La sera del 22 novembre 1832, quando a Parigi debuttò il dramma in cinque atti Le roi s’amuse, il suo autore Victor Hugo non poteva di certo immaginare che la tragica storia del protagonista Triboulet sarebbe poi diventata, grazie a Giuseppe Verdi, una delle pièce teatrali più rappresentate al mondo. Sul glorioso palcoscenico della Comédie-Française ebbe vita molto breve perché dalla sera seguente fu impedita ogni replica, nonostante il successo della prima: un tempestivo decreto ministeriale censurò il testo del grande scrittore francese perché la figura così immorale del re François I de Valois sembrava avere troppe somiglianze con il re Louis-Philippe insediatosi da appena due anni sul trono di Francia. E, come se non bastasse, fu negato ogni diritto di portare in scena Le roi s’amuse per i successivi cinquant’anni, tanto che fu ripreso soltanto nel 1882. Il testo a stampa però circolava e Giuseppe Verdi non poteva non subire il fascino d’una serrata narrazione dove l’ingiustizia del potere, il manifestarsi disumano della sopraffazione, l’ordito dell’odio e la trama della crudeltà che intessevano l’agire dei personaggi poteva essere trasformato in teatro musicale “al calor bianco”. In una lettera al librettista Francesco Maria Piave dell’8 maggio 1850 scrisse: «Oh Le Roi s’amuse è il più gran soggetto e forse il più gran dramma dei tempi moderni. Triboulet è creazione degna di Shakespeare! […] Ora riandando diversi soggetti quando mi passò per la mente Le Roi s’amuse fu come un lampo, un’ispirazione». Il testo di Hugo gli permetteva di mettere in musica uno straordinario meccanismo musicale e scenico attraverso un’intima visione della realtà, mai didascalica o banalmente descrittiva, che contraddistingue da sempre ogni opera verdiana. Una profonda lettura etica del comportamento umano esposto di continuo alle conseguenze di azioni, scelte, decisioni con la percezione, non senza pietas, dei rapporti fra i personaggi come franare progressivo e inesorabile verso il compiersi del proprio destino. La figura del “diverso” Triboulet viene trasformato in Rigoletto, fratello del Quasimodo mostruoso di Notre-Dame de Paris e del deforme Gwynplaine de L’Homme qui rit, sempre di Victor Hugo. Dal monologo Pari siamo, l’alto senso morale del pensiero drammaturgico di Verdi permette l’emersione progressiva di tutta l’umanità ferita del personaggio. Così, il freak Rigoletto, nell’esposizione sofferente del suo corpo segnato, lancia un’accusa attraverso un personale senso di giustizia contro la violenta tirannia che lo sottomette e rivendica soprattutto il proprio diritto a vivere e ad amare, urgente esigenza d’una libertà individuale che mai come oggi ci fa riflettere. L’opera doveva essere data al Teatro alla Fenice nel 1851, Venezia era in piena dominazione austriaca e incombeva un’occhiuta censura. Ecco quindi la metamorfosi del dramma di Hugo dai fastosi saloni della corte del re François I a quelli del palazzo del Duca di Mantova, dai Valois al casato dei Gonzaga da secoli ormai estinto, dalla Senna al Mincio, da Triboulet a Rigoletto (dal francese rigoler, cioè ridere, scherzare).
A Venezia, la sera dell’11 marzo 1851 la rappresentazione ebbe un grande successo e alla Fenice ritorna per tutto il mese di febbraio nella messinscena di Damiano Michieletto che debuttò alla Dutch National Opera di Amsterdam nel 2017 e fu ripresa dal teatro veneziano nel 2021 ma con poco pubblico in sala, alquanto contingentato a causa del Covid. Il direttore Daniele Calligari che si definisce meritoriamente “integralista verdiano”, in perfetto accordo col protagonista Luca Salsi, si avvale della versione filologica di Martin Chusid inaugurata da Riccardo Muti e aderente all’originale manoscritto verdiano: nessuna puntatura di tradizione in acuto non scritta nelle arie e nei duetti, ad esempio nei momenti di Rigoletto dell’È follia! abbassato dal sol acuto al mi bemolle (e in piano, quindi emissione baritonale più difficile da eseguire che la sparata in acuto) oppure dell’Un vindice avrai dal mi bemolle al do, restituendo all’opera tutti i rapporti causa-effetto necessari a capire nella costruzione drammaturgica le molte sfumature espressive dei momenti musicali seguenti.
La regia di Michieletto s’incardina sulla straordinaria performance attoriale di Salsi, primo interprete dagli esordi della produzione olandese e ormai giocoforza assuefatto all’imperativo di dar credito al personaggio di Rigoletto voluto dal regista. In abiti moderni e rinchiuso in un’asettica stanza di manicomio dall’abbacinante biancore, nella scenografia di Paolo Fantin e coi costumi di Agostino Cavalca, il protagonista è impazzito dopo la morte della figlia. Lo spaventoso senso di colpa l’ha fatto uscire di senno: nel rancoroso piano ordito con il killer Sparafucile per assassinare lo stupratore di Gilda, Rigoletto rivive ossessivamente nella sua derelitta esistenza reclusa ogni fatto accaduto e sgrana ossessivamente l’atroce rosario delle responsabilità d’un destino che gli si è rivoltato contro, con la ragazza che s’è immolata per amore al posto del suo libertino seduttore. Gli spettatori vedono ciò che lui vede: proiezioni della sua mente che si materializzano nello spazio claustrofobico della stanza come angoscianti apparizioni in flashback dove gli altri personaggi e i coristi raccontano la storia del buffone deforme con parvenze d’allucinazione. Al di là della solita polemica tra chi idolatra oppure detesta senza vie di mezzo quest’enfant gâté della regia, coccolato da tutti i più importanti teatri europei, ci si potrebbe chiedere perché spesso Michieletto tende a concepire messinscene a flashback, visto che il teatro d’opera gli può offrire trame con solida continuità temporale e drammaturgica e conseguenti quanto infinite possibilità interpretative. Per fare qualche esempio, l’altro suo Rigoletto, quello del 2020 nella stagione lirica estiva in piena pandemia delle Terme di Caracalla, contestualizzato nel più criminale degli ambienti anni Ottanta, dove impera solo la legge del potere, della violenza e del sesso facile. Complice il necessario distanziamento da contagio-Covid, operatori agilissimi in steady-cam riprendevano i cantanti e il coro in ogni gesto e movimento e i video erano visibili in diretta su maxischermo. Queste riprese erano intervallate da vere e proprie sequenze cinematografiche, con prequel di tutta la vicenda come nell’apparizione della madre di Gilda al mare durante il Deh non parlare al misero di Rigoletto, o nel racconto delle ellissi temporali dell’opera come nella sequenza della ragazza che di nascosto torna a casa prima del duetto col padre, o ancora nei continui flashback con momenti del passato dei personaggi. E nel Falstaff scaligero del 2017 diretto da Zubin Mehta dove Sir John, un Ambrogio Maestri ancora ascoltabile, aveva le fattezze contemporanee d’un ospite della casa di riposo milanese fondata da Giuseppe Verdi. In un salone che riproduceva nei dettagli quello dell’ospizio, il baritono pensionante schiacciava una bella pennichella post-prandiale con narrazioni oniriche seguenti che davano corpo all’apparizione di tutti i personaggi dell’opera. E ne Les contes d’Hoffmann del 2023 alla Fenice dove il protagonista, nel delirio alcolico, evoca le tre figure femminili cristallizzate nelle sue passate età: come sofferto ricordo d’infanzia su banco di scuola elementare per Olympia, poi a casa di Antonia su sedia a rotelle nell’età giovanile e alla fine con Giulietta, nelle disillusioni della maturità, in salone per orge d’alto bordo del genere Eyes Wide Shut di kubrikiana memoria. Insomma, se si volesse dar sintesi in un manuale fai-da-te per altri ambiziosi registi su tutto quello che si deve sapere delle messinscene michielettiane: prendere un libretto d’opera, non sia mai la partitura; leggerlo con attenzione come fosse un testo di prosa; individuare il personaggio di maggior peso drammaturgico; pensare a un ambiente dove collocarlo in un tempo successivo alla naturale conclusione dell’opera; evitare possibilmente ambienti poco consoni alla trama, tipo La Bohème in un’astronave, anche perché all’Opéra Bastille è già stato fatto; alterare in questo luogo postumo le condizioni mentali del/della protagonista (estatica fantasticheria, sogno, delirio, pazzia, fumi d’alcol o visioni da droga non importa quale, ecc.); su quest’unica idea, fare in modo che tutti gli altri cantanti, il coro e i figuranti si presentino a turno o in gruppo esibendosi come fantasmi partoriti nei bui meandri della mente del personaggio principale; nel caso in cui il/la protagonista muoia in conclusione d’opera, come accade quasi sempre, le reminiscenze ectoplasmatiche possono essere evocate dall’Aldilà dove il/la protagonista è finito, anche nel caso d’uno Jago che nell’Aldilà crede molto poco.
Non certo nella visionarietà a senso unico della regia ma nell’eccellente performance dei cantanti, dell’orchestra, del coro ben preparato da Alfonso Caiani e nell’attenta direzione di Daniele Callegari, giustamente incalzante ma talvolta un po’ troppo accelerata, che questo Rigoletto prende vera forma e ci ricorda soprattutto che nei semplici righi musicali della partitura c’è già tutta la messinscena, basta saperli leggere. Dal tenebroso preludio, il direttore ci fa infatti capire che la tragedia del buffone di corte è compiuta fin dall’inizio, perché il destino gli ha già predestinato il dolore più spaventoso per qualunque essere umano, la morte della figlia. Il fortissimo orchestrale, introdotto da estenuati squilli di tromba e trombone, deflagra minaccioso e si trasforma in un dirotto pianto singhiozzato dagli archi e dai legni con l’inquietante finale cadenzato dai timpani. Tanto che, subito dopo e come di sorpresa, l’esplosione accelerata della musica bandistica e il successivo minuetto tutto in superficie sembrano rimarcare l’abissale scarto tra la sofferenza del preludio e la cinica superficialità mondana della vita di corte. Potenza dei dettagli dove si cela la miracolosa grandezza della musica verdiana: ad esempio nell’incontro tra Rigoletto e Sparafucile, quando il direttore evidenzia la sinistra melodia sommessa di un violoncello e un contrabbasso rispetto al pizzicato degli archi e lo staccato dei fiati, sinistro infatti è ciò che di morte viene annunciato in poche battute dai due personaggi; nella sapiente sottolineatura di come il rapporto tra Gilda e Rigoletto sia connotato dall’incomunicabilità totale: appena conclusa la confessione piena di pathos della ragazza Tutte le feste al tempio si passa bruscamente dal cullante andantino al disperato più mosso del Solo per me l’infamia a te chiedeva, o Dio del padre che non riesce ad ascoltarla, imprigionato nel suo possessivo soliloquio; nel celeberrimo quartetto Bella figlia dell’amore, Callegari distingue le diverse e contrastanti personalità dei quattro personaggi, come in una sorta di monologo dove ciascun cantante – nonostante il perfetto ensemble delle voci – sembra pietrificato nel ruolo conchiuso che il destino gli ha riservato: il Duca come protervo dongiovanni mobile qual piuma al vento (lui, sì!), Gilda nello straziato stravolgimento d’un amore impossibile, Rigoletto accecato dal suo rabbioso proposito di vendetta, Maddalena che recita da smorfiosa coquette pregustando però i ricavi imminenti del suo lavoro di prostituta.
Luca Salsi è il Rigoletto stupefacente di sempre, interpreta da grande attore un personaggio mosso da differenti e spesso opposti modi d’agire: caustico buffone a forza, gobbo emarginato e schernito da tutti, padre apprensivo, furia umana nella sua sete di vendetta. Ci si chiede quanto la sua nascita a San Secondo parmense, una quindicina di chilometri da Busseto, abbia permesso al genius loci della terra di Giuseppe Verdi di concedergli così a fondo l’intima adesione “carne e sangue” al personaggio: una segreta somiglianza con uno dei più grandi tenori verdiani del secolo scorso, Carlo Bergonzi bussetano DOC come il lambrusco della Salsamenteria Baratta. Lo si sente nel suo naturale porgere, con tutte le sfumature del fraseggio, anche semplici battute musicali di raccordo come, ad esempio, Sta ben… La porta che dà al bastione è sempre chiusa? rivolta a Giovanna, la custode della figlia, oppure nel dialogo con Sparafucile Venti scudi hai tu detto? Eccone dieci… e dopo l’opra il resto con l’indicazione di pugno verdiano “questo recitativo dovrà essere detto senza le solite appoggiature”. Bel timbro caldo con lunghi fiati, tecnica rodata da Rigoletti interpretati su molti palcoscenici e soprattutto da un ben approfondito studio della vocalità verdiana, legato perfetto, emissione potente ma modulata dal mai tonitruante fortissimo alle morbide mezzevoci in ppp. Se nel secondo atto qualcuno pensa che la grande tradizione baritonale di Rigoletto abbia già espresso tutto nella conosciutissima scena d’ingresso a corte del buffone scornato, vada a sentire ciò che di nuovo c’è in ogni contrastante passaggio espressivo dell’interpretazione di Luca Salsi: la sospettosità nel La rà, la rà, la rà, la turbinosa rabbia in Cortigiani, vil razza dannata, l’implorazione devastata dell’Ebben piango, l’avvilito umiliarsi in Miei signori, perdono, pietade. Provare per credere, basta chiudere gli occhi.
Il Duca era il tenore peruviano Ivan Ayón Rivas, ruolo che conosce bene e canta spesso. Al contrario di Gilda, il personaggio del Duca non cambia dall’iniziale allegretto della ballata Questa o quella per me pari sono all’analogo allegretto della canzone finale La donna è mobile qual piuma al vento, tranne all’inizio del secondo atto nel suo poco credibile momento d’amour fou per Gilda Ella mi fu rapita! (…) Parmi veder le lagrime (…) Possente amor mi chiama, obbligato in partitura come grande scena recitativo–aria–cabaletta per dar lustro alle abilità canore del tenore di turno. La cinica e insolente fissità psicologica del personaggio si sposa perfettamente con l’impostazione registica del personaggio. Essendo un’apparizione creata dalla mente dell’alienato Rigoletto, l’unica possibilità scenica è quella di spaventevole babau minaccioso. La sua interpretazione ne risente, Ayón Rivas ha una generosa voce potente con acuti svettanti, uno spavaldo e giovanile abbandonarsi al canto che sempre rassicura e gratifica l’ascolto, uno squillo come ormai si sente di rado, ma dev’essere tenuto un po’ a bada: un esempio per tutti, le ultime note del tenore devono essere emesse quando s’addormenta dentro la stamberga di Sparafucile sulle rive del Mincio e Verdi raccomanda in partitura di eseguirle perdendosi poco a poco in lontano, invece il Duca appare con fare esagitato sul soppalco della stanza manicomiale, sgrana tanto d’occhi sul povero Salsi prostrato nonostante il robusto fisico da una performance attoriale sempre in scena da camicia di forza e con un forte gli spara la legatura dei due ultimi si acuti da stagione lirica all’aperto a Roccacannuccia. Forse qui, visto il brusco e irascibile carattere in tante biografie, il nostro amato Giuseppe si sarebbe infuriato ben bene.
Il soprano Maria Grazia Schiavo nel ruolo di Gilda si contraddistingue per il preciso fraseggio e la spiccata sensibilità musicale: ogni parola viene cesellata nell’efficace modalità di chi ha saputo riscoprire i recitativi d’opere meno conosciute di Jommelli, Händel, Mozart per poi diventare una delle più acclamate belcantiste dei palcoscenici. La resa vocale s’è affinata molto rispetto all’edizione del 2018 al Teatro Massimo di Palermo dove è stata già possibile ascoltare in accoppiata con Ayón Rivas. In questa produzione veneziana la sua interpretazione di Gilda scava ancor di più nell’interiorità della sua anima, da ragazza ingenua rinchiusa nella cupa prigione della possessività paterna a donna matura e consapevole di sé, finalmente padrona d’un destino che può anche comportare un autolesionismo finale, come poi effettivamente avverrà. Nella tradizione del soprano drammatico d’agilità e in virtù del ripristino della partitura verdiana originale, la Schiavo non esegue tutta la coloratura dei soprani leggeri aggiunta da tradizione e, grazie a un bel registro centrale e basso, nel Caro nome restituisce al personaggio tutta la gravitas delle successive Violetta e Leonora. Voce omogenea, accettabilmente a proprio agio nelle agilità, dà il massimo con morbidezza di suono nella scena conclusiva nel V’ho ingannato! colpevole fui! e poi nel Lassù in cielo, vicino alla madre… con arpeggi di flauto da brivido.
Anche i due malavitosi fratelli borgognoni, lo Sparafucile del basso Mattia Denti e la Maddalena del mezzosoprano Marina Comparato, nell’allestimento sono revenant del delirio del protagonista: il sicario come attempato boss d’estrema periferia e la sorella come procace battona in immancabile négligé e vestaglia bordata di piume di struzzo. Il basso ha una voce imponente che sa scendere fino al temibile fa basso del duetto con Rigoletto e il mezzosoprano una salda tecnica e un bel timbro scuro che l’ha resa famosa anche nei ruoli rossiniani. Uno dei vertici esecutivi si raggiunge infatti nel complesso terzetto col soprano che inizia con È amabile invero cotal giovinotto… – Oh, sì venti scudi ne dà di prodotto che ha la travolgente potenza del Verdi più incandescente.
Il conte di Monterone è affidato a Gianfranco Montresor, un ruolo-cardine dal punto di vista drammaturgico perché nulla sarà come prima dopo le sue due apparizioni. Spesso in note ribattute che conferiscono solennità al suo personaggio, il suo canto cupo e disperato è come quello del Commendatore mozartiano, un convitato di pietra che stabilisce un rapporto con Don Giovanni in flagrante analogia con quello tra Monterone e Rigoletto.
Ottima presenza scenica e voci adeguate di Carlotta Vichi come Giovanna, Armando Gabba come Marullo, Roberto Covatta come Borsa, Matteo Ferrara come conte di Ceprano e Rosanna Lo Greco come contessa sua moglie. Grande successo di pubblico, con qualche dissenziente buuu nei confronti della regia.