Sembra un quadro d’arte fiamminga e raffaellesca insieme, la scena prima di Un ballo in maschera allestito come nuova produzione presso il Teatro Comunale Nouveau di Bologna, con la regìa di Daniele Menghini e le scene di Davide Signorini. Arredi, luci, colori e pareti della sala del trono in cui si apre la vicenda rimandano ad ambientazioni nordeuropee rievocando l’originario soggetto impresso nel libretto “Gustavo III, ou le Bal Masqué” di Eugène Scribe, musicato peraltro da Auber, Mercadante, Gabussi ancor prima che Giuseppe Verdi vi trovasse la sua personale ispirazione.
Nel mondo cortigiano svedese del XVIII secolo c’era evidentemente qualcosa di attraente per il “cigno di Busseto”: non più rivoluzioni, né eroi che infiammavano il pubblico, bensì una festa e un ballo, come chiavi di volta per fuggire dall’oppressione costante della morte; l’amore che torna ad essere centrale nella vita umana, esponendo l’essere a fragilità perniciose e mortali; le vicende di corte rappresentate su più registri: dal patetico all’amoroso, dal comico al sacro perdono.
Se per motivi di censura, Verdi e il librettista Antonio Somma ne hanno modificato l’originaria ambientazione, tagliando le scene della congiura e il regicidio per evitare la censura, Menghini non ha remore nel riprendere temi e soggetti originali della regale vicenda svedese, sicché in scena il protagonista Riccardo, conte di Warwich e governatore di Boston, cinge una corona in capo e viene ucciso durante il ballo con un colpo di pistola dal suo fedele amico Renato, segretario e sposo di Amelia.
L’opera si snoda sull’asse drammaturgico e psicologico del legame di amicizia tra il Conte e Renato, infranto tuttavia dal tradimento del primo per amore verso Amelia. Tale slealtà porterà Riccardo alla morte, come da profezia pronunciata dalla Sibilla Ulrica.
Tutta l’opera è permeata dalla festa con ballo e dall’orrida predizione con caratteristici simboli: dal palloncino dorato sospeso da un filo di coriandoli che scorre attraverso il palco nell’ouverture orchestrale, agli innumerevoli teschi disseminati nell’“orrido campo”, ad uno “scheletro” campeggiante in varie pose e in più scene fino alla conclusiva “notte d’orror”.
E Menghini esprime il suo talento utilizzando tali simboli per rappresentare la convivenza del tragico con il comico nella drammaturgia verdiana, come sintesi della vita oscillante tra tinte chiaroscure inscindibili. Ma il comico si palesa anche a tinte ironiche a conclusione del secondo atto quando, caduto il velo dal capo di Amelia, i congiurati e il popolo, interpretati dall’ottimo Coro del Teatro Comunale preparato da Gea Garatti Ansini, dimostrano con risate, sogghigni inequivocabili e con giulivo balletto, di aver compreso l’accaduto e di avere sotto mano uno scandalo da cronaca cittadina: “Ve’ la tragedia mutò in commedia piacevolissima -Ah! Ah! Ah! E che baccano sul caso strano andrà dimane per la città”.
E nel comico si crogiola anche il paggio Oscar di Silvia Spessot, un Cherubino in chiave verdiana, figura chiave e deus ex machina del dramma, che con bella e agile vocalità canta e scherza passando con nonchalance dal divertente al tragico: “Oscar lo sa ma no ‘l dirà, tra là, là là là là, là là …; O dolor senza misura, o terribile sventura”.
Un cast apprezzatissimo per la prima recita. Maria Teresa Leva sostituisce la prevista Anastasia Bartoli in Amelia, riscotendo calorosi applausi anche a sipario aperto per la pregnante interpretazione delle non facili parti a lei dedicate, come la scena “Ecco l’orrido campo” e le arie “Ma dall’arido stelo divulsa”, “Morrò ma prima in grazia”. E’ una voce morbida la sua, che svetta nell’acuto coprendo con omogenea bellezza l’intero registro sopranile anche nei “pianissimi”.
Spicca per brillantezza lo squillo tenorile di Fabio Sartori, che interpreta con solida voce, intensa e disinvolta azione scenica il personaggio di Riccardo, raggiungendo picchi di penetrante espressività sia nel duetto con Amelia “Non sai tu che se l’anima mia” e “Oh, qual soave brivido”, sia nella romanza del terzo atto “Ma se m’è forza perderti”.
Straordinaria è l’interpretazione di Amartuvshin Enkhbat, calato con buona resa scenica nel personaggio di Renato. La scena “Alzati; là tuo figlio” e l’aria “Eri tu che macchiavi quell’anima” sono esibite dal bravo baritono mongolo con vocalità calda e pastosa e con espressività verdiana non comune negli odierni palchi d’opera.
Si disimpegna bene l’Ulrica di Silvia Beltrami, contralto dalla robusta voce utilizzata dall’artista con destrezza e marcata drammaticità nei momenti funesti della sua veggenza.
Poco incisivi sono gli inimicali toni dei due congiurati, Samuel e Tom, interpretati con incerta azione scenica rispettivamente da Zhibin Zhang e Kwangsik Park, così come il Primo Giudice del tenore Cristobal Campos Marin e il Silvano di Andrea Borghini (basso) appaiono senza un preciso ruolo, assieme a Sandro Pucci, servo di Amelia.
Riccardo Frizza, alla direzione dell’ottima Orchestra del Teatro comunale, mette in luce ogni bellezza e colore della partitura verdiana. Con il suo misurato ed equilibrato gesto, il suono orchestrale si veste della varietà di corde e intonazioni che vanno dalla leggerezza settecentesca dell’opera buffa alla varietà degli accenti lirico drammatici ottocenteschi. E nei punti di massima concertazione tra voci soliste e orchestra il bresciano direttore esalta la cantabilità e gli ariosi della musica verdiana sostenendo sapientemente gli orchestrali nel dispiegarsi melodico delle singole parti.
Sotto i riflettori delle luci, guidati da Gianni Bertoli fanno bella mostra di sé i costumi disegnati da Nika Campisi, immersi nell’ambientazione storica della vicenda, contaminata tuttavia da un tocco di modernità con abiti neri, camicia e farfallino, indossati dai congiurati. Di Marco Caudera sono i movimenti scenici e coreografici.
Alla fine della recita, vivo successo per tutti!