Dopo 22 anni di assenza, il Gran Teatre del Liceu di Barcellona inaugura la sua stagione 2024/25 con una nuova produzione del capolavoro di Šostakóvič, Ledi Mákbet Mtsénskogo Uyezda (Леди Макбет Мценского уезда), più conosciuta come Lady Macbeth del distretto di Mtsensk, basata sul testo omonimo di Nikolaj Leskov.
Presentata per la prima volta nel 1934, la brutalità della musica di Lady Macbeth di Mtsensk e il suo controverso argomento, carico di critica sociale, provocarono, nonostante il successo di pubblico, la reazione del regime sovietico. Lo stesso Stalin scrisse sul giornale Pravda un articolo definendola “caos al posto di musica”, accusando Šostakóvič di formalismo e immoralità, facendo temere per la sua vita. Lady Macbeth sarà rivista dal suo autore quasi trent’anni dopo con il titolo di Katerina Ismailova, attenuando le scene più scabrose (l’incontro tra Katerina e Sergej in camera da letto) e russificando il titolo e la trama, oltre a fare alcune modifiche nell’orchestrazione, qui meno sperimentale e più vicina allo Šostakóvič sinfonico. Si dice maliziosamente che, in realtà, più che un’intenzione di adattarsi agli standard artistici dell’URSS, si trattasse di un’abile stratagemma di Šostakóvič per poter continuare a riscuotere i diritti d’autore. Fortunatamente, questa volta il Liceu ha messo in scena la versione originale dell’opera, oggi la più diffusa e di maggiore interesse rispetto alla revisione.
La nuova produzione è curata dal regista residente del teatro, Àlex Ollé, co-direttore della celebre compagnia teatrale catalana La Fura dels Baus. Questa è, senza dubbio, la sua migliore produzione tra quelle che ho visto dal vivo, grazie a una realistica direzione degli attori, in un’opera in cui la recitazione è assolutamente essenziale e al pari del canto. Per spiegare la sua visione di Lady Macbeth, Ollé si riferisce ai consueti chiacchiere sul maschilismo, il patriarcato e l’autorità maschile, trasformando Sergej, Boris e Zinovij, gli oppressori di Katerina, in autentiche caricature grottesche nella loro massima meschinità. In nessun momento viene edulcorata la sordidezza, soprattutto nei primi due atti, con un incontro sessuale tra Katerina e Sergej totalmente esplicito. Poi, la messa in scena peggiora, con un quarto atto incomprensibile in cui l’inospitale steppa siberiana si trasforma in un mucchio di letti che salgono e scendono, identici al talamo nuziale degli Ismailov, e con Katerina sgozzata invece di congelata nel fiume.
Per il resto, la proposta di Ollé, che potremmo riassumere come “pozzanghere, pannelli mobili e letti, tanti letti”, non aggiunge molto: non c’è nulla di nuovo nel riempire il palcoscenico d’acqua, una risorsa ormai trita inaugurata dalla Rusalka parigina di Robert Carsen, e di cui lo stesso Ollé ha fatto uso nel suo Pelléas et Mélisande, visto in questo stesso teatro nel 2022. Tuttavia, bisogna riconoscere che il riflesso dell’acqua e la spoglia scenografia di Alfons Flores riescono, in contrasto con la brutalità dell’azione, a creare alcune immagini evocative. Come no, il teatro ha annunciato in pompa magna, rassicurando così le anime più sensibili, che non verrà sprecata neppure una goccia d’acqua grazie a un innovativo sistema di riciclo, per giunta climatizzata – meno male… – vista la possibilità che la povera Katerina prenda una polmonite. Dato che il palcoscenico sembrava una piscina, il direttore del coro e il direttore musicale sono dovuti uscire a salutare indossando gli stivali.
Josep Pons ha svolto un lavoro lodevole, ottenendo un buon rendimento dall’Orchestra Sinfonica del Gran Teatre del Liceu, di cui è direttore principale, con ottoni e percussioni in stato di grazia; meno le corde, sebbene ben amalgamate, risultano un po’ deboli nei passaggi più energici. Sembra che le ben note limitazioni dell’orchestra del Liceu abbiano costretto Pons a fissare come obiettivo prioritario la cura di aspetti essenziali come la precisione ritmica o l’equilibrio buca-palcoscenico, trascurando altri elementi come il raffinatezza timbrica o l’immaginazione. Così, nonostante l’eccesso di decibel e la corretta esecuzione, la mancanza di forza è una sensazione ricorrente – riprovevole la morbidezza con cui è stato affrontato il fragoroso cluster che Šostakóvič inserisce nell’ingresso della polizia alle nozze di Katerina – e, a tratti, si sente la mancanza di vivacità, con un interludio del terzo atto particolarmente lento. Corretta, inoltre, la prestazione del coro di casa, preparato da Pablo Assante, e impeccabile nella scena. Da evidenziare la loro partecipazione nel coro dei prigionieri, vestiti unicamente con biancheria intima.
La soprano statunitense Sara Jakubiak ha offerto un’interpretazione esemplare del faticoso ruolo di Katerina Ismailova. Adatta sia nella parte viscerale che in quella lirica del suo personaggio, e molto convincente come attrice, possiede uno strumento bello – sebbene non particolarmente singolare – e non scivola mai nel grido nei difficili acuti che Šostakóvič ha scritto per il suo ruolo. Pur con un canto un po’ monocorde e un timbro meno gradevole rispetto a quello della sua collega, Pavel Černoch ha offerto un Sergej ribelle e allo stesso tempo spregevole. Come la Jakubiak, si è mostrato molto coinvolto nella regia proposta da Ollé, anche nelle scene più scomode, costretto – per esempio – a spogliarsi dalla vita in giù nella scena della camera da letto.
Sarebbe stato auspicabile un po’ più di incisività e ferocia nel Boris Timoféevič (suocero di Katerina, assassinato dalla nuora preparandogli una zuppa di funghi avvelenata) di Alexei Botnarciuc, sebbene innegabile e sempre appropriato nella sinistra comicità del suo personaggio, il terzo protagonista dell’opera per importanza. Lo stesso si può dire di suo figlio operistico Ilya Selivanov, un Zinovij sufficiente ma irrilevante, marito disinteressato che passa lunghi periodi fuori casa e non sa come far godere sua moglie. In questo caso, Ollé opta per una facile soluzione, caratterizzandolo come un uomo effeminato.
Non avrebbe senso elencare uno per uno i membri della chilometrica lista di personaggi secondari che partecipano all’opera. Senza eccezione, tutti si sono rivelati perfetti ingranaggi nello sviluppo di una rappresentazione memorabile. Si sono distinti, in particolare, il contadino ubriaco di José Manuel Montero, inevitabilmente sovrastato dal volume dell’orchestra nella scena della scoperta del cadavere di Zinovij, l’Aksinia di Núria Vilà, l’ilarante pope di Goran Juric, l’imponente capo della polizia di Scott Wilde, il possente (e amplificato) fantasma di Boris di Alejandro López, e la beffarda Sonietka di Mireia Pintó. Menzione speciale alla partecipazione del leggendario basso Paata Burchuladze, molto indebolito vocalmente.
In poche parole, un ottimo inizio per una stagione non così interessante, dominata dal repertorio classico, sempre necessario se l’obiettivo finale è raccogliere. Prima dell’inizio della rappresentazione, è stato proiettato un video commemorativo per il 30º anniversario del devastante incendio che colpì il Liceu nel 1994, in cui si ricordava come la collaborazione di artisti, mecenati, amministrazione e abbonati rese possibile la ricostruzione del teatro, di cui ricorre anche il 25º anniversario.
Tras 22 años de ausencia, el Gran Teatre del Liceu de Barcelona inaugura su temporada 2024/25 con una nueva producción de la obra maestra shostakovichiana Ledi Mákbet Mtsénskogo Uyezda (Леди Макбет Мценского уезда), más conocida como Lady Macbeth del distrito de Mtsensk, basada en el texto homónimo de Nikolái Leskov.
Estrenada en 1934, la brutalidad de la música de Lady Macbeth de Mtsensk y su controvertido argumento cargado de crítica social provocaron, pese al éxito de público, la respuesta del régimen soviético. El propio Stalin escribiría en el diario Pravda un artículo refiriéndose a ella como «caos en lugar de música», acusando de formalista e inmoral a un Shostakovich que teme por su vida. Lady Macbeth será revisada por su autor casi treinta años después bajo la denominación de Katerina Ismailova, suavizando las escenas más escabrosas (el encuentro de Katerina y Serguei en el dormitorio) y rusificando el título y el argumento, además de realizar algunas modificaciones en la orquestación, aquí menos experimental y más cercana al Shostakovich sinfónico. Las malas lenguas dicen que esto, en realidad, más que una intención de adaptarse a los estándares artísticos de la URSS, se trataba de una audaz estratagema de Shostakovich para poder seguir cobrando derechos de autor. Afortunadamente, en esta ocasión el Liceu ha puesto en escena la versión original de la ópera, la más extendida hoy día, y de mayor interés que su revisión.
La nueva producción corre a cargo del director escénico residente del teatro, Àlex Ollé, codirector de la mítica compañía teatral catalana La Fura dels Baus. Esta es, sin duda alguna, la mejor producción de las que le he visto en directo, gracias a una dirección de actores realista, en una ópera en la que la parte actoral es absolutamente esencial y equiparable al canto. Para explicar su visión de Lady Macbeth, Ollé alude a las habituales peroratas sobre el machismo, el patriarcado y la autoridad masculina, convirtiendo a Serguei, Boris y Zinovi, los opresores de Katerina, en auténticas caricaturas bufonescas en su máxima mezquindad. En ningún momento se edulcora lo sórdido, sobre todo en los dos primeros actos, con un encuentro sexual entre Katerina y Serguei totalmente explícito. Luego la cosa decae, con un cuarto acto incomprensible en el que la inhóspita estepa siberiana se convierte en un montón de camas que suben y bajan, idénticas al lecho nupcial de los Ismailov, y con Katerina degollada en lugar de congelada en el río.
Por lo demás, la propuesta de Ollé, que podríamos resumir como «chapoteos, paneles móviles y camas, muchas camas», no aporta gran cosa: poco de novedoso hay en llenar el suelo del escenario de agua, recurso harto trillado inaugurado por la Rusalka parisina de Robert Carsen, y del que incluso el propio Ollé hace uso en su Pelléas et Mélisande, vista en este mismo teatro en 2022. No obstante, hay que reconocer que el reflejo del agua y la desnuda escenografía de Alfons Flores logran, como contraste a lo salvaje de la acción, algunas imágenes evocadoras. Cómo no, el teatro ha anunciado a bombo y platillo, evitando así la tribulación y congoja de las almas más susceptibles, que no se malgastará ni una sola gota gracias a un novedoso sistema de reciclaje del agua, eso sí, climatizada –menos mal…– ante el riesgo de que la pobre Katerina contraiga una neumonía. Dado que el escenario parecía una piscina, el director del coro y el director musical tuvieron que salir a saludar con katiuskas.
Josep Pons realiza un trabajo loable y obtiene un buen rendimiento de la Orquesta Sinfónica del Gran Teatre del Liceu, de la que es director titular, con unos metales y percusión en estado de gracia; no tanto las cuerdas, si bien empastadas algo raquíticas en los pasajes más enérgicos. Parece que las de sobra conocidas limitaciones de la orquesta liceística han obligado a Pons a establecer como objetivo prioritario el pulir aspectos esenciales como la precisión rítmica o el equilibrio foso-escenario, y dejar de lado otros como el refinamiento tímbrico o la imaginación. Así, pese al exceso de decibelios y a estar todo en su sitio, la falta de fuerza es una sensación recurrente –reprochable la morbidez con que se acometió el estruendoso clúster que Shostakovich incluye en la entrada de la policía en la boda de Katerina– y, por momentos, se echa en falta algo más de vivacidad, con un interludio del tercer acto especialmente lento. Correcto, asimismo, el coro de la casa, preparado por Pablo Assante, e impecable en su labor escénica. A destacar su intervención en el coro de prisioneros, ataviados únicamente con ropa interior.
La soprano estadounidense Sara Jakubiak ofreció una lectura ejemplar del extenuante papel de Katerina Ismailova. Apropiada tanto en lo visceral como en lo lírico de su personaje, y muy convincente como actriz, posee un bello instrumento –si bien tampoco de especial singularidad– y nunca deriva en grito los desafiantes agudos que Shostakovich escribe para su parte. Aun con un canto algo monocorde y un timbre menos grato que el de su colega de reparto, Pavel Černoch sirvió un Serguei rebelde a la par que despreciable. Al igual que Jakubiak, se mostró muy implicado en la dirección de actores propuesta por Ollé, incluso en las escenas más incómodas, obligado –por ejemplo– a desnudarse de cintura para abajo en la escena del dormitorio.
Hubiera sido deseable algo más de rotundidad y ferocidad en el Boris Timoféyevich (suegro de Katerina, asesinado por su nuera al prepararle una sopa de setas con matarratas para cenar) de Alexei Botnarciuc, si bien incontestable y siempre apropiado en la siniestra comicidad de su personaje, tercer protagonista de la obra en orden de importancia. Ídem su hijo operístico Ilya Selivanov, suficiente aunque intrascendente Zinovi, marido despreocupado que pasa largas temporadas fuera de casa y que no sabe hacer disfrutar a su mujer. En este caso, Ollé apuesta por el recurso fácil, caracterizándolo como un hombre afeminado.
No tendría sentido ir nombrando uno a uno a los integrantes de la kilométrica lista de personajes secundarios que intervienen en la ópera. Sin excepción, todos ellos resultaron una pieza perfecta en el desarrollo de una función memorable. Destacaron, en particular, el campesino destrozado de José Manuel Montero, inevitablemente sobrepasado por el volumen de la orquesta en la escena del descubrimiento del cadáver de Zinovi, la Aksinia de Núria Vilà, el hilarante pope de Goran Juric, el imponente jefe de policía de Scott Wilde, el contundente (y amplificado) fantasma de Boris de Alejandro López, y la burlona Sonietka de Mireia Pintó. Especial mención a la anecdótica participación del legendario bajo Paata Burchuladze, muy mermado vocalmente.
En pocas palabras, excelente arranque para una temporada no tan interesante, dominada por el repertorio sota-caballo-rey, siempre necesario si el objetivo final es hacer caja. Antes de comenzar la representación, se proyectaba un vídeo conmemorativo por el 30º aniversario del devastador incendio que sufrió el Liceu allá por 1994, en el que se recordaba cómo la colaboración de artistas, mecenas, administración y abonados hizo posible la reconstrucción del teatro, de la que también se cumplen 25 años.