Per la conclusione della stagione il Massimo barese ha scelto di concludere con l’unico dramma storico appartenente alla produzione Pucciniana: Tosca, la cui prima assoluta ebbe luogo al teatro Costanzi di Roma nel 1900. Tosca è il degno omaggio che anche Bari fa all’anno pucciniano nella ricorrenza della sua morte, a distanza di un secolo.
L’allestimento è quello del Teatro Comunale di Bologna e a firmare la regia, le scene e i costumi Hugo de Ana, uno dei pochi decani nell’Olimpo registico a difesa della drammaturgia di ciascun capolavoro operistico. I costumi sono sontuosi, di tradizione, le scene imponenti. La lettura del regista argentino coniuga la tradizione e l’innovazione dal punto di vista scenotecnico. A commento dell’azione scenica sono state proiettate immagini dei celeberrimi luoghi della Roma papalina, a cominciare da Castel Sant’Angelo, in cui Tosca prende vita. Inoltre il regista ha voluto esteriorizzare il dramma interiore dei protagonisti, come nel caso del Vissi d’arte, dov’è stato possibile veder proiettato un sipario, un simbolo per Floria Tosca, una delle più celebri cantanti liriche del suo tempo, al secolo Angelica Catalani, dalla voce incantevole.
Se si è stati entusiasti delle scelte registiche, altrettanto ci si può ritenere soddisfatti sul fronte musicale. L’orchestra del teatro Petruzzelli è stata diretta dal maestro Francesco Cilluffo, una piacevole sorpresa per chi scrive. Sotto la sua guida la partitura pucciniana, nel suo sinfonismo leitmotivico e passionalità, è stata scandagliata con meticolosa attenzione, struggente di passione nel bellissimo tema dell’amore, in mi bemolle maggiore, nel duetto tra Mario e Tosca, alla bruciante veemenza del secondo atto, nello scontro tra due caratteri determinati e forti, quali quelli di Scarpia e Tosca. La vasta e folta compagine orchestrale raggiunge l’acme della sua espressività nel grande Te Deum di fine primo atto. La lettura del maestro Cilluffo è in perfetto dialogo con i cantanti, sebbene offra un’interpretazione di tradizione della partitura pucciniana: il si naturale su “la vita mi costasse” è lungamente tenuto, al contrario di quanto il compositore aveva scritto, il Vissi d’arte che questa sera si è udito era privo del legato su “perché signor”, eseguito peraltro come da prassi e non tenendo conto dell’esatta distribuzione dei versi sulle note come indicato da Puccini, dettagli questi destinati a non inficiare la resa musicale.
A dar voce alla cantante Floria Tosca è stato il soprano statunitense Jennifer Rowley. A fronte di una voce ben proiettata, di bella timbrica e di buona dizione, l’artista non presenta un registro medio grave sonoro, come pure ci si aspetterebbe da un’interprete di un ruolo tanto temperamentoso come questo. I ribattuti su “e avanti a lui tremava tutta Roma” ne sono un evidente prova e, pur sebben cantati, mancano di effetto drammatico. Di contro, gli acuti sono luminosi e non temono l’impervia scrittura nel feroce agone vocale con Vitellio Scarpia. Il Vissi d’arte è cantato molto bene, la lettura che ci offre è forse più vicina a una Tosca innamorata che incline a toni graffianti. Si evidenzia qualche parlato di troppo, indulgendo allo stile verista al quale spesso quest’opera si è prestata. Complessivamente, la sua prova convince pienamente, con un particolare elogio alla pronuncia sempre chiara e al servizio dell’interpretazione.
Anche il tenore Gaston Rivero si è rivelato una piacevole scoperta. Il suo Mario Cavaradossi canta con generosità e passione, dai toni lirici di Recondita armonia all’accorata difesa dell’amico Angelotti, allo straziante ricordo della vita che sfugge in E lucean le stelle, fino al duetto finale con Tosca, quando il pittore teneramente le prende le mani, poco prima artefici di un assassinio. La vocalità in possesso dell’artista è presente, sonora e omogenea, gli acuti vibranti, la sua voce non perde mai di rotondità e lirico colore che si espande in teatro, il suono sempre controllato e raccolto in acuto.
A impersonare il barone Scarpia è stato il baritono Dalibor Jenis, la voce più teatrale in assoluto, grande, sonora e di affascinante colore brunito. A lui va il merito di essere entrato nella parte del temibile capo della polizia della Roma pontificia fin dall’attacco. Tuttavia, pur comprendendo le esigenze interpretative richieste, il voler rendere un’espressività, già imperiosa, con un suono che graffia la gola gli ha in parte rovinato la prima ottava che è sembrata leggermente sporcata dal catarro. Nonostante ciò, Jenis era Scarpia fin dalla prima nota, viscido e manipolatore al termine dell’atto primo, violento e ferocemente bramoso nel secondo. All’artista va riconosciuta lodevole dizione e grande proprietà di fraseggio.
Ottimi gli altri: Dongho Kim nelle vesti di Cesare Angelotti, Massimiliano Chiarolla in quelle di Spoletta, Stefano Marchisio, il sagrestano e Domenico Apollonio come Sciarrone.
Il coro delle voci bianche e quello del teatro Petruzzelli si sono distinti nel maestoso finale del primo atto, sebbene, in tutta onestà, si rimpiange la direzione del maestro Fabrizio Cassi alla guida del coro, il quale con lui sembrava aver acquistato uno squillo mai udito in precedenza.
Il pubblico ha decretato alla serata un deciso successo, il teatro era esaurito in ogni suo ordine.