Quando l’opera incontra il fantasy: Le Villi di Giacomo Puccini. Una foresta oscura, in cui la nebbia, la pioggia, la neve sono manifestazione di un sentimento cupo e serpeggiante; un fidanzato fedifrago, una giovane tradita, un padre il cui cuore sanguina per la perdita dell’unica, amatissima figlia; creature silvane assetate di vendetta, vestite degli abiti della terra da cui scaturiscono, che si ergono dal folto del bosco per compiere la propria danza di sangue. Potrebbe benissimo essere la trama di un fantasy, e proprio così si presenta lo scenario sul quale si apre il sipario de “Le Villi” al Teatro Regio di Torino.
Le scene di Guillermo Nova scorrono delicate e potenti, prendendoci per mano e guidandoci fra rami secolari e foschia, con bagliori di luce che si riverberano prima di tutto in orchestra; è già qui, il giovane Puccini, in tutta la sua promettente, irruente intuizione timbrica ed armonica, così “scenica”, così capace di disegnare ciò che accade sul palco prima ancora che gli occhi lo percepiscano. La bacchetta di Riccardo Frizza sottolinea ogni accento, sostiene le tinte più cupe così come i tratti più sentimentali; i colori, di ascendenza francese, risaltano lucidissimi, e gli intrecci motivici vengono svelati vividi e sicuri; il fidanzamento di Anna e Roberto del primo atto è un capolavoro di equilibrio, con la leziosità dei gesti, la levigatezza degli insiemi, le pennellate dell’arpa e le linee degli archi pronte ad intrecciare volute di squisito lirismo…ed ecco che i tocchi più foschi del presentimento di Anna si innestano come un veleno, che stride sinistro nei registri più gravi e prepara l’inconscio dello spettatore all’evolversi tragico, così ben disegnato e trascinante nel finale II. Sì, perché Puccini, seppur alla prima esperienza, e costretto nei margini di un libretto di matrice scapigliata non troppo felice, cui non aveva potuto dare una direzione (la sua forza, in futuro, sarà proprio la profonda coesione fra testo, scena, musica, ottenuta a costo di forzare e tormentare i librettisti!), mostra già in nuce il proprio talento sinfonico, nonché la capacità di suggerire legami, tracciare sentieri precisissimi, intrecciare nessi semantici che, scavalcando i confini della forma chiusa, potessero dare unità, coesione, forza drammatica alla vicenda. Se Ferdinando Fontana, nel ridurre a libretto “Les Willis” di Alphonse Karr, intendeva realizzare un esperimento di “poema sinfonico scenico”, più che di opera (i versi in calce ad Abbandono e Tregenda vanno chiaramente in quella direzione), appare invece chiaro che Puccini intendesse dare ai pezzi strumentali un valore centrale nell’azione drammatica: il preludio anticipa gran parte delle melodie-chiave, oltre a contenere una citazione letterale del Parsifal; l’uso della reminiscenza non è tanto un omaggio a Wagner, bensì punto di partenza per la creazione di un linguaggio nuovo e personalissimo; la Gran scena e il duetto finali, potenti ed intensi, che riecheggiano puntuali l’Abbandono, creano un sistema semantico in grado di sopperire alle mancanze del libretto e convergere incalzanti verso il finale, che diventa quasi un convegno di Baccanti assetate di sangue, con Anna che sovrasta Le Villi, ieratica e crudele, figura non più dimessa e tremante, ma finalmente padrona del proprio destino di morte.
Laura Giordano tratteggia con un timbro piacevole ed una sicurezza via via crescente l’evoluzione del suo personaggio, unico esempio tra le donne di Puccini di “figlia” di verdiana memoria, e raggiunge una pienezza di timbro e di interpretazione soprattutto nella tremenda scena finale; non più sottomessa, ma ormai spietata, anche la sua voce si fa tagliente, adattissima al momento, piena di slancio negli acuti, quasi sibilante di rabbia nei medio-gravi. Una prova ben riuscita, seppure a volte coperta dall’impatto sonoro dell’orchestra, ma sempre ben sostenuta e chiaramente disegnata.
Il Roberto di Azer Zada, dopo una impercettibile esitazione iniziale, prende forza e vigore e si mostra ben più interessante, vocalmente e scenicamente, negli accenti della disperazione e del rimorso: da fidanzato modello, fin troppo perfettino e sognante, con un “Tu dell’infanzia mia” sicuro e ben cesellato, si trasforma in un convincente peccatore pentito, e ci regala un “Torna ai felici dì” realmente emozionante, premiato da un caloroso applauso del pubblico. Nel finale la sua disperazione si fa palpabile, il suo terrore autentico; e nello spirare sbranato dalle Villi il personaggio di Roberto riacquista quella dignità che aveva poco onorevolmente perso dietro le grazie di una “vil cortigiana”.
Completa il cast il Guglielmo Wulf di Gëzim Myshketa: inizialmente in ombra per lasciare il giusto spazio alla felicità dei fidanzati, intona un “Angiol di Dio” di commovente bellezza, con un fraseggio ben modulato ed una felice intuizione drammatica; nella seconda parte dell’opera rivela tutto il dolore del padre che ha visto spegnersi la figlia per la crudeltà di chi aveva promesso di proteggerla, e dà prova di un bel timbro scuro e rotondo. Comprimario dalla presenza imprescindibile per l’opera il coro, magistralmente diretto da Ulisse Trabacchin, che ormai ci ha abituati benissimo: una compagine di forza e coerenza drammatica in grado di sostenere e far risaltare le voci protagoniste senza mai restare nell’ombra, ma anzi diventando parte integrante del tessuto motivico.
La riuscitissima regia di Pier Francesco Maestrini si muove su immagini apparentemente statiche – un giardino liberty punteggiato di fiori giganti, un salone in cui campeggia una enorme, licenziosa “Maya desnuda” in campo rosso, un cupo cimitero, una foresta di incantata, fiabesca bellezza ma che nasconde un tremendo popolo demoniaco: in realtà tali sfondi diventano luogo perfetto per far risaltare i movimenti delle masse, i passi di danza di quella che è a tutti gli effetti un’opera-ballo, i cortei dal passo mesto, la solitudine dei protagonisti ed, infine, il terribile scioglimento. L’idea del regista di esplorare il soprannaturale, ben sostenuta dall’efficace disegno delle luci di Bruno Ciulli, si esplicita con grande chiarezza ed intuizione, dando vita ad uno spettacolo convincente ed autenticamente emozionante.
Se è vero che l’editore Giulio Ricordi, per accaparrarsi il giovane e neodiplomato compositore, pilotò il concorso Sonzogno del 1883 – facendo in modo che Le Villi non solo non vincessero, ma non ottenessero nemmeno una menzione! – possiamo ben dire che, da bravo talent scout, ebbe la vista lunga, e contribuì non poco a consegnare al mondo, e sostenere, anno dopo anno, il talento di Giacomo Puccini.