In una lettera del 17 febbraio 1860, Charles Baudelaire scriveva a Richard Wagner:
“[Della vostra musica] mi ha colpito, più di ogni altro aspetto, il senso di grandezza (…). Dappertutto nelle vostre opere sento la solennità degli immensi sussurri, delle grandi visioni della Natura, la solennità delle forti passioni dell’uomo”.
Carmelo Bene era solito dire che solo un artista riconosce e può parlare di un altro artista e in effetti basterebbero queste poche righe del grande poeta simbolista francese a rimpiazzare enormi tomi di critica musicale.
Proprio Der fliegende Holländer (L’Olandese volante), che il pubblico torinese ha vivamente ritrovato dopo dodici anni dall’ultima messinscena, dosa con sapienza quegli estremi di cui parlava Baudelaire: nell’ordito di un’orchestra imponente si innesta un mondo di sentimenti, tribolazioni, aneliti e illusioni capaci di scatenare la fantasia dello spettatore. Ci troviamo così di fronte all’emblema del romanticismo musicale, con a centro il mito (derivato dalla fantasia di Heine) del ‘maledetto’ condannato a un perpetuo errare sino all’incontro con l’amore capace di redimerlo e consegnarlo alla morte intesa come suprema pace.
Nathalie Stutzmann, la direttrice d’orchestra che il Teatro Regio di Torino abbraccia sempre con piacere, ha sottolineato in una recente intervista quanta ‘cantabilità italiana’ ci sia in quest’opera wagneriana e come viva sopra un andamento orchestrale che comincia a prendere le distanze dall’opera convenzionale grazie a una melodia pressoché senza interruzioni e soprattutto ai primi Leitmotiv già tutti presenti nell’ouverture. Idealista, fantastica e incalzante è stata l’orchestra condotta mirabilmente dalla musicista francese: chi si aspettava di udire soprattutto il ribollire opprimente d’un fato perverso sarà rimasto colpito di trovarsi nel bel mezzo di una luminosità madreperlacea come solo le notti dell’estremo Nord possono regalare. Grazie alla tavolozza di un’orchestra meritevole di ogni lode, la Stutzmann ha dato voce alle tante anime che si inseguono in questo dramma, trovando il giusto punto d’incontro tra le ragioni drammatiche e quelle musicali, privilegiando un dinamismo continuo che suggestivamente evidenzia l’oscillare nevrotico delle febbrili psicologie dei personaggi.
Il baritono Brian Mulligan, con la sua bellissima voce, non si è risparmiato nel cercare di rendere tutti gli stati d’animo di un personaggio invero complesso: dalla dolente elegia dell’entrata, “Die Frist ist um” (“Passato è il termine”) passando per il celebre “So ist sie mein” (“Sia dunque mia”) pronunciato con un senso di speranza mai sopita, a certe morbide mezzevoci nel duetto con Senta, il suo Olandese nell’arco della serata ha dato l’impressione di una statua bronzea che avesse ogni intenzione di animarsi e ammorbidire gli aspri contorni entro cui è costretta dalla sorte.
Il soprano Johanni Van Oostrum, Senta, ha affascinato la platea venendo a capo con ammirevole vigore di una parte che innesta estremi acuti e bruschi scarti ascensionali come quelli della “Ballata” in un personaggio altrimenti visionario, nevrotico e capace di un gesto estremo degno d’una tragedia greca. La frase finale “Hier steh ich, treu dir bis zum Tod!” (“Eccomi qui, a te fedele fino alla morte!”) è stato pronunciato dalla Van Oostrum con tale veemenza da togliere il fiato all’intera sala e grandioso è stato l’effetto catartico.
Il tenore Robert Watson ha regalato alla parte di Erik tutta la passionalità possibile alla figura del reietto innamorato.
Il basso Gidon Saks anche in questa recita non era in buone condizioni come annunciato a inizio serata: si è comunque impegnato a tratteggiare scenicamente un Daland avido e ossessionato dalla ricchezza come ben si vedeva in molte controscene durante il duetto con l’Olandese del primo atto.
Annely Peebo come Mary e Matthew Swensen hanno completato una compagnia di canto affiatata come non sempre è dato sentire.
Il coro, sempre mirabilmente condotto da Ulisse Trabacchini, ha regalato l’ennesima serata da protagonista, soprattutto in un’opera dove emerge come personaggio fondamentale: splendidi tanto i Marinai quanto le Filatrici, sorretti anche da una recitazione scrupolosa.
La regia originale di Willy Decker è stata ripresa per l’occasione da Riccardo Fracchia. Lo spettacolo era perfettamente in linea con le intenzioni musicali, privilegiando l’interiorità dei sentimenti alla loro bella mostra. Nessun vascello in primo piano e il mare continuamente evocato: tutto si è svolto in una cornice essenziale, quasi spoglia, che di volta in volta diveniva approdo per le navi o la casa di Daland. La scena era però sormontata da una enorme porta sul lato destro da cui ogni azione si dipartiva e si concludeva: origine e fine in fondo sono la stessa cosa. Lo spazio appariva sì vuoto ma diremmo per necessità, dovendo accogliere tutte le ossessioni dei personaggi (l’avidità di Daland, l’amore ossessivo di Erik, l’assillo di Senta per il ritratto dell’Olandese e lo stesso Olandese sfinito dal suo destino beffardo). Le scene e i costumi di Wolfgang Gussman si sono fatti apprezzare per la loro coerenza; una menzione particolare va alle luci di Hans Toelstede, ora riprese da Vladi Spigarolo, che hanno regalato momenti suggestivi quali l’ingresso del protagonista nella casa di Daland, un’ombra gigantesca che campeggia prepotentemente sulla parete quasi premonitrice di ciò che sta per avvenire.
A differenza del libretto, Senta non muore precipitando in mare ma si suicida mentre il protagonista riparte. L’idea registica è parsa comunque interessante poiché lascia aperto il finale: infatti accanto al corpo della ragazza vi è l’onnipresente ritratto dell’Olandese, furtivamente raccolto da una giovinetta che ne resta stregata e tutto fa pensare che la storia possa ricominciare.
La recita è stata salutata calorosamente dal pubblico che ha riservato una particolare ovazione a Nathalie Stutzmann.