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Milano, Teatro alla Scala: L’Opera Seria

Milano, Teatro alla Scala L'Opera Seria - recensione Opera Mundus - ph Brescia e Amisano
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Non si può che apprezzare la recente scelta del Teatro alla Scala di proporre in ogni stagione opere del XVII e XVIII secolo in edizione filologica ed eseguite molto di rado, anche in registrazioni discografiche. Nel 2021, La Calisto (1651) di Francesco Cavalli, regia di David William McVicar e direzione di Christophe Rousset con l’orchestra del teatro che s’è avvalsa di strumenti musicali storici insieme ai concertisti de Les Talens Lyriques. Nel 2023, Li zite ngalera (1722) di Leonardo Vinci, regia di Leo Muscato e direzione di Andrea Marcon con l’orchestra ed elementi aggiunti de La Cetra Barockorchester. Nel 2024, L’Orontea di Antonio Cesti (1656), regia di Robert Carsen e Giovanni Antonini sul podio. Cosa ci riserverà nei tempi futuri la programmazione scaligera? Si spera in riproposizioni di partiture quasi mai eseguite di tante splendide opere di Georg Friedrich Händel, come l’Arianna in Creta o il Faramondo, piuttosto che – per fare un paio d’esempi di poco auspicabili e improvvide riesumazioni – Il Fuoco eterno custodito dalle Vestali di Antonio Draghi oppure La Costanza di Ulisse di Carlo Agostino Badia.

Per la stagione 2024-2025, è stata scelta la molto poco nota L’Opera seria, musicata dal compositore d’origine boema Florian Leopold Gassmann su libretto di Ranieri de’ Calzabigi e rappresentata la prima volta al Burgtheater di Vienna nel 1769. Una proposta meno interessante dal punto di vista musicale rispetto alle precedenti, ma molto coinvolgente per chi conosce e ama il teatro musicale barocco. È infatti un’opera che riflette su se stessa prendendosi in giro, il racconto concitato d’una messinscena operistica con tutte le sue eccentricità e manie, un meta-melodramma a scatola cinese, con un palcoscenico che contiene un altro palcoscenico. Già nel 1715, nella farsetta La Dirindina del poeta Giacomo Gigli con musica di Domenico Scarlatti venivano ridicolizzati i vezzi e i trucchi vocali di mediocri cantanti per assicurarsi una qualche carriera. Ma sarà l’opuscolo satirico Il teatro alla moda di Benedetto Marcello, pubblicato in forma anonima a Venezia nel 1720, che metterà bene in luce il corrotto ambiente dell’opera seria italiana d’inizio Settecento: l’avida classe degli impresari e la loro rapace venalità, la mediocrità povera d’idee e dallo stile artificioso di molti musicisti e autori di libretti, la volgare vanagloria e l’ignoranza dei cantanti e dei ballerini. La polemica contro l’incancrenirsi dell’opera nell’ampolloso stile “alla Metastasio” proseguirà con Prima la musica poi le parole del 1786, un divertissement di puro meta-teatro su testo di Giovanni Battista Casti e musica di Antonio Salieri, non a caso allievo a Vienna dello stesso Florian Leopold Gassmann che era compositore da camera dell’imperatore Giuseppe II d’Asburgo e maestro di cappella di corte.

L’apertura di sipario di quest’Opera seria scaligera ci mostra da subito le concitate vicende d’una compagnia teatrale in procinto di mettere in scena L’Oranzebe, una tronfia opera seria, tratta dal dramma Aureng-zebe del drammaturgo inglese John Dryden e ambientata in un improbabile Indostan, alla corte dell’imperatore Mogul Oranzebe. Nel libretto di Ranieri de’ Calzabigi ogni personaggio della compagnia viene fatto corrispondere a una precisa figura professionale del teatro d’opera dell’epoca: l’impresario Fallito, il compositore Sospiro, il poeta-librettista Delirio, il coreografo Passagallo. Poi, gli artisti: il famoso “evirato cantore” Ritornello, la sprezzante primadonna Stonatrilla, la seconda donna Smorfiosa, la terza donna Porporina, la prima ballerina soprannominata “la Rapina”. E, infine, le invadenti e suscettibili madri-virago delle tre cantanti: Befana, Bragherona e Caverna. L’opera seria L’Oranzebe a tratti sembra una parodia dell’Adriano in Siria di Pietro Metastasio, illustre e molto ambìto libretto messo in musica da compositori come Giovanni Battista Pergolesi, Antonio Caldara, Francesco Maria Veracini: un vero e proprio concentrato su tutto ciò che d’ancien régime musicale doveva essere cambiato nel teatro d’opera dopo la seconda metà del Settecento. E sarà proprio Ranieri de’ Calzabigi a farsene promotore, insieme a Christoph Willibald Gluck, attraverso quel programma di riforma già così intriso di quell’estetica neoclassica che, nella prassi compositiva operistica, avrà come riferimento la tragédie lyrique  in tutti i suoi aspetti di declamato vocale. Inoltre, si porrà l’intento «di ricondurre la musica al suo vero compito di servire la poesia per mezzo della sua espressione, e di seguire le situazioni dell’intreccio, senza interrompere l’azione o soffocarla sotto inutile superfluità di ornamenti», come affermato nella prefazione dell’Alceste di due anni precedente all’Opera seria e ancor prima nell’Orfeo e Euridice del 1762, punto poetico e musicale di non ritorno nella storia dell’opera lirica.

In breve, s’inizia il primo atto con il compositore Sospiro e il poeta-librettista Delirio che si scontrano con l’impresario Fallito in quanto ben intenzionato al taglio di molti versi, recitativi ed arie dell’opera L’Oranzebe nell’imminenza della sua andata in scena. Sopraggiungono Stonatrilla, spocchiosa protagonista dell’opera che non lesina i soliti capricci da primadonna, il castrato Ritornello, divo acclamato del belcanto, l’ipocondriaca seconda donna Smorfiosa, sempre preoccupata di non poter cantare per motivi di salute, e infine il coreografo Passagallo. Con l’arrivo della giovane terza donna Porporina tutto sembra degenerare in una comica rissa vocale su precedenza e importanza del nome sul libretto, altezza di cimieri, lunghezza di strascichi…  Nel secondo atto s’assiste alle prove de L’Oranzebe con litigi furibondi tra il compositore e il librettista, quando si devono decidere i tagli alla partitura, nella solita querelle su cosa deve prevalere fra la musica e la parola poetica del libretto. Il musicista Sospiro adatta allora una famosa “aria di baule” del più acclamato repertorio virtuosistico di Ritornello da fargli eseguire in modo decisamente incongruo nell’imminente rappresentazione e intanto flirta con l’avvenente Porporina. Il poeta-librettista Delirio s’accorge dell’inadeguato adattamento e i due arrivano quasi alle mani. La situazione degenera anche per i pettegolezzi delle cantanti sulla prima ballerina della compagnia, chiamata “la Rapina”. Fallito è costretto a chiamare le guardie con grande agitazione generale, le cantanti perdono i sensi com’era consuetudine per ogni dama di quel periodo e il corpo di ballo può finalmente iniziare le prove. Nel terzo atto s’assiste alla rappresentazione dell’aulica e paludata opera seria italiana con eroici personaggi L’Oranzebe che Gassmann e de’ Calzabigi sanno restituire in forma di straordinaria parodia, sia nell’apparato strofico magniloquente del libretto, sia nell’ostentato virtuosismo vocale non esente dalle estenuanti ripetizioni di da capo variati. La così coturnata opera seria però non riesce gradita al pubblico che comincia a protestare e lo spettacolo viene interrotto con brusca calata di sipario, anche perché le precarie scenografie collassano su se stesse. Passagallo riesce ad acquietare gli spettatori promettendo nuove coreografie, ben riproposte con grande ironia ballettistica settecentesca dal coreografo Lionel Hoche ed eseguite da un divertente e sgangherato ensemble di danzatori che sembra uscito da Les Ballets Trockadero de Monte Carlo. Tutta la compagnia si lamenta dell’incontentabilità del pubblico e intervengono anche le tre madri delle cantanti, inferocite dai modi in cui vengono trattate le figlie. Inevitabile poi l’acceso parapiglia fra mamme, perché ciascuna porta alle stelle le doti vocali e sceniche della propria “bambina” e critica le altre due elencando tutte le loro defaillance nei teatri dove si sono esibite. Gaetano Donizetti se ne ricorderà una sessantina d’anni dopo nel delineare quello straordinario personaggio che è mamma Agata Scannagalli ne Le Convenienze e Inconvenienze teatrali. Intanto giunge voce che Fallito è fuggito privandoli d’ogni compenso. In un finale collettivo in forma di vaudeville che maledice tutti gli impresari, l’intera compagnia si scioglie affinché ciascuno possa cercare nuove scritture in altri teatri.

Tutto questo “teatro nel teatro” si materializza in un contenitore scenico dalle raffinate gradazioni di grigio, con pochi oggetti d’arredo: porte, semplici sedie bianche e un clavicembalo su un semovente impiantito di tavole di legno chiaro… Uno spazio conchiuso, inventato con portentosa visionarietà dallo scenografo Massimo Troncanetti e dal light designer Marco Giusti, dove la maestrìa di Laurent Pelly imbastisce finalmente una vera regia teatrale. Una regia, cioè, che non sente il bisogno di giganteschi ledwall o altri spettacolari effetti speciali di pervasiva tecnologia: ogni personaggio si muove in studiati a solo o in cronometrici movimenti di gruppo: un congegno a orologeria che definisce volta per volta e con psicologica precisione i rapporti tra i protagonisti, evitando soprattutto il facile espediente di trasformarli in banali caricature. Da subito si sente infatti la divertita complicità di tutto il cast in quest’ironico spasso d’incontri e scontri, amori furtivi e angherie, vezzi da primadonna e opportunismo carrieristico… Il gioco metateatrale viene inoltre esaltato dai bellissimi costumi in tutte le sfumature del bianco, disegnati dallo stesso regista, che trasfigurano i personaggi in statuine molto poco leziose in porcellana di Meissen, come scappate fuori da un quadro espressionista dipinto a monocromo. E la “poetica del meraviglioso” di tutta l’arte barocca finisce per trasformarsi, nel terzo atto, in una divertente parodia a “gioco di specchi” dell’opera seria L’Oranzebe, con tracotanti interpretazioni canore e sceniche su esotici fondali dipinti che cadono accartocciandosi a metà rappresentazione quando il forte rumoreggiare del pubblico ne decreta il fiasco.

Per L’Opera seria, dopo La Calisto di Francesco Cavalli, l’esecuzione è stata ancora affidata alla sapiente bacchetta di Christophe Rousset, rinomato clavicembalista, appassionato studioso dell’opera barocca, fondatore dell’ensemble Les Talens Lyriques, le cui prime parti degli archi e dei fiati affiancano i musicisti scaligeri che suonano su strumenti storici. L’Opera seria, rispetto a La Calisto dove il numero degli archi era molto contenuto, prevede infatti un più consistente organico orchestrale. E si può ascoltare fin dall’ouverture proprio per la brillante e attenta conduzione orchestrale. Un’esecuzione in crescendo dove, anche qui, si percepisce la complicità tra direttore, cantanti e regista che si divertono non soltanto per l’opera in sé, come le tante in repertorio che portano in giro nei teatri del mondo, ma anche per i continui e ironici rimandi alla faticosissima vita, in ogni caso splendidamente ineguagliabile, di chi ha scelto il teatro come professione.

L’impresario Fallito di Pietro Spagnoli è sempre garanzia di qualità: il baritono conosce bene la partitura de L’Opera seria in quanto già affrontata una decina d’anni fa in una precedente riproposta al Theatre la Monnaie di Bruxelles con la direzione di René Jacobs, ma nel diverso ruolo di Desiderio. La sua dizione e fraseggio sono magistrali nello scandire espressivamente ogni singola parola e raggiungono il culmine nel bel recitativo accompagnato Maledetta l’impresa de’ musici teatri! e nelle arie Signor Delirio tante sentenze e soprattutto Se di fare l’impresario vi venisse mai il prurito dove ammonisce chiunque abbia l’intenzione di intraprendere il mestiere d’impresario teatrale.

Mattia Olivieri è il poeta-librettista Delirio, una voce omogenea ed espressiva dal bel timbro scuro che ben si rivela nell’aria State attento a quest’oracolo dove viene ribadita con boriosa presunzione che soltanto il suo libretto riuscirà a nobilitare la pessima musica de L’Oranzebe composta da Sospiro. Notevoli sono inoltre le capacità attoriali di Olivieri: come esempio d’eccellenza che è possibile rivedere anche su Youtube, ricordiamo il duetto con Rosa Feola nel Don Pasquale scaligero 2018 diretto da Riccardo Chailly, dove interpreta un Dottor Malatesta simpatica canaglia, giovane viveur della commedia italiana da cinema dei telefoni bianchi, nella regia anni ’30 di Davide Livermore.

Il musicista Sospiro è Giovanni Sala che, per i pregi della sua bella voce chiara e ben squillante nel registro acuto, nel giro di pochi anni si è affermato come uno dei tenori italiani più promettenti della sua generazione, con l’ottimo debutto scaligero come Nicias della Thaïs di Jules Massenet nel 2022 e come Prunier lo scorso anno nella pucciniana La Rondine. Sia nell’irresistibile duetto con Delirio Ho di fuoco nel petto un Vesuvio che nell’aria Cari quegli occhi amabili scritta per Porporina, mostra una capacità vocale e scenica degna di nota nello scrutare il suo personaggio e anche riderci sopra senza cadere nella caricatura.

Il ruolo dell’ ”evirato cantore” Ritornello non è stato composto da Gassmann per un castrato bensì per un tenore e molto bene affronta la parte il canadese Josh Lovell che con Rousset e i suoi Talens Lyriques aveva già interpretato Clistene ne L’Olimpiade di Domenico Cimarosa. Il suo repertorio che comprende Tamino e Don Ottavio, Don Ramiro e il Conte d’Almaviva, Ernesto e Nemorino, gli permette di svettare con facilità in zona acuta con voce calda ed espressiva, soprattutto nell’ardua parodia d’un castrato settecentesco che basa i propri successi sul virtuosismo vocale portato all’estremo. Lo dimostra nell’aria Benché da te lontano e soprattutto nell’ampollosa Se con voi do in braccio al vento quando imita tutti i vezzi belcantistici dei virtuosi dell’opera seria.

Alla francese Julie Fuchs, soprano-étoile che s’esibisce di norma all’Opéra national de Paris, è affidato il ruolo dell’altezzosa primadonna Stonatrilla. Parte impervia che unisce megalomanie capricciose e canto d’estremo virtuosismo lambiccato da enfatiche e altisonanti strofe, come nel lungo recitativo accompagnato Dove son! Che m’arriva! seguito dall’aria Pallid’ombra del misero amante / muta, muta guardando mi stai! nel secondo atto oppure in No; se a te non toglie il fato quel bell’occhio lusinghiero  come protagonista assoluta nella messinscena dell’opera seria L’Oranzebe nel terzo atto.

Il ruolo della seconda donna Smorfiosa è affidato al soprano Andrea Carroll, lampante esempio del terrore d’ogni malanno che possa privarla della voce, afflizione comune in ogni cantante. Le sue lamentazioni l’accompagnano senza requie: Ahimè son morta! Non posso più, più non mi reggo in piedi (…) Tutto mi pesa, tutto m’ammazza (…) Cosa sarà di me? Nell’atto istesso d’andare in palco appunto non son più bona a nulla. Le sue arie sono un concentrato di retorica del belcantismo come nell’arietta Mio dolce amorino / pazienza, carino, / son fatta così e, nell’aria “in cateneSaprei costante e ardita / spezzar la tua catena nella messinscena de L’Oranzebe, la sua voce sa prestarsi in modo duttile alle agilità.

La giovane ed avvenente Porporina, che sembra ricordare i soprani-soubrette dell’opera buffa settecentesca, è Serena Gamberoni: una vivace presenza attoriale per spigliatezza e una morbida vocalità che sa però essere volitiva nell’aria Più non si trovano fra noi le mutrie.

Alessio Arduini è il coreografo Passagallo, un baritono di lusso che passa dalla Wiener  Staatsoper alla Fenice e che regala a questo personaggio un canto dal bel timbro scuro e dal perfetto cesello d’ogni frase. Come nell’aria briosa di presentazione dei ballerini Vedrete che salti che rilanciano / par che in aria volando s’aggirino e soprattutto nel momento in cui deve calmare il tumulto “con sussurro e strepito” del pubblico furibondo contro L’Oranzebe: il recitativo Riveriti signori / noi colpa non abbiamo seguito dall’aria I miei balli son tanti miracoli.

En travesti, le tre megere che assolvono il ruolo di mamme iperprotettive e prepotenti sono il tenore Alberto Allegrezza come Bragherona e i controtenori Lawrence Zazzo e Filippo Mineccia rispettivamente come Befana e Caverna. In gran spolvero vocale e scenico tutt’e tre, anche perché le opere del loro repertorio sono soprattutto titoli delle migliori opere barocche.

La locandina è completata da quattro comprimari, bravi allievi dell’Accademia del Teatro alla Scala: il soprano María Martín Campos che interpreta la ballerina soprannominata “la Rapina”, il mezzosoprano Dilan Şaka, il tenore Haiyang Tuo e il basso Xhieldo Hyseni come coro di ballerini.

6 aprile 2025 – L’Opera Seria – Teatro alla Scala

Musica di Florian Leopold Gassmann

Libretto di Ranieri de’ Calzabigi

Commedia per musica

Nuova produzione Teatro alla Scala

(in coproduzione con MusikTheater an der Wien)

CAST

Fallito: Pietro Spagnoli

Delirio: Mattia Olivieri

Sospiro: Giovanni Sala

Ritornello: Josh Lovell

Stonatrilla: Julie Fuchs

Smorfiosa: Andrea Carroll

Porporina: Serena Gamberoni

Passagallo: Alessio Arduini

Bragherona: Alberto Allegrezza

Befana: Lawrence Zazzo

Caverna: Filippo Mineccia

Ballerina: María Martín Campos*

Coro di ballerini (soprano): María Martín Campos*

Coro di ballerini (mezzosoprano): Dilan Şaka*

Coro di ballerini (tenore): Haiyang Guo*

Coro di ballerini (basso): Xhieldo Hyseni*

*Allievo dell’Accademia Teatro alla Scala

 

Direttore: Christophe Rousset

Regia e costumi: Laurent Pelly

Scene: Massimo Troncanetti

Luci: Marco Giusti

Coreografia: Lionel Hoche

Orchestra del Teatro alla Scala su strumenti storici e Les Talens Lyriques

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Emilio Pappini

Vive e lavora a Milano e Trieste e si occupa di Storia dell’arte. È laureato in Lettere Moderne presso l’Università di Genova e specializzato in Storia del Teatro all’Università Cattolica di Milano con una tesi pubblicata sul rapporto tra opera lirica e televisione: L’opera lirica nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (Vita e Pensiero ed.) Ha pubblicato Nascita e metamorfosi del melodramma nella TV italiana (in Le sigle televisive, Eri ed. RAI-TV). Grande appassionato di opera lirica, scaligero da sempre, ha collaborato con la rivista L’Opera e ha presentato a Radio Popolare profili di grandi cantanti del Novecento.

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