Ho avuto il piacere di intervistare il baritono Simone Piazzola, che mi ha aperto le porte della sua abitazione veronese in occasione di alcuni giorni di pausa, in agosto, prima di partire alla volta di Liegi, dove lo attende il ruolo di Giorgio Germont in Traviata. In salotto, davanti ad un pianoforte, circondati dai numerosi premi e riconoscimenti attribuiti a Simone, abbiamo chiacchierato come vecchi amici e ho avuto modo di conoscere alcuni lati molto personali di questo Artista dal cuore grande.
Simone, quando intervisto un artista mi piace sempre iniziare con una domanda un po’ particolare, ovvero chi è Simone Piazzola, in questo caso, sul palco e fuori dal palco?
Diciamo che si può dividere Simone Piazzola in due persone molto differenti: uno è “Simone” e l’altro è ”Piazzola”. Ho voluto, nella mia carriera, creare queste due persone, creare un personaggio, in realtà, perché “Simone” è Simone, sono io: una persona molto semplice, che viene da una famiglia molto umile, un piccolo paesino che si chiama Dossobuono. Una persona fragile a cui è molto facile poter fare del male… diciamo che da bambino ho vissuto veramente un’infanzia difficile, tra bullismo e cose simili, e quindi Simone è così, una persona molto buona che aiuta chi può, aiuta tutte le persone possibili, e non si tira mai indietro.
Invece ”Piazzola”, che ho creato quando ho cominciato a conoscere il magico mondo dell’opera lirica – che si può definire bellissimo per chi lo vede da fuori, bellissimo quando si lavora e si fa arte, ma non si può definire tale quando ci si vive dentro al di fuori dell’aspetto lavorativo – che è un personaggio burbero, scorbutico, e prende molte volte (in senso molto affettuoso!) spunto da uno dei suoi miti che è Renato Bruson, con cui ho avuto l’onore di poter studiare; un personaggio che non si fa avvicinare molto e che mette al di sopra di tutto la propria voce e la propria carriera.
“ Questo è il personaggio che ho creato per difendermi da questo ”magico mondo” dell’opera. ”
Diciamo allora che io ho conosciuto Simone, e non Piazzola! Senti, una volta hai definito “una pazzia” l’aver debuttato, quando eri appena diciottenne, in un ruolo che effettivamente proprio non è alla portata di un diciottenne, ovvero Rigoletto; c’è qualche altra pazzia che hai fatto per l’opera, o qualche pazzia che vorresti fare?
Sì, certo! La pazzia che ho fatto è stata quella di debuttare il Simon Boccanegra all’età di 26 anni. Mi ricordo che l’agente di allora mi chiamò, mi disse “Simone, c’è da fare il Simon Boccanegra alla Fenice di Venezia con il maestro Chung che dirige, è l’apertura di stagione, con Francesco Meli, Maria Agresta, Giacomo Prestia…” E io risposi di sì, dissi “L’ho già fatto a Parma il ruolo di Paolo, mi viene bene”… infatti era uscito anche il DVD, poi, con Leo Nucci come Simon Boccanegra e Scandiuzzi. Ma lui mi disse “No, no, no, devi fare Simon Boccanegra!” E lì è stata dura, insomma, ci ho dovuto riflettere, guardarmi bene lo spartito… però quando accettai, accettai con cognizione di causa, perché sentivo che la mia voce nel repertorio verdiano è adatta soprattutto in quel ruolo; è una vocalità particolare, ci vogliono tutti gli aspetti del baritono verdiano, l’eleganza, il fraseggio e la nobiltà, ma anche la veemenza e la potenza, e io credo di averle tutte queste qualità. Però c’erano molte persone, tra cui la critica, i vari personaggi del settore teatrale, che dicevano “Sì, Simone potrà far bene il prologo, potrà far bene la parte dove lui diventa uomo, diventa doge, studiando o imitando i grandi del passato; ma poi, quando ci sarà il finale dell’opera, come farà? Lui non ha quell’esperienza di vita…” E qui adesso mi dilungherò un po’… io l’ho avuta quell’esperienza di vita, purtroppo, nel 2008 ho perso mia madre tra le mie braccia. Eravamo lì , con la famiglia e tutti quanti, mia madre, non so per quale strano motivo… voglio pensare che lei abbia fatto questo perché “sapeva” che avrei fatto questo grande debutto e avrei cantato questo grande ruolo che mi avrebbe dato la consacrazione nel mondo dell’opera; ecco, lei mi ha descritto in una maniera totalmente drammatica cosa le stava capitando nel momento in cui doveva lasciarci, fino a quando è spirata. Il fatto di non vederci più, non sentirci più, non riuscire più a parlare, non sentire più il proprio corpo, e non ti nascondo che a un certo punto prima di spirare è come se avesse visto sua madre… è la verità, te lo giuro, ha detto, me lo ricordo, “Mamma!” e guardava fissa… e, fatalità, nell’opera cosa succede? Alla fine lui chiama “Maria”… scusatemi… (un momento di commozione per entrambi, ndr). Lì, allora, ho preso spunto e ho fatto questo finale d’opera che mi ha reso grande. Ecco, questa è stata la mia pazzia.
” Altre pazzie… ecco, un giorno, quando sarò vecchietto, un po’ più vecchio, mi piacerebbe fare il ruolo di Scarpia, ma questo molto avanti, ecco. “
– Grazie per aver condiviso con noi questo momento così intimo, e che immagino non sia facile raccontare.
No, non è facile, anche perché non ti nascondo che quando è spirata mia madre io subito dopo – ero in Accademia alla Scala – dovevo fare il concerto di fine anno, del primo anno, e avevo già preso il biglietto anche per lei, per tutta la mia famiglia; ovviamente mia madre non ci poteva essere, ma per me era lì comunque, quindi da mia sorella ho fatto prendere una rosa; quando mi hanno chiesto di restituire il biglietto perché non ne avevo più bisogno io ho detto “No, mia mamma ci sarà”, ho fatto mettere quella rosa sulla sua sedia, e per me mia madre era lì.
– Sono convinta che tua madre ci fosse, assolutamente.
Senti, a proposito di ruoli, ti ho ascoltato (come dicevamo prima durante la nostra chiacchierata a microfoni spenti), nel ruolo del padre di Anna ne Le Villi al Teatro Regio di Torino. Un ruolo molto particolare, non è il classico baritono pucciniano, ecco; e anche il ruolo di Anna, figlia, è un ruolo che non troviamo poi nella produzione successiva del nostro Giacomo…
Ci racconti come hai costruito questo personaggio, appunto, così particolare nel repertorio di Puccini?
Beh, questo ruolo è il più “verdiano” di Puccini; essendo il mio repertorio prettamente verdiano e considerandomi la critica un “baritono verdiano”, anche se le definizioni non mi piacciono, diciamo che io nel repertorio verdiano mi trovo molto bene e do il meglio di me; dunque, dicevo, ho fatto leva su tutta la mia esperienza verdiana, appunto, perché prima di tutto è un ruolo di padre, drammaturgicamente è un un ruolo dove c’è il dramma, la disperazione…
– Poi appunto, come dicevamo, è un ruolo che “sulla carta” non è protagonista, ma in realtà drammaturgicamente muove tutta l’azione…
È il perno dell’azione! Quindi grazie ovviamente al “sior Giacomo” e a tutti i suoi dettami nello spartito, grazie alla persona con cui ho studiato, e grazie anche a me stesso, e alle mie intuizioni, ho cercato di creare un fraseggio, un’interpretazione e dei colori vocali che potessero, come dire, incuriosire di più lo spettatore. Ho dato ovviamente importanza alla vocalità, perché è una vocalità molto difficile, acuta, e per fortuna io nell’acuto mi ci trovo bene, ci sguazzo, e quindi ho dato forza a questo, ma soprattutto ho dovuto dare forza all’interpretazione: non soltanto nel canto, cioè mentre si canta, ma anche in quello che avviene prima… perché ad esempio quando lui va davanti alla tomba di sua figlia il pubblico deve sentire tutta la disperazione di quest’uomo, e in quella produzione la scena era molto bella. Io arrivavo, mi portavano davanti alla tomba e le persone che erano con me mi facevano le condoglianze, poi a un certo punto uno di loro cerca di portarmi via perché mi vede che sto male, sono vecchio, quindi tutti cercano di salvaguardare la mia persona… e io gli do uno strattone, lo mando via e mi appoggio sulla tomba di Anna disperato, piangendo. Io apposta facevo sentire il pianto, perché il pubblico doveva rimanere incollato a vedere cosa succedeva!
– Tra l’altro quell’atmosfera un po’ gotica delle scene era molto azzeccata, e rifletteva anche il dolore del personaggio; ricordo molto bene quella scena, ed era davvero toccante.
Grazie, grazie mille.
Simone, tu hai già tenuto alcune masterclass, e ne hai altre in programma, anche insieme a pianisti accompagnatori come il maestro Giuseppe Vaccaro; vogliamo parlare un attimo di questa “figura mitologica” del pianista accompagnatore? Spesso nei concerti lirici il pianista è una figura di contorno e nessuno “se lo fila”, quando in realtà ha un compito importante! Secondo me è un ruolo molto stimolante; mi capita di lavorare a volte come pianista accompagnatore, non è la mia attività principale, ma personalmente mi piace tantissimo. Quando sei pianista accompagnatore devi essere disposto a fare un passo indietro, il pianista di solito è molto protagonista, solista per eccellenza, invece – come mi confermi anche tu – bisogna essere umili e saper fare dei sacrifici.
Personalmente, tu che cosa chiedi ad un pianista accompagnatore, cos’è che vorresti e cos’è che ti fa trovare bene con uno più che con un altro?
Ecco, oltre che con il maestro Vaccaro io ho avuto la possibilità di lavorare con grandi pianisti, come James Vaughan, Vincenzo Scalera, Nelson Calzi, Paolo Spadaro, con Beatrice Rana, insomma ho avuto la possibilità di lavorare con i grandi pianisti; quindi diciamo che la mia richiesta è sempre quella di collaborare. Il che significa ovviamente fare delle prove, capirsi, capire soprattutto che io non sono un cantante lirico che ama “emettere suoni” o fare un’interpretazione che è sempre quella standard. Adesso ti faccio un esempio: se ho avuto una giornata storta e devo cantare “Di Provenza”, o devo cantare Don Carlo, in quel momento la mia interpretazione sarà magari sempre nobile (perché la nobiltà è il mio punto fermo del canto!) però sarà più irruente nell’aspetto interpretativo.
Quando ebbi la fortuna di poter lavorare con il maestro Vincent Scalera, lavorammo molto ad un concerto che facemmo alla Casa di Giuseppe Verdi, quindi cantai con lui Don Carlo, Trovatore, facemmo il duetto, insieme al tenore Riccardo Massi, della Forza del destino; è stato bello perché c’era questa complicità, Vincent Scalera sentiva che in quel momento io volevo fare un piano, volevo fare un diminuendo, e la bravura di un pianista accompagnatore di quel livello è saper ascoltare il cantante.
– Grazie per aver condiviso con noi questo momento così intimo, e che immagino non sia facile raccontare.
No, non è facile, anche perché non ti nascondo che quando è spirata mia madre io subito dopo – ero in Accademia alla Scala – dovevo fare il concerto di fine anno, del primo anno, e avevo già preso il biglietto anche per lei, per tutta la mia famiglia; ovviamente mia madre non ci poteva essere, ma per me era lì comunque, quindi da mia sorella ho fatto prendere una rosa; quando mi hanno chiesto di restituire il biglietto perché non ne avevo più bisogno io ho detto “No, mia mamma ci sarà”, ho fatto mettere quella rosa sulla sua sedia, e per me mia madre era lì.
– Sono convinta che tua madre ci fosse, assolutamente.
Senti, a proposito di ruoli, ti ho ascoltato (come dicevamo prima durante la nostra chiacchierata a microfoni spenti), nel ruolo del padre di Anna ne Le Villi al Teatro Regio di Torino. Un ruolo molto particolare, non è il classico baritono pucciniano, ecco; e anche il ruolo di Anna, figlia, è un ruolo che non troviamo poi nella produzione successiva del nostro Giacomo…
Ci racconti come hai costruito questo personaggio, appunto, così particolare nel repertorio di Puccini?
Beh, questo ruolo è il più “verdiano” di Puccini; essendo il mio repertorio prettamente verdiano e considerandomi la critica un “baritono verdiano”, anche se le definizioni non mi piacciono, diciamo che io nel repertorio verdiano mi trovo molto bene e do il meglio di me; dunque, dicevo, ho fatto leva su tutta la mia esperienza verdiana, appunto, perché prima di tutto è un ruolo di padre, drammaturgicamente è un un ruolo dove c’è il dramma, la disperazione…
– Poi appunto, come dicevamo, è un ruolo che “sulla carta” non è protagonista, ma in realtà drammaturgicamente muove tutta l’azione…
È il perno dell’azione! Quindi grazie ovviamente al “sior Giacomo” e a tutti i suoi dettami nello spartito, grazie alla persona con cui ho studiato, e grazie anche a me stesso, e alle mie intuizioni, ho cercato di creare un fraseggio, un’interpretazione e dei colori vocali che potessero, come dire, incuriosire di più lo spettatore. Ho dato ovviamente importanza alla vocalità, perché è una vocalità molto difficile, acuta, e per fortuna io nell’acuto mi ci trovo bene, ci sguazzo, e quindi ho dato forza a questo, ma soprattutto ho dovuto dare forza all’interpretazione: non soltanto nel canto, cioè mentre si canta, ma anche in quello che avviene prima… perché ad esempio quando lui va davanti alla tomba di sua figlia il pubblico deve sentire tutta la disperazione di quest’uomo, e in quella produzione la scena era molto bella. Io arrivavo, mi portavano davanti alla tomba e le persone che erano con me mi facevano le condoglianze, poi a un certo punto uno di loro cerca di portarmi via perché mi vede che sto male, sono vecchio, quindi tutti cercano di salvaguardare la mia persona… e io gli do uno strattone, lo mando via e mi appoggio sulla tomba di Anna disperato, piangendo. Io apposta facevo sentire il pianto, perché il pubblico doveva rimanere incollato a vedere cosa succedeva!
– Tra l’altro quell’atmosfera un po’ gotica delle scene era molto azzeccata, e rifletteva anche il dolore del personaggio; ricordo molto bene quella scena, ed era davvero toccante.
Grazie, grazie mille.
Simone, tu hai già tenuto alcune masterclass, e ne hai altre in programma, anche insieme a pianisti accompagnatori come il maestro Giuseppe Vaccaro; vogliamo parlare un attimo di questa “figura mitologica” del pianista accompagnatore? Spesso nei concerti lirici il pianista è una figura di contorno e nessuno “se lo fila”, quando in realtà ha un compito importante! Secondo me è un ruolo molto stimolante; mi capita di lavorare a volte come pianista accompagnatore, non è la mia attività principale, ma personalmente mi piace tantissimo. Quando sei pianista accompagnatore devi essere disposto a fare un passo indietro, il pianista di solito è molto protagonista, solista per eccellenza, invece – come mi confermi anche tu – bisogna essere umili e saper fare dei sacrifici.
Personalmente, tu che cosa chiedi ad un pianista accompagnatore, cos’è che vorresti e cos’è che ti fa trovare bene con uno più che con un altro?
Ecco, oltre che con il maestro Vaccaro io ho avuto la possibilità di lavorare con grandi pianisti, come James Vaughan, Vincenzo Scalera, Nelson Calzi, Paolo Spadaro, con Beatrice Rana, insomma ho avuto la possibilità di lavorare con i grandi pianisti; quindi diciamo che la mia richiesta è sempre quella di collaborare. Il che significa ovviamente fare delle prove, capirsi, capire soprattutto che io non sono un cantante lirico che ama “emettere suoni” o fare un’interpretazione che è sempre quella standard. Adesso ti faccio un esempio: se ho avuto una giornata storta e devo cantare “Di Provenza”, o devo cantare Don Carlo, in quel momento la mia interpretazione sarà magari sempre nobile (perché la nobiltà è il mio punto fermo del canto!) però sarà più irruente nell’aspetto interpretativo.
Quando ebbi la fortuna di poter lavorare con il maestro Vincent Scalera, lavorammo molto ad un concerto che facemmo alla Casa di Giuseppe Verdi, quindi cantai con lui Don Carlo, Trovatore, facemmo il duetto, insieme al tenore Riccardo Massi, della Forza del destino; è stato bello perché c’era questa complicità, Vincent Scalera sentiva che in quel momento io volevo fare un piano, volevo fare un diminuendo, e la bravura di un pianista accompagnatore di quel livello è saper ascoltare il cantante.
” Quello che chiedo sempre è ascoltarsi, è la base, per poter fare un concerto, un recital … “
Perché quando ho fatto i Recital della Scala col maestro James Vaughan non ti nascondo che facemmo una sola prova, qualche ora prima, e poi facemmo il recital; e lì si vedeva la sintonia, la magia di due persone, per me era la prima volta che lavoravo con lui, ma lì viene fuori la grandezza di un pianista accompagnatore. Ascoltare il cantante.
Ed è bellissimo quando succede, perché veramente come dici tu è una magia, si entra in sintonia, si respira insieme e si costruisce insieme. E sempre in riferimento alle masterclass, alle lezioni che tu dai, parliamo un po’ di chi si affaccia al mondo dell’opera;
qual è il consiglio che ti senti di dare ad un giovane cantante, a qualcuno che appunto muove i primi passi in questa professione che – come dicevamo prima – è molto affascinante ma per nulla semplice?
Tutt’altro che semplice, è molto dura. La cosa che ho notato, attraverso questi allievi, è la poca umiltà, la poca propensione allo studio, nel senso: faccio un bel suono, canto, faccio un acuto, e sono a posto!
Ma se questi compositori hanno scritto tutte queste macchioline nere o bianche, con tutte queste stanghette, con tre, con due… e queste altre macchioline nere che sono le pause… (io le chiamo così apposta, per prendere anche un po’ in giro!)… ci sarà un motivo! Se ci sono delle paroline scritte sopra, non sono solo suggerimenti, sono i desideri del compositore, sono quello che il compositore vuole! Ci sarà un motivo, no? Quindi non si può pensare di arrivare lì e fare un bel sol! Perché puoi avere anche dei begli acuti, una voce pazzesca, una voce gigantesca, ma se non c’è l’interpretazione, la professionalità dello studio e della dedizione allo scavo psicologico di un personaggio, non si va da nessuna parte. Si può essere grandi per due o tre anni, ma poi? Io ho la fortuna che quest’anno sono vent’anni che rompo le scatole, quindi va bene così!
– Beh, noi ci auguriamo che questo tuo “rompere le scatole” duri ancora tantissimo!!
Speriamo, speriamo che sia così! Il mondo del teatro sta diventando sempre più strano…
Tornando al discorso di prima, la cosa che noto nelle masterclass… ecco, diciamo che io ho un problema, io non sono buono: sono molto severo e molto rude, perché quando dopo un artista si affaccia al mondo del teatro e va davanti a un direttore d’orchestra di grande levatura, non troverà una persona buona che, se sbagli una, due, tre, quattro, cinque volte la richiesta del direttore, ti dirà “Ma stai tranquillo, domani la sistemiamo!”. Ti dirà “La prova è finita, ci vediamo domani, scusate (con gli orchestrali)” e tu il giorno dopo non ci sei più, perché ti avrà protestato. Quindi quello che io chiedo a questi ragazzi che vengono – e magari io posso pensare che alcuni non vogliano studiare con me o non vogliano interfacciarsi con me perché io metto loro davanti alla faccia la dura realtà – ecco, io chiedo che loro abbiano abnegazione, studio fortissimo di quello che il compositore vuole, ma anche professionalità, che non deve essere al 100 %, ma al 1000 %! Devi avere una professionalità, un rigore tale che il direttore d’orchestra, il regista non ti possa intaccare, ed è quasi impossibile che non ti possano toccare, succederà sempre, ma deve succedere il meno possibile.
Questa è la cosa che noto nei giovani d’oggi, che loro cantano, va bene, e poi? Dov’è il resto?
E poi lo sparlare, fare pettegolezzi…invece bisogna stare zitti, e lavorare.
Ecco, questo si aggancia benissimo con la mia prossima domanda: a proposito di allievi, parliamo di Simone come allievo!
Come hai iniziato? Raccontaci il tuo percorso, parlaci di quello che mi hai detto prima, di quando eri bimbo…
Io ho cominciato così: il mio amore per l’opera è iniziato a tre anni. Tu immagina: un bambino agitatissimo, una piccola peste, non puoi capire… ci sarebbero tanti aneddoti, addirittura lampadari rotti…insomma, un giorno mia madre mi ha preso in braccio, non ne poteva più, e mi ha detto in dialetto veneto: “Adesso basta, come ti ho fatto, ti disfo!” E io comincio a scalciare con i piedi, me lo ha raccontato mia madre, do un calcio al telecomando e il televisore si sintonizza su un programma della Rai in cui, non ricordo il nome, davano tutti piccoli spezzoni d’opera, spezzoni di vari programmi televisivi, e c’era Raffaella Carrà con Mario del Monaco che cantava “Un amore così grande”. Mia madre disse che io mi bloccai, feci silenzio, e mi addormentai!
Allora lei, intelligentemente, pensò di comprare tutte le videocassette possibili e immaginabili di opera…! Infatti giù in cantina, proprio l’altro giorno le facevo vedere alla mia ragazza, è pieno di video e musicassette, ne ho un sacco. E da quel momento ha funzionato così: tanto che io a otto anni, a orecchio ovviamente, cantavo Esultate, Non mi tema, La donna è mobile, Cortigiani, Ella giammai m’amò…ovviamente malissimo, ma sai com’è a quell’età! A orecchio le sapevo tutte…
Poi una volta, in campeggio in montagna, andai a fare un pic nic con la mia famiglia; presi un bastone da una pianta, un ramo secco, lo piantai per terra…c’erano tante persone che facevano pic nic…davanti a tutte quelle persone che erano lì dissi “E ora il grande Simone Piazzola, dalla scala di casa mia (non so perché dissi questa cosa, mi uscì così!), canterà, ecco il grande baritono!”
E iniziai a cantare, ‘O sole mio, La donna è mobile, un pezzo di Cortigiani, finché a un certo punto spaccai il bastone, presi il pallone e andai a giocare.
Si avvicinò questa signora, quella che sarebbe poi diventata mia insegnante, quella che “inventò” la mia voce, e chiese a mia madre chi fosse il ragazzo che cantava (si tratta del soprano Alda Borelli Morgan, ndr). La mia mamma iniziò a scusarsi perché io facevo sempre casino… e lei disse “Ma quale casino, ha una voce! Quanti anni ha?” Mia madre rispose che avevo otto anni, e la signora disse che era impossibile che avessi otto anni con una voce così. Mi chiamarono per fargliela sentire, e io ovviamente dissi di no, perché a quel punto mi vergognavo! Allora lei disse: “Quando il bambino vorrà e si sentirà pronto, me lo porti nel mio studio a Mantova e vedremo se è predisposto a cantare. Non per la voce, perché lui ha già la voce per diventarlo, ma ci vuole prima la testa e poi la voce”.
A undici anni, ad un certo punto, dissi “Mamma, voglio studiare canto”. Io già cantavo dalla mattina alla sera, con le mie videocassette, tant’è che quando feci il Don Carlo alla Scala con Ferruccio Furlanetto, andai da lui (e, tra l’altro, sai che Ferruccio è il nipote della mia prima insegnante, che è il soprano Alda Borelli Morgan) e gli dissi “Sa, Maestro, che io con lei ho cantato tantissime volte?” E lui, con questa sua voce inconfondibile, “Ma è impossibile, è la prima volta!” E io dissi “No, maestro, in videocassetta abbiamo fatto un sacco di Don Carli insieme, finalmente lo facciamo dal vivo!!!” (ride)
Quindi questo è stato il mio percorso…
E quando a undici anni andai a lezione, cominciai convinto di cantare – mi dispiace quasi dirlo, perché non si dice così! – “Vincerò”, come dicevo io da bambino… o “Cortigiani”, subito, e invece l’insegnante mi fece questo (suona cinque note in scala sul pianoforte, do re mi fa sol, ndr). E io pensai “Ma cos’è ’sta roba?”. L’insegnante mi spiegò che erano vocalizzi, e servivano per applicare e studiare la tecnica del canto. Tecnica? Io apro bocca e canto! Ma lei mi disse che no, non bastava saper cantare, per un’opera bisognava saper cantare per tre ore di fila, e da lì capii che non si trattava di cantare Vincerò o Cortigiani, ma di dover studiare, studiare tanto. Io avevo un colore molto formato da bambino, ma non avevo acuti, non avevo centri, e li ho dovuti costruire. La mia voce non è per niente naturale, l’ho dovuta costruire nota per nota, e con tanti pianti, quando vedevo che non riuscivo ad arrivare ad una nota. Ho dovuto studiare tanto per arrivarci. E poi il mio debutto dei diciott’anni, ora capisci perché, è dovuto al fatto che io avevo alle spalle tanti anni di studio e tecnica. Quando ho iniziato a cantare, quindi, sapevo cosa dovevo fare. Solo dopo è iniziato lo studio più personale di come ci si muove in teatro, come si sta in palcoscenico, attraverso tante “mazzate” ho imparato tante cose!
Grazie per tutti questi ricordi!
Proseguendo nei ruoli tuoi “storici”, non possiamo non parlare del tuo cavallo di battaglia, perché nel 2022, a Toronto, tu hai festeggiato il duecentesimo Germont!
Non lo so, che ruolo? Mai sentito! (ride) Ecco, è un ruolo che mi accompagna, e tra l’altro proprio il 18 agosto io e la mia ragazza partiremo e andremo a Liegi dove avrò l’apertura di stagione con questo ruolo “che non ho mai cantato”… ad oggi siamo a 217 recite… a Toronto erano proprio 200, poi nel frattempo se ne sono aggiunte altre.
” … ad oggi siamo a 217 recite … (red. Traviata) “
Come si fa, dopo duecento e più repliche, a dare ancora qualcosa al personaggio? Perché ogni volta non è la stessa cosa, non è mai uguale, e meno male che è così! Ecco, dopo tanto tempo e tante recite, come riesci a dare ancora quel “qualcosa” in più?
Diciamo che ogni volta per me è ristudiare da capo il personaggio, e ogni volta, anche se le note sono sempre quelle, ciò che ha scritto Giuseppe Verdi è sempre quello, però, se si guarda dietro a quelle note, mi piace dirla così, se si guarda “dietro alla tenda” di queste note, c’è sempre qualcosa di nuovo da dire e da fare. Per esempio quando c’è il punto (cantando, ndr) “Un dì, quando le Veneri…” ci sono queste note, una nota, una pausa, non è così realmente, ovvero: è scritta così, ma perché Verdi ha scritto quelle pause? Lo studio che ho fatto io, mio personale, quindi un altro baritono può essere in totale disaccordo, la mia non è legge – o meglio, è legge per me, ecco – quelle sono pause di insinuazione…
– Certo, perché lui sta instillando in Violetta il germe del dubbio! E poi da quel momento lei inizia ad arrovellarsi…
Quando tu diventerai…”…il tempo avrà fugate…che sarà allor? Pensate…” È questo il personaggio! Non è una pausa classica, non fai la pausa ma è come se ci fosse… (accenna cantando, ndr) e quel suono tenuto, anche se non stai cantando, è insinuazione, è puntare il dito! Quindi ecco, questo è lo studio che io predico a chi lavora con me. È continuamente ricercare, girare la pagina, chiedersi perché sia scritta così,
O ancora, altro esempio, “Di due figli…” i suoi due figli! Io ho pensato di farlo così…(cantando), di accentuare la parola “due”, se tu fai questa accentuazione nella parola due, nel numero due, Violetta può fare di rimando… (sempre cantando) “Di due figli!!!”, perché lei ancora non lo sa… e quindi si tratta di questo.
Quando tu dici, 217 recite, sì, ma se ci fosse la registrazione di ognuna di queste repliche che ho fatto, ascolteresti sempre qualcosa di nuovo, di diverso.
Verdi scrive “Ma… ma se alfin ti trovo ancor…” ecco, ci sono due “ma”! A volte se ne sente soltanto uno, ma sono due… Eh, perché sono due acuti da fare! E allora? Che soluzione ho trovato io per farli? (spiega cantando la diversa resa ed intenzione di ciascuno) È supplicare il figlio, farli uguali non avrebbe senso.
– Anche perché quel pezzo è quasi una nenia con cui lui vuole cullare il figlio!
Sì… E insieme il serpente che entra, arriva e va dal figlio!
– Abbiamo una lezione in diretta!! È molto bello, ti ringraziamo davvero per tutto questo tempo che ci stai dedicando e anche per queste spiegazioni così tecniche, così “addentro” alla musica.
Grazie a voi. È un piacere, ed è per farvi capire che in tutto quello che io faccio, quando canto, non è lasciato al caso, ma sono ore e ore di studio; e non solo canoro, come ti dicevo prima… è mettersi lì, guardare e riguardare lo spartito, e nella mente cantare, e pensare “Come lo farei?”
Altrimenti dopo 217 repliche, la gente direbbe “Basta Piazzola con Germont, voglio sentire qualcun altro!!”
Grazie davvero, Simone. Direi di chiudere con una domanda un pochino più
Raccontaci una cosa di te che non sa nessuno, che non hai mai raccontato!
Una cosa che non sa nessuno…fammi pensare a cosa possa dire che non abbia già detto.
C’è una cosa di me che, a volte, dà fastidio alla mia ragazza, quando andiamo a dormire: io devo addormentarmi con una cuffietta che trasmette musica, o interviste, o podcast. Quindi scelgo qualcosa su YouTube e mi addormento così.
– Musica e suoni sempre, quindi, anche quando dormi!
Sì, ovviamente se c’è lei posso addormentarmi anche senza, ma quando sono in giro per il mondo e sono solo il silenzio mi fa paura. Il rumore del silenzio è assordante, mi mette agitazione, per fortuna hanno inventato le cuffiette! Già da ragazzino, anche se condividevo la stanza con mio fratello, accendevo il televisore e mi addormentavo con quel sottofondo. Adesso con queste cuffiette non rompo le scatole a nessuno, anche perché ho una bambina piccola e non posso svegliarla. (Ndr: durante tutto il tempo di questa chiacchierata la piccola Rachele, di appena tre anni, è rimasta tranquilla e silenziosa accanto a noi, sul divano!)
Una vita immersa nel suono, insomma!
Bene… Simone, io ti ringrazio tantissimo per questa intervista così interessante. Ci lasci con un saluto?
Ma certo! Vi saluto tanto, se vi capita venite a Liegi a sentire Traviata, come vi spiegavo c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire… altrimenti venite a Bergamo dove canterò Roberto Devereux con un grandissimo cast, John Osbourne, Jessica Pratt, diretti dal maestro Riccardo Frizza; poi sarò a Pisa, a Jesi, a Salerno con il maestro Oren di nuovo con Traviata…
Se vi va di fare un giro in qualcuno di questi posti, venite, per me sarà un piacere!
– Grazie mille, Simone!
Grazie di cuore a voi!
Ringraziamo di cuore il iCharm PR Agency per la loro preziosa collaborazione e supporto. La vostra disponibilità e assistenza sono state fondamentali per la realizzazione di questa intervista. Grazie di cuore!