“Il troppo stroppia” recita un proverbio toscano della prima metà dell’800 divenuto poi popolare per indicare che ogni esagerazione può essere controproducente e rovinare la qualità di una buona base di partenza.
Così è accaduto all’evento in mondovisione della “ Grande Opera Italiana Patrimonio dell’Umanità ”, il festival numero 101 andato in scena il 7 giugno all’Arena di Verona.
Troppo lungo, troppe proposte non attinenti al vero tema della serata. Troppi presentatori (sigh!), troppe attese per esigenze televisive di una Rai che sembra farla da padrone sulle scelte artistiche, musicali ed organizzative. Troppi ospiti invitati vaganti rispetto agli appassionati composti paganti. Troppa passerella sul lungo ed improvvisato red carpet, troppa presenza politica e security al seguito – eccezion fatta per il Presidente della Repubblica accolto da una consolidata ovazione – troppe piroette e contaminazioni distorsive; alcune fuori luogo (balletto nonsense su di un pregevole Dies irae da Requiem di Verdi, ed un improbabile quanto gigante solitario Bolle-Turiddu su Cavalleria Rusticana).
Oserei aggiungere con rispetto – eccellenti e distintisi per esecuzioni straordinarie – troppi direttori d’orchestra. Inchino al grande M° Riccardo Muti che governa con bacchetta maestra (in doppiopetto da matinée e non in frac da gala) oltre 150 professori d’orchestra ed un imponente coro di 300 elementi. La sua indiscutibile grandezza unita alla venerabile età ne fanno un sacerdote e custode della musica dal quale attendere il sermone che anche stavolta non manca e che richiama alla democrazia i parlamentari convenuti con una metafora sulla musica e sulla società: “parti diverse, senza un prevaricatore…” anche irridendo a sé stesso “se c’è impedimento alla musica, è il direttore». Forse quel struggente “Patria oppressa” da Macbeth di Verdi alla vigilia delle elezioni europee, chi ha orecchie per intendere…
Il secondo, solo per citazione ed avvicendamento sul podio, è il bravissimo Maestro Francesco Ivan Ciampa, che dimostra doti straordinarie di coesione quasi semantica nella sequenza dei diversi linguaggi musicali nella sfilza delle tante (troppe?) arie liriche ed esigenze vocali. Un lavoro di grande capacità e fatica che Ciampa affronta con sicurezza e salda presenza di riferimento per gli orchestrali. Anche quando con grande savoir–faire fa fronte senza colpo ferire ad una imperdonabile mancanza di citazione, omaggio e ringraziamento da parte del garrulo stuolo dei presentatori nei saluti finali. Grazie Maestro, chapeau!
Le voci. L’occasione non può che prevedere il meglio che c’è, ma vien da chiedersi “è proprio così?”.
Le Femminili. Il tanto annunciato soprano Anna Netrebko non c’è e nessuno ci dice perché ma non ci importa perché le voci femminili presenti sono davvero di altissimo e pregevole timbro. Jessica Pratt è inusualmente Norma e si staglia tra volute di fumo (troppo?) in “Casta Diva” con voce limpida, argentina, un fraseggio pulito, perfetto e prese di fiato studiate appositamente per una posizione la più lontana rispetto a tutte le altre cantanti. Squillante e con pregevoli centrali è Rosa Feola, una Liù che in “Tu che di ciel sei cinta” trasmette a Turandot il sentimento del suo dolore. Brava.
Butterfly in bell’abito di scena è Eleonora Buratto. Maestro e valente soprano italiano dalla voce sicura, sostenuta, ricca di sapienti colorature. Rimanda a timbri andati di dive mai dimenticate.
E’ davvero gradevole l’armena Juliana Grigoryan, una Musetta delicata e convincente nella romanza di “Quando men vo soletta” che sappiamo di difficile tessitura. Lauretta di Gianni Schicchi è Mariangela Sicilia che si rivolge al suo “Babbino caro” con voce di soprano sottile e chiuso in un pianissimo d’effetto e finemente sostenuto.
I Maschili. Il primo che apre la parte dedicata alle arie celebrate della Grande Opera Italiana, tocca a Jonas Kaufmann. E’ Cavaradossi, ma il suo “E lucevan le stelle” non esplode, rimane ottuso in gola ed appare sforzato se pur Mario è nelle sue corde ed esperto qual è regge ma non convince. Un po’ delude.
Sappiamo Luca Salsi a suo agio nel Te Deum del ruolo pucciniano in “Va Tosca…” e così è. La voce è brunita, profonda, l’accento di Scarpia è perfetto e cattura l’ascolto interrotto dal sussulto provocato da beceri petardi da stadio (troppi!) a simulazione di una rivoluzione che si scatena fuori da Palazzo Farnese ma anche dentro il petto di molti. Peccato.
Juan Diego Flòrez passa con disinvoltura dal Duca di Mantova con “La donna è mobile” a Rodolfo in “Che gelida manina”. La magnetica presenza scenica ed il suo valente Do meritano ammirazione.
Belle le voci rispettivamente del tenore Francesco Meli che si apprezza in “Una furtiva lagrima”– pur sapendo che il ruolo non è proprio suo – del giovane solo basso Gianluca Buratto, esteso, grave e sicuro in “Vecchia zimarra”, romanza sempre di grande pathos e Brian Jagde tenore in Canio di “Vesti la giubba” che ancora mastica male qualche parola in fraseggio.
Una dedicata menzione merita un bravo maestro come Ludovic Tézier che si ammira per voce e tessitura in “Nemico della patria” dell’Andrea Chénier. Conferma essere interprete di grande stoffa baritonale nel panorama mondiale.
Galeano Salas è un bel trovare nella rovente cabaletta del Trovatore “Di quella pira”. E’ molto giovane, ha un notevole timbro verdiano, regge bene le punte d’acuto, promette e mantiene. Altra bella e degna di nota è la voce del baritono Nicola Alaimo. La sua cavatina rossiniana “Largo al factotum” cattura la scena per interpretazione, agilità e potenza vocale. Il pubblico apprezza.
Non mi dilungherò su Vittorio Grigolo perché si è fatto tardi; tardi anche qui troppo (!) e forse ho le visioni, ma non riesco a seguire con obiettività di giudizio melomane né il “Nessun dorma”, né l’ultimo “Libiamo” del tenore che spinge, che apre in vocali sguaiate e appare ai miei occhi con l’iperattività esagitata della brunetta dei Ricchi e Poveri e disturba la classe: la classe di chi l’ha preceduto. Forse ho dimenticato qualcuno o qualcosa, perdonatemi. Ma ho assistito a quasi quattro ore di lirica che per chi l’ama e se è bella non è mai… troppa. Nell’insieme uno spettacolo bellissimo se pur con tanti (troppi?) difetti e non so come visto da casa. Sicuro è che non vorrei diventasse un festival pop che a Sanremo c’è già.
Tra gli applausi, tanti e mai troppi vi auguro buona notte. Dissolvenza.