È sotto la stella di Giuseppe Verdi che il Massimo barese ha inaugurato la stagione 2025/2026. La scelta è caduta su Il Corsaro, opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, la cui prima assoluta risale al 25 ottobre del 1848 al Teatro Grande di Trieste: un anno fatale per le sorti di quell’Italia, ancora divisa e soggiogata dall’Austria. L’opera venne rappresentata appena quindici giorni dopo le cinque giornate di Milano e Verdi aveva incontrato l’altro suo grande omonimo: Giuseppe Mazzini, il quale gli aveva chiesto di musicare un inno sui versi di Goffredo Mameli. Le figure storiche che concorrevano al risorgimento italiano erano impavidi ribelli e nella produzione verdiana tale lo era stato anche il bandito e galantuomo Ernani, lo erano stati I Masnadieri e il tema della ribellione era stato ampiamente trattato anche in Alzira e nell’Attila. Al pari delle ultime due opere citate, anche Il Corsaro è a lungo rientrato nel catalogo delle opere minori della produzione verdiana. La genesi fu lunga e difficile, il lavoro è tratto da The Corsaire, poema di Lord Byron. Per l’autore inglese Verdi aveva già nutrito un’infatuazione: a tal proposito si ricordano I due Foscari. Nel 1847 la sua mente fu interamente occupata dal progetto di musicare il Macbeth shakespeariano e dunque Il Corsaro andò in scena un anno dopo, disgraziatamente con un fiasco talmente rilevante che il compositore per anni pare non volle più saperne. Può tuttavia quest’opera considerarsi davvero minore? Chi scrive lo ritiene ingiusto, dissociandosi dall’assunto secondo il quale le opere minori siano solo una prefigurazione del Verdi più maturo. Ad un attento ascolto, in opere come Il Corsaro, vi è il Verdi migliore, quello impetuoso delle frementi cabalette che mandano in visibilio il pubblico al grido di “Viva Verdi!” Musicalmente questa, come altre opere precedenti, contiene un periodare melodico piuttosto conciso ed efficace, un’affascinante energia e pulsione ritmica, figurazioni armoniche molto avanzate, modulazioni che si rincorrono tra loro e, infine, la variazione strofica: cellule ritmiche e melodiche che si espandono fino a creare grandi scene basate su pochi elementi, ma con grande economia di mezzi. Insomma, Il Corsaro può considerarsi una piacevole scoperta, costellata di gemme musicali che chiedono solo di essere ascoltate in assenza di pregiudizio.
L’allestimento ha visto una coproduzione tra il Teatro Regio di Parma e il Carlo Felice di Genova, la regia è stata firmata da Lamberto Pugelli, le scene da Marco Capuana, i costumi da Vera Marzot e il disegno luci da Andrea Borelli. Il regista, nel rispetto della drammaturgia, si è posto il problema di rappresentare la “tinta verdiana”. Il Corsaro è un’opera che si svolge su un’isola dell’Egeo, un’opera di mare, che sa di mare, elemento ricorrente anche in un’altra opera quale il Simon Boccanegra. Interessante la riflessione del regista: meraviglia come Verdi, proveniente dalla bassa Padana, possa essersi così profondamente interessato all’elemento marittimo e l’abbia musicato con così tanta maestria. Per gli elementi figurativi Pugelli ha rivolto la sua attenzione a molteplici elementi, uno dei quali appartenente alla tarda pittura come le opere del Doganiere Rousseau. Il regista, tuttavia, nella stessa drammaturgia ha trovato qualcos’altro che si contrapponesse a tanto romanticismo, nella sua stessa semplicità ha così deciso di ambientare l’intera opera su una nave con due colori contrapposti, il rosso e il nero, rappresentativi della nave dei musulmani avversa a quella dei corsari. Inizialmente il pubblico ha avuto l’impressione di trovarsi su una nave; nel corso dell’opera la scena ha subito un’ulteriore semplificazione fino al finale: un vuoto palcoscenico adornato solo da elementi simbolici. L’opera rappresentativa dell’opera stessa giustapposta. Il palcoscenico potrebbe essere la tolda di una nave, le vele un sipario, etc. Un modo registico per rappresentare la forza e l’efficacia della sintesi verdiana: l’opera precipita verso il finale e Corrado, il Corsaro, sparisce con una corda in alto, da dov’era inizialmente calato. Quella di Lamberto Pugelli è una regia intelligente che si avvale di un’interpretazione aderente alla drammaturgia, coniugata ad una personale interpretazione che per nulla contrasta con essa.
Sul fronte musicale la serata si è svolta prevalentemente in modo maggiore, col maestro Stefano Montanari che ha diretto una luminosa orchestra trasudando l’impeto verdiano fin dall’attacco del vorticoso preludio. Il gesto sicuro, le sezioni dell’orchestra tra loro compatte ne hanno ricavato un possente fremito nelle focose cabalette, per distendersi nelle frasi melodiche tipicamente verdiane in funzione di commento dello stato d’animo dei personaggi, espressiva ed empatica, insinuandosi nell’animo di Seid, Corrado e Gulnara. Il maestro non ha mancato di conferire estrema eleganza nel coro delle odalische, all’inizio dell’atto secondo, come pure nella cabaletta di Gulnara Ah conforto è sol la speme, i concertati di fine primo e secondo atto sono stati il risultato di un gran trasporto emotivo, evidentissimo, d’altronde, anche dagli stessi respiri del maestro che guidava la grande orchestra del teatro Petruzzelli. Montanari non ha mai smesso di essere in perfetta sintonia con i cantanti, rinunciando a soffocarli con eccessivi clangori o tempi troppo rapidi, come pure si potrebbe essere portati a fare con questo tipo di scrittura verdiana.
Un elogio senza riserve va al protagonista Rame Lahaj, nei panni di Corrado. Non appena ha aperto bocca per intonare la sua cavatina ha fatto comprendere al pubblico di che pasta era fatto: voce scura, da tenore eroico, non priva di squillo in acuto, grande e teatrale, un Corsaro appassionato, il quale non rinuncia a toni più intimistici e dolenti nel finale, con Medora che gli muore tra le braccia. Il cantante affronta l’esigente ruolo affidatogli da Verdi con perizia tecnica e eroicità di accenti, sfoggiando una gamma omogenea tra i registri, nonché un canto sempre morbido, sul fiato, sorretto da una dizione più che chiara e intellegibile che gli ha consentito di fraseggiare perfettamente nella cavatina Ah, si ben dite-Tutto parea sorridere-Si, dè corsari il fulmine. Ci si augura di sentir parlare ancora tanto di lui e di ascoltarlo in altri ruoli come quelli di Manrico o Otello.
Duole invece constatare come in parte deluda la Gulnara del soprano Salome Jicia. Se dalla sua possiede un indubbio temperamento, cifra caratterizzante l’indomita schiava del pascià Seid, qualche problema tecnico si registra nella sua prova. Il ruolo di Gulnara è stato pensato per l’eclettica e leggendaria vocalità di soprano drammatico di agilità, non certo nuova al compositore emiliano, si pensi ad Abigaille, a Odabella, a cui Gulnara tanto rassomiglia, alla Lady Macbeth, ad Elvira di Ernani o ad Alzira. La Jicia affronta il temibile ruolo con grinta, presenza vocale, ma sceglie di delineare il suo personaggio con aggressività, a sfavore di una linea di canto più intimistica e sognante, come pure avrebbe potuto fare nel cantabile della sua cavatina, Vola talor dal carcere. Sfortunatamente al soprano non arride il colore, non tra i più affascinanti e vellutati. A ciò si aggiunga qualche inconsistente filato, e la posizione bassa del suono che la fa ricorrere al costante uso della gola. Il registro acuto è al limite dello strillo e la linea di canto le difetta del legato auspicabile nel dolce cantabile, parte del quale è stato eseguito dalla Jicia distesa a terra. Forse anche a causa di questa difficile posizione, un’evidente stecca lo ha concluso. Nel corso dell’opera i momenti di cedimento sono sembrati non cessare. Forse a causa della tensione dovuta alla prima, forse per via delle difficoltà tecniche di cui sopra, il soprano ha tentato il la bemolle tenuto, al termine del concertato finale dell’atto secondo, ma l’acuto è stato solo toccato. La sua prova dunque convince, tra l’altro solo in parte, solo dal punto di vista interpretativo.
La Medora di Guanqun Yu, di contro, supera ampiamente la prova. Il soprano è dotato di un mezzo diamantino, puro e limpido. La vocalità è luminosa, porta con bel fraseggio, la sua è una Medora dolce e innocente, amante e, nel tragico finale, dolente. Pur nel suo breve ruolo, il soprano delinea ogni inclinazione della turbata eroina romantica che si sacrifica per amore, ignara del favorevole destino del suo Corrado. La voce in suo possesso è ben proiettata in sala.
Vladimir Stoyanov dà vita ad un Seid appassionato, intimamente innamorato della sua Gulnara, ma pur pronto a vendicarsi. L’artista è in possesso di una ricca e imponente vocalità da baritono verdiano, la bellezza del fraseggio, il colore bronzeo e l’importanza del suo volume ricordano il nobile canto di baritoni che hanno segnato la storia del melodramma. Nella sua aria Cento leggiadre vergini il baritono, già di collaudata consuetudine col repertorio verdiano, ha raggiunto l’acme della grandezza. La sua imponente voce ha avvolto con morbidezza la sala, il suo brunito canto, perfettamente immascherato, si è librato in tutta la sua bellezza e verdiana potenza, per poi dar prova del vigoroso squillo guerriero nella cabaletta S’avvicina il tuo momento. Un grande artista Vladimir Stoyanov che già si è avuto modo di apprezzare in altre occasioni.
Molto bravi e presenti i personaggi di contorno quali Selimo impersonato da Mauro Secci, Giovanni da Emanuele Cordaro e un eunuco, interpretato da Tommaso Nicolosi.
Dopo un breve periodo di assestamento per via dell’assenza del maestro Fabrizio Cassi , il coro del teatro Petruzzelli torna ai suoi recenti fasti sotto la guida di Marco Medved. Ogni sezione ha brillato per lucentezza e luminosità di suono. Insieme sono di grande effetto per imponenza e nitore di squillo.
Il pubblico che ha riempito il teatro quasi in ogni ordine di posti, ha tributato alla serata un convinto successo.