La nuova edizione 2024/25 del ciclo Universo Barroco, organizzata dal Centro Nacional de Difusión Musical (CNDM), si è aperta con una piacevolissima scoperta, l’annunciata prima moderna (sebbene dal 2016 alcune arie siano già state eseguite in concerto) de La cautela en la amistad y robo de las sabinas (La cautela nell’amicizia e rapimento delle sabine), l’unica opera in spagnolo conosciuta di Corselli, proposta in versione da concerto. L’opera fu rappresentata per la prima volta nel 1735 al Teatro de los Caños del Peral, originariamente situato nei pressi di quello che oggi conosciamo come il Teatro Real, e dedicata alla figlia del re Filippo V. La rappresentazione riunì le due compagnie teatrali di attrici comiche più importanti di Madrid. Vale la pena ricordare ai lettori italiani che all’epoca zarzuelas e opere in spagnolo venivano interpretate esclusivamente da donne, “attrici-cantanti”, ovvero attrici con qualche nozione di canto, alcune più esperte di altre nell’arte vocale.
Solitamente noto come Francesco Corselli – italiano di nascita – o Courcelle – di origini francesi –, chi scrive queste righe propone, in accordo con i criteri della nuova musicologia spagnola, di adottare la forma castiglianizzata Francisco Corselli, dato che visse in Spagna per la maggior parte della sua vita, dal 1733 fino alla morte nel 1778. Sfortunatamente, Corselli non si dedicò molto al genere operistico, poiché la maggior parte della sua produzione è legata alla musica liturgica, frutto del suo ruolo come maestro di cappella a Madrid. Tuttavia, le sue sporadiche incursioni nel genere operistico costituiscono, come la sua musica religiosa, un preziosissimo tesoro per il patrimonio musicale spagnolo. Con questo Robo de las sabinas si conferma la buona impressione lasciata dal suo Achille in Sciro (1744), messo in scena nel 2023 al Teatro Real di Madrid. In questo caso, Corselli si adatta alle usanze della tradizione teatrale spagnola, sia nella struttura (due atti invece dei tre dell’opera italiana) sia nella trama. Il risultato è una successione di lunghissime arie da capo, ripetitive ma di grande bellezza, con melodie suggestive e accattivanti e un’orchestrazione davvero originale. Non si può dire lo stesso del pessimo libretto di Juan de Agramont y Toledo (nato nel 1703 e non nel 1701, come affermato nel programma, come scoperto dai ricercatori di Ars Hispana), che distorce il mito del ratto delle sabine, relegato in secondo piano, per concentrarsi sui vacui galanti e sui triangoli amorosi tra romani, sabine e personaggi comici, senza nemmeno il consueto confronto dialettico tra potere o onore e amore, frequente nei testi teatrali spagnoli dell’epoca. Almeno, non è stata prevista, come in precedenti produzioni del ciclo, l’inopportuna presenza di fastidiosi narratori che, invece di aiutare il pubblico a comprendere la trama intricata, finiscono per ingarbugliarla ulteriormente.
Inizialmente, la partitura del Robo de las sabinas si credeva perduta, poiché il gruppo di tredici arie a solo dell’opera custodito nel Palazzo di Liria fu distrutto dalle fiamme durante il bombardamento subito dal palazzo nel 1936, durante la Guerra Civile spagnola. Fortunatamente, nel 2015 fu scoperta una partitura dell’opera completa nel Santuario di Santa María de Lluc (Maiorca), per puro caso, dai musicologi Raúl Angulo e Toni Pons, membri della già citata Associazione Ars Hispana. Tra le particolarità del manoscritto, questo non include le parti di viola e di tromba/corno secondo. A questo ritrovamento si aggiunse quello di quattro arie nella Cattedrale Metropolitana di Santiago di Guatemala, che includeva le parti mancanti. Basandosi su queste e altre fonti letterarie e documenti, e dopo anni di ricerche e studi approfonditi, Angulo e Pons hanno dato vita alla prima edizione critica dell’opera, pubblicata a giugno di quest’anno, che fornisce, tra l’altro, preziose informazioni fino ad allora sconosciute sulle attrici che interpretarono l’opera alla prima rappresentazione.
Per questa occasione speciale è stato scelto il talento promettente, giovanissimo e poliedrico del direttore, controtenore e clavicembalista galiziano Alberto Miguélez Rouco, artista residente per la stagione in corso del CNDM, che ha presentato la propria edizione della partitura. Ha collaborato anche il gruppo di strumenti storici Los Elementos, i cui membri sono stati tutti formati alla prestigiosa Schola Cantorum di Basilea, centro di assoluto riferimento per l’interpretazione storicistica. In generale, il loro lavoro è stato ispirato, con l’inevitabile aggiunta di qualche decorazione fantasiosa ma d’effetto – il solo per arciliuto a metà del primo movimento dell’ouverture, o il divertente balletto prima del recitativo “Dejé al rey en la fiesta”, che ha suscitato una risata del pubblico –, ma sempre rispettoso dello stile. Nelle prime arie si è sentita la mancanza di maggiore energia e contrasti, penalizzate dalla ridotta sezione d’archi (non c’era traccia delle viole che Miguélez Rouco afferma di aver ricostruito), e i tempi sono stati, forse, un po’ lenti. Tuttavia, man mano che proseguiva la serata, un Miguélez Rouco più passionale nei gesti che tecnico appariva sempre più a suo agio, soprattutto negli interventi dei personaggi comici, arrivando persino a suonare – suo tratto distintivo – le nacchere. Durante la conferenza prima della rappresentazione, ha raccontato come aneddoto di aver dovuto imparare da autodidatta a suonare le nacchere, poiché non conosceva nessuno a Basilea che suonasse lo strumento. Anche il lavoro sui recitativi, da parte sia dell’orchestra che dei cantanti, è stato estremamente meticoloso e creativo, un vero esercizio di retorica musicale, sempre al servizio del testo. Questo ha portato a simpatici riferimenti, come l’aria “El bajel que no recela” della zarzuela barocca Vendado es amor, no es ciego di José de Nebra – registrata nel 2019 da Miguélez Rouco e Los Elementos – nel primo recitativo del secondo atto, o alla marcia nuziale di Wagner, nel recitativo “Vamos a mi palacio”. Come ha spiegato Miguélez Rouco, si è cercato di riprodurre lo stile dei recitativi delle cantate di Corselli, che anche lui ha cantato e registrato, col violoncello ornamentato.
Un’altra parte importante di questo successo è merito della grande professionalità dei musicisti della Schola Cantorum Basiliensis, un vero piacere per l’udito e infallibili in questo repertorio. Eccellente il continuo, e precisa la sezione degli archi, composta da appena sette violini, sotto la guida del concertino Claudio Rado; altrettanto brillanti i legni, che hanno dato colore ad alcune arie originariamente scritte solo per archi. Da menzionare anche gli ottoni naturali e le percussioni, splendidi nell’“aria dei combattenti”, una pagina strumentale del secondo atto.
Per quanto riguarda le voci, il CNDM ha riunito, come di consueto, cantanti molto abituati a riscoprire pagine barocche spagnole, ma con voci di modesto volume, non proprio adatte alla sala sinfonica dell’Auditorio Nacional. È il caso del mezzosoprano francese Natalie Pérez, una presenza abituale del ciclo e di altre riproposte di Miguélez Rouco, che ha interpretato qui Romolo, un ruolo originariamente pensato per l’attrice Francisca de Castro, la più esperta nel canto tra le attrici convocate per la prima del 1735. Nonostante non sia una voce potente, è calda e ricca, e la sua musicalità è indiscutibile. La sua dizione castigliana non è stata straordinaria, ma migliore rispetto alla sua interpretazione nell’aprile di quest’anno nella riproposizione de Las amazonas de España (1720) di Jaime Facco. Più fredda (sebbene corretta) nella sua aria d’ingresso “Por más que el jilguerillo”, Pérez ha offerto una lettura vibrante della hit assoluta del primo atto, “Aparta, señora”, e si è mostrata sicura nei severi acuti della marziale pagina del secondo atto “Victoria y estrella”. Merita lode anche il coraggioso intervento del mezzosoprano Lucía Caihuela, nel ruolo di Camilo, in sostituzione d’urgenza di Carol García. Dotata di un timbro molto personale, scuro e con un ricco registro centrale, ha saputo affrontare con disinvoltura le sue due arie, distinguendosi soprattutto nella simpatica “Aquella barquilla”.
Il livello dei soprani è stato, allo stesso modo, molto convincente. Jone Martínez, nel ruolo del vendicativo Tazio, ha dato prova del suo bellissimo e ormai ben noto strumento. Sebbene sarebbe stato auspicabile un approccio più incisivo nella sua aria di bravura “Cristal detenido”, ha saputo affrontare con successo tanto le agilità della suddetta aria quanto gli acuti di “Yo estimo, yo admito”. Ugualmente nota al pubblico amante della musica storica è la veterana María Espada, un’Elicia dalla voce lirica e possente, che non mostra quasi segni del inesorabile passare del tempo, oltre a possedere una grande presenza scenica. Da sottolineare la sua esecuzione della bella aria – se mi si passa la ridondanza – “Copia bella”. Ma la grande rivelazione vocale della serata è stata la soprano italiana Carlotta Colombo nel ruolo della sabina Eresilea (in sostituzione di Alicia Amo, una presenza consueta in questo repertorio), a cominciare dalla sua eccellente pronuncia, talmente perfetta che nessuno, senza aver letto il programma, direbbe che non è spagnola. Colombo, come le sue colleghe, è dotata di un timbro delicato, melodioso e particolarmente affascinante, qualità che ha dimostrato nella sua melanconica ma contrastante aria “Casar obligada” e nell’aria finale “¡Gracias, Neptuno!”, un eccellente epilogo per una serata eccezionale.
Infine, ma non meno importante, bisogna sottolineare il lavoro della coppia di comici, Julieta e Pastelón. La soprano valenciana Aurora Peña, pura disinvoltura, con voce brillante e una spiccata abilità nel far sorridere il pubblico, è una garanzia in questo tipo di ruoli, come già dimostrato nelle edizioni precedenti del ciclo Universo Barroco (Coronis di Sebastián Durón nel 2019, Vendado es amor, no es ciego di José de Nebra nel 2022). Anche questa volta si è distinta nel suo triplo ruolo di Julieta (comica) – magistrale in “Casaca, paseo” –, Esclavonio (sabina) e Justino (romano). Nel manoscritto di Lluc, quest’ultimo personaggio, senza arie, viene soppresso insieme ai personaggi comici Garrapata e Apolina, figure secondarie senza alcun peso o rilevanza nella trama, se non per aggiungere un ulteriore triangolo amoroso; però, si è scelto di mantenere la sua partecipazione nei brani corali. Lo stesso si può dire di Judit Subirana, mezzosoprano residente a Basilea, che ha conquistato il pubblico con la sua esilarante interpretazione dell’aria “Casarse, ¡ay, qué gusto!” e del duetto con Peña “Un niño es fortuna”, confermando così il successo ottenuto nella sua partecipazione a Donde hay violencia no hay culpa, zarzuela di José de Nebra, messa in scena al Teatro de la Zarzuela nel 2023, anche questa diretta da Miguélez Rouco.
Ci saranno altre occasioni per rivedere questa gemma nascosta sul palcoscenico, magari addirittura come merita, con una messa in scena? Solo il tempo lo dirà, anche se è bene non essere troppo ottimisti, perché ricordiamo che, se la nostra amata Spagna si distingue per qualcosa, è per il disprezzo e l’ignoranza nei confronti del suo vasto patrimonio musicale. Basti pensare alla nuova stagione del CNDM, in cui questo repertorio è, se possibile, ancora più residuale rispetto alla stagione precedente, mentre Vivaldi continua a dominare la programmazione. Insomma… questa è la vita.
La nueva edición 2024/25 del ciclo Universo Barroco, organizado por el Centro Nacional de Difusión Musical (CNDM), se inauguraba con un gratísimo descubrimiento, el anunciado como estreno en tiempos modernos (si bien desde 2016 ya se han venido interpretando en concierto algunas de sus arias) de La cautela en la amistad y robo de las sabinas, la única ópera en español conocida de Corselli, en versión de concierto. Estrenada en 1735 en el Teatro de los Caños del Peral, originalmente situado en los aledaños de lo que hoy conocemos como Teatro Real, y dedicada a la hija del rey Felipe V, reunió para su representación a las dos compañías teatrales de cómicas más importantes de Madrid. Cabe recordar que en esta época las zarzuelas y óperas en español eran interpretadas únicamente por mujeres, «actrices-cantantes»; esto es, actrices con ciertas nociones en el canto, algunas más curtidas que otras en el arte canoro.
Habitualmente denominado como Francesco Corselli –italiano de nacimiento– o Courcelle –francés de origen–, quien escribe estas líneas aboga, en consonancia con el criterio de la nueva musicología española, por adoptar la forma castellanizada Francisco Corselli, dado que residió en España la mayor parte de su vida, desde 1733 hasta su muerte en 1778. Lamentablemente, Corselli no frecuentó demasiado el género operístico, pues el grueso de su producción tiene que ver con lo litúrgico, fruto de su ejercicio como maestro de capilla en Madrid. Sin embargo, sus puntuales incursiones operísticas constituyen, al igual que su música religiosa, un valiosísimo tesoro para el patrimonio musical español. Se confirma así con este Robo de las sabinas la buena sensación dejada por su Achille in Sciro (1744), puesto en escena en 2023 en el Teatro Real de Madrid. En este caso, Corselli se adapta a los usos de la tradición teatral española, tanto en estructura (dos actos en lugar de los tres de la ópera italiana) como trama. El resultado es una sucesión de larguísimas –por lo reiterativo– arias da capo, pero de gran belleza, con melodías sugestivas y pegadizas y original orquestación. No se puede decir lo mismo del terrible –malo con avaricia– libreto de Juan de Agramont y Toledo (nacido en 1703, y no en 1701 como reza el programa de mano, tal como han descubierto los investigadores de Ars Hispana), quien deforma hasta el extremo el mito del rapto de las sabinas, trasladado a un muy segundo plano, para centrarse en los vacuos galanteos y triángulos amorosos entre romanos y sabinas y graciosos, sin rastro siquiera de la habitual dialéctica entre poder u honor versus amor, recurso frecuentado en los textos teatrales españoles de la época. Al menos no se contó, como en producciones anteriores del ciclo, con la inoportuna intervención de fastidiosos narradores que, más que facilitar al público en la compresión de la farragosa trama, terminan por «enfarragarla» aún más.
En un principio, la partitura del Robo de las sabinas se creía perdida, pues el conjunto de trece arias a solo de la ópera albergado en el Palacio de Liria era presa de las llamas, consecuencia del bombardeo que sufriría dicho palacio en 1936 durante la Guerra Civil española. Afortunadamente, en 2015 sería descubierta una partitura de la ópera completa en el Santuario de Santa María de Lluc (Mallorca), fruto de la casualidad, por los musicólogos Raúl Angulo y Toni Pons, miembros de la anteriormente citada Asociación Ars Hispana. Entre otras particularidades del manuscrito, este no incluye las partes de viola y trompeta/trompa segunda. A este hallazgo se sumaría el de cuatro arias en la Catedral Metropolitana de Santiago de Guatemala, aquí con las partes faltantes. Basándose en estas y otras fuentes literarias y documentos, y tras una exhaustiva investigación y años de trabajo, Angulo y Pons darían a luz la primera edición crítica de la obra, publicada en junio de este mismo año, y que proporciona, entre otros, valiosa información hasta entonces desconocida sobre las actrices que interpretaron la obra en su estreno.
Para tan especial ocasión se ha contado con el buen hacer del incipiente, jovencísimo y polifacético director, contratenor y clavecinista gallego Alberto Miguélez Rouco, artista residente de la presente temporada del CNDM, quien ha presentado su propia edición de la partitura; así como del grupo de instrumentos históricos Los Elementos, con todos sus miembros formados en la prestigiosa Schola Cantorum de Basilea, centro de absoluta referencia en cuanto a la interpretación historicista se refiere. En líneas generales, su labor ha sido inspirada, con la inevitable inclusión de algunas morcillas de más de fantasiosas pero efectistas –el solo para archilaúd en medio del primer movimiento de la obertura, o el sandunguero bailete anterior al recitativo “Dejé al rey en la fiesta”, que despertó la carcajada del público–, mas siempre en estilo. En las primeras arias se echó en falta más energía y contrastes, viéndose penalizadas por la mermada sección de cuerda –ni rastro de las violas que Miguélez Rouco dice haber reconstruido–, y los tempi fueron, quizás, algo plomizos. No obstante, a medida que transcurría la velada, un Miguélez Rouco de gestualidad más pasional que técnica se mostraba cada vez más en su salsa, sobre todo en las intervenciones de los graciosos, arrancándose incluso –su sello distintivo– con las castañuelas. Según contaba a modo de anécdota en la conferencia previa a la representación, tuvo que aprender por su cuenta a tocar las castañuelas, dado que no conocía a nadie en Basilea que tocase el instrumento. Asimismo, el trabajo en los recitativos, tanto por parte de orquesta como cantantes, fue extremadamente meticuloso e imaginativo, todo un ejercicio de retórica musical, siempre al servicio de la palabra. Esto resultó en simpáticas referencias, por ejemplo, al aria “El bajel que no recela”, de la zarzuela barroca de José de Nebra Vendado es amor, no es ciego –grabada en 2019 por Miguélez Rouco y Los Elementos–, en el primer recitado del segundo acto, o a la marcha nupcial de Wagner, en el recitado “Vamos a mi palacio”. Según afirmó Miguélez Rouco, se ha intentado reproducir el estilo de recitativo de las cantadas de Corselli, que también él mismo ha cantado y grabado, y su violonchelo ornamentado.
No obstante, otra parte importantísima de este triunfo se debe a la gran profesionalidad de los músicos de la Schola Cantorum Basiliensis, todo un deleite al oído, infalibles en este repertorio. Excelente el continuo, y aseada la sección de cuerda, compuesta por unos escasos siete violines, bajo el liderazgo de su concertino Claudio Rado; ídem las maderas, que aportaron color a algunas arias originalmente escritas solamente para cuerdas. Especial mención a los poderosos metales naturales y la percusión, brillantes en el “aria de combatientes”, página instrumental del segundo acto.
En lo que atañe al apartado vocal, el CNDM ha reunido, como viene siendo costumbre, a cantantes muy familiarizadas con estas exhumaciones de páginas barrocas españolas, pero voces pequeñas poco aptas para un recinto de las dimensiones de la sala sinfónica del Auditorio Nacional. Este es el caso de la mezzosoprano francesa Natalie Pérez, habitual tanto del ciclo como en otras recuperaciones efectuadas por Miguélez Rouco, y encarnando aquí a Rómulo, papel ideado para la actriz Francisca de Castro, la más avezada en el canto de las actrices convocadas para el estreno de 1735. No es una voz poderosa, pero sí carnosa, y su musicalidad es indudable. Su dicción castellana no fue extraordinaria, aunque superior respecto a su intervención en abril de este mismo año en el reestreno de Las amazonas de España (1720), de Jaime Facco. Más fría –aunque correcta– en su aria de entrada “Por más que el jilguerillo”, Pérez ofreció una vibrante lectura del hit absoluto del primer acto, “Aparta, señora”, y se mostró segura en los inclementes agudos de la marcial página del segundo acto “Victoria y estrella”. Cabe loar también la valiente intervención de la también mezzo Lucía Caihuela como el romano Camilo, sustituta in extremis de la originalmente prevista Carol García. Dotada de un timbre personalísimo, muy peculiar y oscuro y de rico registro central, supo sacar adelante con solvencia sus dos arias, sobresaliendo en la simpática “Aquella barquilla”.
El nivel en la cuerda sopranil fue, igualmente, muy convincente. Jone Martínez, como el vengativo Tacio, hizo gala de su bellísimo y ya de sobra conocido instrumento. Si bien hubiera sido deseable una mayor incisividad en su aria de bravura “Cristal detenido”, supo superar con nota tanto las agilidades de la citada aria como los agudos de “Yo estimo, yo admito”. Igual de conocida por el público aficionado de las músicas históricas es la veterana María Espada, una Elicia de voz lírica y poderosa y sin casi síntomas del inexorable del paso del tiempo, así como de gran presencia escénica. A destacar su rendición de la bella aria –valga la redundancia– “Copia bella”. Pero la gran revelación vocal de la noche vino de manos de la soprano italiana Carlotta Colombo como la sabina Eresilea (en sustitución de Alicia Amo, soprano harto recurrente en estos menesteres), empezando por su excelente pronunciación, tanto que nadie que no hubiera leído el programa de mano diría que no es española. Como sus compañeras de cuerda, Colombo, caracterizada por lo expresivo de su lectura, es poseedora un timbre grácil, canoro y especialmente cautivador, tal como demostró en su melancólica a la par que contrastante aria “Casar obligada” o en el aria final “¡Gracias, Neptuno!”, excelente epílogo para una función excepcional.
Por último, pero no menos importante, es necesario destacar la labor de la pareja de graciosos, Julieta y Pastelón. La soprano valenciana Aurora Peña, desparpajo puro, de brillante voz y toda una experta en sacar una sonrisa al respetable, es siempre una garantía en este tipo de papeles, tal como ha demostrado en ediciones anteriores del ciclo Universo barroco (Coronis, de Sebastián Durón, en 2019; Vendado es amor, no es ciego, de José de Nebra, en 2022), y como ha vuelto a demostrar en esta ocasión en su triple cometido como Julieta (graciosa) –magistral “Casaca, paseo”–, Esclavonio (sabino) y Justino (romano). En el manuscrito de Lluc, este último personaje, sin arias, es suprimido junto con los graciosos Garrapata y Apolina, secundarios sin ningún peso o importancia en la trama más que añadir un nuevo triángulo amoroso; no obstante, se ha decidido incluir su intervención en los números corales. Exactamente lo mismo se podría decir de Judit Subirana, mezzosoprano asentada en Basilea, quien se metió al público en el bolsillo con su hilarante interpretación del aria “Casarse, ¡ay, qué gusto!” y del dúo, junto con Peña, “Un niño es fortuna”, revalidando así el triunfo cosechado en su participación en Donde hay violencia no hay culpa, zarzuela de José de Nebra subida a las tablas del Teatro de la Zarzuela en 2023, también bajo las órdenes de Miguélez Rouco.
¿Habrá más oportunidades de volver a ver sobre los escenarios esta gema oculta, incluso, como se merece, escenificada? El tiempo lo dirá, aunque lo propio es no pecar de optimistas, pues recordemos que, si por algo se caracteriza nuestra querida España, es por el desprecio e ignorancia para con su vasto patrimonio musical. Sirva de ejemplo la nueva temporada del CNDM, en la que este repertorio es, aún si cabe, más residual que en la temporada precedente, mientras Vivaldi sigue colmando la programación. En fin… así es la vida.