensibile, vetusta, ingiustificabile scelta operata dal direttore, il Maestro Daniel Oren (che a scanso di equivoci è, per chi vi scrive, un grandissimo) di operare tagli senza pietà alcuna allo spartito. Dalle riprese nelle cabalette ad intere scene come quella cosiddetta “della torre”, fondamentale drammaturgicamente e splendida musicalmente, all’aria di Raimondo, fino ad importanti parti “dialogiche” come quella tra “Ardon gli incensi” e “Spargi d’amaro pianto“, intenso culmine della pazzia di Lucia. Si tratta di scelte che senza alcun motivo logico non fanno altro che impoverire un’opera straordinaria anche per la sua composita ed armoniosa architettura, rendendola priva di momenti necessari al mantenimento di un filo logico nel dipanarsi delle vicende, e di una straordinaria ricchezza musicale che è cifra distintiva dell’opera. A che pro ritornare su anacronistiche e deleterie usanze? Singolare è poi il fatto che a tale arbitraria decisione venga affiancata quella, di ispirazione più filologica, di far suonare un raro e suggestivo esemplare di “verrofono”, moderna rivisitazione di una glassarmonica e di una glass harp, in luogo del più frequente flauto nel suddetto “Ardon gli incensi“, la scena della follia. Lodevole e di grande fascino se non fosse per quanto detto fin qui.
Al netto di ciò la direzione di Oren è in linea con il suo stile, forse più in sintonia con il repertorio verdiano e pucciniano che con quello più delicato e lirico di Donizetti. Tuttavia si fa sempre apprezzare la passione viscerale con cui il grande maestro si cala nella partitura estraendone tutta l’intensità emotiva possibile, allargando e stringendo i tempi in modo evidente e con essi amplificando le sfumature cromatiche, di volume. Oren e l’orchestra del Comunale respirano e dipingono insieme ai cantanti fondendosi in un flusso sonoro omogeneo, sinuoso e con vette di trasognante bellezza, come nel celebre duetto “Verranno a te sull’aure“. Positivo è anche il contributo del coro diretto da Gea Garatti Ansini.
Le scene di Mauro Tinti, che collocano tutta l’opera in un bosco (riferimento al Nastagio degli Onesti di Sandro Botticelli) e i costumi anni ’60 di Agnese Rabatti costituiscono la base, insieme alle luci di Giuseppe Di Iorio, per l’idea registica di Jacopo Spirei. Il regista vuole riflettere sul tema della violenza di una società maschilista e patriarcale, immaginando Lucia come una sorta di preda delle volontà di branchi maschili dominanti nella collettività, che trova nella pazzia e nell’omicidio l’unico strumento catartico di liberazione. Ecco dunque che il bosco vuole amplificare la dimensione quasi animalesca degli uomini che lo popolano e che vediamo fin dall’inizio in una scena di caccia e violenza di gruppo. A dire il vero il tema non viene sviluppato adeguatamente (forse proprio perché nel capolavoro donizettiano c’è già tutto e non c’è bisogno di aggiungere altro), poiché se ne perde traccia e rimane relegato al momento introduttivo. Solo nel finale ritroviamo dei corpi femminili ammassati a cui viene frettolosamente dato fuoco insieme alla carcassa di un’automobile, quasi a voler cancellare con sdegno l’oltraggio subito dalla ribellione vincente di una donna al sistema vigente. Una interpretazione che coglie aspetti pertinenti ma che rischia, nel suo voler trasporre la violenza psicologica in sopraffazione fisica, di scadere in una banalizzazione e di calcare eccessivamente la mano snaturando l’identità dell’opera. Per il resto lo spettacolo non offre particolari elementi di novità ed interesse risultando anzi paradossalmente abbastanza tradizionale in molte situazioni, per quanto concerne la disposizione di cantanti e coro e le movenze sulla scena.
Sul fronte degli interpreti troviamo l’elemento di spicco di questa produzione. Jessica Pratt è semplicemente straordinaria e senza alcun dubbio interprete di riferimento assoluto nel personaggio di Lucia nel panorama internazionale. La voce è un pregiato velluto che si dipana in tenute di fiato interminabili, in rigogliose e zampillanti agilità che ascendono con strabiliante leggerezza e precisione ad acuti e sovracuti di irresistibile purezza. Pratt sbalordisce per la padronanza tecnica con cui domina la partitura ma attenzione, la sua non è mai la mera esecuzione rigorosa e virtuosistica ma fredda di un’atleta olimpionica del belcanto. Tutt’altro, lo splendido tessuto madreperlaceo della sua voce ricama con intensità un personaggio variegato, sofferente ma determinato e lo fa attraverso un fraseggio sensibile e musicale, pianissimi e mezze voci mozzafiato appena percettibili, onirici legati che risaltano le sfumature di colore e dinamiche. Un tripudio insomma, che trova il culmine nella scena della pazzia, credibile, vera, impressionante senza il bisogno di esasperazioni. Ne sono ulteriore testimonianza le numerose richieste di bis arrivate nel mezzo dei lunghi applausi a scena aperta.
Ivan Ayon Rivas è un Edgardo eccellente per aderenza stilistica al personaggio, generosità vocale e solidità e bellezza di timbro. Il tenore peruviano fa dello squillo e del caldo colore latino della sua voce, potente, ricca di armonici e sicura nell’emissione un elemento imprescindibile da declinare in una interpretazione ispirata e credibile sia nei momenti di maggiore slancio invettivo, dove trova grande scioltezza anche scenicamente, quanto in quelle più dolenti e liriche come nella importante e lunga scena finale che lo vede protagonista. Rivas cesella e scava, forte di un fraseggio irreprensibile, fino alle ultime sofferte, appena sussurrate note finali in punto di morte.
A completare il trio dei protagonisti vi è uno spavaldo Lucas Meachem, baritono americano dallo strumento quasi torrenziale e dalla linea vocale limpida e salda. Interminabile l’acuto finale de “La pietà in suo favore”, inappuntabile l’equilibrio vocale ed espressivo con cui affronta il personaggio di Enrico.
Alquanto sprecate, visti i tagli, le arcinote qualità del basso Marko Mimica, Raimondo. La voce è sonora e ben timbrata, omogenea in tutti i registri e votata ad un canto di apprezzabile comunicativa.
Positivo è infine il contributo di Marco Miglietta, nei panni di Normanno, brillante e preciso, Vincenzo Peroni, Arturo. L’Alisa di Miriam Artiaco è adeguata ma talvolta soverchiata dalle solite fiammate orchestrali di Oren e dall’infelice acustica del Comunale “Nouveau”.
Caloroso, anzi fragoroso il successo dell’intera compagnia, con applausi copiosi per tutto il cast e ovazioni interminabili per la regina Jessica Pratt.