Una ventata di freschezza rossiniana al Teatro Coccia di Novara con “Il Turco in Italia”, complice il frizzante allestimento affidato a Roberto Catalano nell’ampia e felice coproduzione tra i teatri di Rovigo, Ravenna, Jesi, Rimini e Pisa. L’ambientazione esplicitamente anni Sessanta ha il sapore pop di una pubblicità patinata dell’epoca, perfettamente resa dalle scene iper-sature di Guido Buganza che si fanno tutt’uno con gli sgargianti costumi in linea con la moda dell’epoca disegnati da Ilaria Ariemme, sulle prevalenti tonalità di gialli e blu accesi. I protagonisti sono immersi in una bolla di apparenze e vacuità, all’insegna del consumismo compulsivo: Fiorilla in primis dà evidenza della sua ossessione nel possedere ciò che non ha, ricercando senza soluzione di continuità ciò che ancora non è suo ma che sa bene di poter ottenere con estrema facilità. Una lettura laterale che ben si intreccia ed esalta le tematiche infuse nel libretto e nella stessa partitura, trasudante ad un ascolto superficiale quella ben nota spensieratezza rossiniana che tuttavia sempre nasconde profondi tormenti interiori. Emblematico il finale in cui Fiorilla stessa si spoglia di ogni bene e si rimette in contatto con il proprio Io sfogando un vuoto esistenziale troppo a lungo nascosto da tanti “vani ornamenti”, in una sorta di liberazione catartica tanto concreta quanto emotiva.
Brillante la concertazione di Hossein Pishkar, alla guida dell’Orchestra Luigi Cherubini. Il taglio musicale del giovane direttore iraniano è brioso e vivace: se pecca talvolta di un’esuberanza sonora che rischia di sovrastare le voci nel volume, trasmette comunque in generale una resa piacevolmente energica e dinamica. Non si trascurano nemmeno le parentesi più intime, riuscendo a valorizzare al meglio i repentini cambi di atmosfera previsti dalla scrittura del genio pesarese.
Nel cast vocale spicca su tutte la performance di Giulio Mastrototaro nel ruolo di Don Geronio: con voce solida e di bella pasta, il baritono trentino riesce a dar spessore a un personaggio troppo spesso considerato secondario, sottolineandone le sfumature umane che vanno oltre la semplice e goffa comicità.
Elena Galitskaya dà voce ed efficace forma scenica ad una capricciosissima Fiorilla, sebbene dia il meglio nelle sfumature più drammatiche del personaggio che emergono nell’ultimo atto. Il soprano russo si disimpegna efficacemente nelle agilità che ne connotano il lato frivolo e spensierato, ma colpisce maggiormente lo spessore timbrico e drammatico nel restituire le pagine più introspettive con ampio impiego di sfumature e raffinatezza nel legato.
Si conferma mattatore d’esperienza Simone Alberghini – sostituto di Nahuel Di Pierro – con un Selim vigoroso ed ironico. La voce sembra aver perso un po’ di smalto, ma il sapiente fraseggio unito al talento attoriale garantiscono una resa del principe turco più che dignitosa.
Più in ombra scenicamente il Prosdocimo di Daniele Terenzi, anche se molto ben cantato con varietà d’accenti e costante pulizia d’emissione.
Fuori fuoco Francisco Brito nei panni di Don Narciso, spesso in affanno nelle agilità e nella gestione del fiato. Eccellente, al contrario, la Zaida di Paola Gardina che si riconferma una certezza quanto a qualità vocali e presenza scenica, brillando di luce propria anche in un ruolo spesso considerato marginale.
Complessivamente buona la prova del coro preparato da Alberto Pelosin, salvo qualche scollamento con buca e solisti in alcuni interventi.
Al calare del sipario caloroso successo per tutti i protagonisti, con una platea non gremita seppur popolata anche da giovanissimi spettatori che sembrano aver ampiamente apprezzato una produzione di stampo non tradizionale, ma rivisitata con coerenza, intelligenza e brio.