Verona, 10 agosto 2024: nella città degli innamorati più famosi di tutti i tempi rivive con immutata magia, oggi come centoundici anni fa, la vicenda di altri due sfortunati amanti divisi – più che dal destino – dalle trame di potere degli uomini. Aida e Radamès, la fiera principessa etiope resa schiava ed il valoroso comandante delle guardie egizie…un amore osteggiato dalla ragion di Stato di due popoli nemici; dalla crudeltà di un padre, Amonasro, che non esita a manipolare la figlia imponendole la più terribile delle scelte, ovvero tradire l’uomo che ama; dalla gelosia della temibile rivale, Amneris, figlia del Faraone, audace nel suo essere antagonista – femminile, in un mondo, quello dell’opera, popolato da antagonisti maschili! – carnefice e vittima di se stessa, vera nemesi della protagonista.
C’è tutto, in Aida, che spazia dalla grandiosità al sussurro, che disegna un affresco di spettacolare potenza e allo stesso tempo riesce a cogliere le più piccole sfumature di sentimento tratteggiate con una musica che sa essere, insieme, anima e voce dei protagonisti; un incantesimo che si rinnova, in Arena, fin da quella prima notte, il 10 agosto 1913, appunto, in cui tutto ebbe inizio.
Per la prima data assoluta del Festival venne scelta proprio Aida, in un allestimento di scintillante grandiosità ideato dall’architetto Ettore Fagiuoli, che disegnò l’Egitto dei Faraoni con la medesima perizia con la quale Verdi ne aveva riportato in vita l’essenza…“Copiare il vero può essere una buona cosa, ma inventare il vero è meglio, molto meglio” (Giuseppe Verdi, lettera a Carla Maffei, ottobre 1876). E per “inventare” l’antico Egitto Verdi profuse impegno, studio e un pizzico di magia…
Se è diffusa la leggenda secondo la quale a Verdi fosse stata commissionata un’opera “d’occasione” per l’inaugurazione del Canale di Suez, in realtà Verdi ricevette il soggetto a inizio 1870, ed il canale era già aperto fin dall’ottobre dell’anno precedente. In ogni caso, Camille Du Locle (il librettista francese del Don Carlos) fece da tramite per sottoporre al maestro lo scritto del famoso archeologo ed egittologo Auguste Mariette, primo direttore del Museo Egizio del Cairo nonché Bey (consigliere) del Khedivé d’Egitto: un’opera destinata al Teatro della capitale d’Egitto. Du Locle aveva preparato un libretto in francese, ma Verdi preferì affidare ad Antonio Ghislanzoni, ex baritono, critico musicale e scrittore, la stesura di un libretto in italiano, sotto la sua diretta – e tirannica! – supervisione.
L’esotismo della vicenda ben si inseriva nel gusto europeo di quegli anni fin de siècle, unito alla realizzazione di un affresco storico minuziosamente descritto e regolato da precise indicazioni registiche dello stesso Verdi (non dimentichiamo che in questi anni si andava diffondendo la pratica dei Livrets de mise en scène, disposizioni sceniche con note di regia e scenotecnica). Grazie ad un accurato studio di tutti questi documenti, oltre che dei bozzetti dell’egittologo Mariette, la prémière assoluta in Arena realizzata da Fagiuoli venne riportata a nuova vita – in un numero di spettacoli che sfiora le trecento repliche in ventidue edizioni! – grazie alla ripresa, nel 1982, da parte di Gianfranco De Bosio, mitico regista nonché Sovrintendente dell’allora Ente Lirico.
Lo spettacolo della Prima del 10 agosto scorso, ça va sans dire, è stato di grande impatto visivo, grazie anche ad un sapiente uso degli effetti coloristici, i tagli di luce ed ombra, nonché dei movimenti delle masse, vero tratto distintivo delle produzioni dell’Arena. Senza mai scadere nel didascalico o nel descrittivo, la potenza dell’evocazione di un Egitto da kolossal hollywoodiano è stata efficace, curata e ben rispondente alla parte musicale, con un dispiego di forze notevole, dai protagonisti ai comprimari, ai numerosi figuranti avvolti in costumi curati nel minimo dettaglio, fino ai bellissimi cavalli “danzanti” dell’immancabile Trionfo. Le coreografie di Susanna Egri, in questo senso, hanno coniugato perfettamente esotismo e raffinatezza, aggiungendo un tocco di grande eleganza molto apprezzato dal pubblico che affollava la Prima.
Il coro, grande protagonista, diretto dal maestro Roberto Gabbiani, ha dato una prova di grande pregio: un unico, potente organismo che personificava con efficacia il Rito e le sue declinazioni ammantate di storia ed ieratica fissità, adagiate sontuosamente sulle onde del Nilo evocato dalla partitura.
I molti nomi noti della compagnia di protagonisti non hanno deluso le aspettative: Maria José Siri nel ruolo del titolo ha dato vita ad una protagonista che nascondeva, dietro ad un’apparenza arrendevole, una volontà di ferro, ed ha dimostrato controllo vocale e limpidezza di emissione, anche nei pianissimi più sussurrati. La parte di Aida, con le sue sfumature che virano nel blues e le trasparenze di una musicalità mai gridata, ma sempre salda, è stata ben padroneggiata dal soprano uruguayano, che ha sfidato le condizioni di una serata a tratti soffocante per la calura.
Il Radamès di Piotr Beczala, che debuttava il ruolo in Italia, si è imposto fin dall’inizio con un bel timbro caldo, pieno e ben modulato, senza cedimenti nel registro acuto nonostante qualche opacità; la sua interpretazione è stata tutta tesa a sottolineare le debolezze di un personaggio troppo spesso tratteggiato con una staticità che lo rende troppo eroe e poco umano.
Amneris, interpretata da Ekaterina Semenchuk, si è giovata dell’eccezionale estensione vocale del mezzosoprano bielorusso, che ben si presta ad affrontare una parte che sfiora quella del soprano protagonista; qualche ingenuità nella recitazione, a volte appesantita da una gestualità esasperata, è stata comunque compensata da un’emissione sicura e ben sostenuta.
Last but not least, l’Amonasro ricco di luci ed ombre di Luca Salsi, sempre una garanzia: un re decaduto pieno di dolente dignità, un padre che non esita a sacrificare la figlia sull’altare della Patria. Salsi ha dato vita ad accenti ora di viva disperazione, ora di crudele spietatezza, con un timbro scuro e pieno ed un legato ben disegnato, con una punta di quella ruvidezza che ben conosciamo e che costituisce la cifra del baritono parmigiano.
Completavano efficacemente il cast dei protagonisti un intenso Alexander Vinogradov (Ramfis) e i tre comprimari Simon Lim (il Re), Carlo Bosi (un messaggero) e Francesca Maionchi (una sacerdotessa), tutti molto validi e ben presenti nei rispettivi ruoli.
La direzione di Daniel Oren, che in Arena è di casa, si è confermata salda, coerente e precisa al millimetro: si avvertiva palpabile l’intesa fra orchestra e palco, oltre all’estrema adesione alla partitura, senza dimenticare una lettura dei tempi perfettamente bilanciata alle esigenze sceniche. Oren si è dimostrato vero leone nell’arena, insomma, palesemente a proprio agio, in grado di passare con disinvoltura dai pianissimi degli archi, trasparenti e pericolosi in tessitura acutissima, al dispiegamento di forze richiesto dai momenti più grandiosi, punteggiati da granitiche percussioni e ottoni lucenti come non mai. L’orchestra della Fondazione Arena di Verona ha tenuto il passo senza cedimenti, modellata dalle mani del maestro Oren, pronta ad ogni richiesta, attenta ad ogni minimo respiro.
Il pubblico, entusiasta e caloroso, non si è risparmiato negli omaggi finali al cast, nonostante l’afa ed il protrarsi fino a tarda ora della rappresentazione, soprattutto, purtroppo, a causa di cambi di scena dai tempi molto dilatati.
Come avevo scritto tempo fa in una guida all’ascolto, “Aida è la voce dell’Egitto che Verdi scioglie dai lacci del tempo”…allo stesso modo questa Aida 1913 è l’Aida che immaginiamo ancor prima di ascoltarne le prime note: è il sontuoso baldacchino del Tempio, è la schiera di colonne policrome istoriate di geroglifici, è la parata d’onore degli armigeri e la processione dei sacerdoti, ognuno con i simboli del proprio potere, è la pietra che chiude, inesorabile, una tomba sul capo di due amanti infelici, consegnandoli all’eternità.