Inaugurazione della stagione 2024-2025 al Teatro Verdi di Trieste con una proposta operistica d’effetto sicuro ma con la sfida d’aggiungere qualcosa alle vicende di Violetta Valery in quella che quest’anno è stata la partitura più eseguita nel mondo. A fine ottobre, al Teatro Regio di Torino, il regista Arnaud Bernard ha concluso con successo il difficile compito di mettere in scena una triplette di Manon (di Daniel Auber, Jules Massenet e Giacomo Puccini) in tre sere consecutive e trasmesse in diretta da Rai5. Questa sua Traviata è identica a quella mandata in scena nell’aprile 2014 per la Korea National Opera e poi ripresa nel dicembre 2021, sempre all’Arts Center di Seoul. Un allestimento quindi ben meditato da parte del regista e rodato nel tempo che i laboratori artigianali del teatro triestino hanno riprodotto in tutta la sua potente qualità visiva. Per tutti gli atti, infatti, la scena realizzata da Alessandro Camera è un grande contenitore chiuso dalle altissime pareti color antracite e dallo specchiante pavimento nero. Strette porte a battente si schiudono per le entrate e uscite dei cantanti e del coro facendo irrompere improvvise lame di luce come in uno spazio ferito e claustrofobico, dove i destini dei protagonisti sembrano già ineluttabilmente segnati fin dall’inizio. All’interno, qualche significativo accessorio d’arredamento: sedie e un tavolo d’un biancore abbacinante sistemato in modo obliquo nel primo atto; una chaise-longue su un tappeto di foglie scarlatte cadute nella prima scena del secondo; un funereo total black di mobili nella festa delle zingare indovine e dei toreri; nell’atto finale, una poltrona naufragata in un ambiente in abbandono con tappeti arrotolati e sedie lasciate a terra, un vuoto ancor più raggelato dalla neve che cade. In questo spazio conchiuso agiscono i protagonisti e la scelta registica materializza una Parigi anni ’50, come nelle fotografie haute couture scattate da Cecil Beaton per la rivista Vogue, ma con un’atmosfera da sontuoso quanto funereo appartamento di mantenuta d’alto bordo nelle scene del ricevimento chez Violetta Valery e poi in quello di Flora Bervois. Merito soprattutto dei bellissimi costumi di Carla Ricotti, veri e propri abiti da sera in puro taglio sartoriale Christian Dior per la protagonista, per l’amica, per le coriste: bustino stretto che valorizza il seno, gonna ampia a corolla, guanti lunghi. Questi dettagli hanno grande importanza, come per gli eleganti smoking degli uomini, perché per questa Traviata Arnaud Bernard fornisce una lettura scenica che ha come perno il rapporto tra denaro e donna-oggetto, percepita come bersaglio indistinto del desiderio sessuale maschile. È la stessa partitura verdiana che sottende quest’interpretazione registica, anche se spesso si tende a mettere in secondo piano quest’aspetto: Violetta è una prostituta d’alto rango, oggi diremmo un’escort di lusso, bella e accessibile a chi paga meglio come il suo ultimo amante, il Barone Douphol. Denaro e soddisfacimento del desiderio che si palesa materialmente nelle banconote che Alfredo le sbatte in faccia: quello che doveva essere un grande amore trasparente e disinteressato viene trasformato in mero commercio di corpi. Una società patriarcale e perbenista come l’opprimente cubo nero che contiene le scene, non soltanto nella rigida figura borghese di capofamiglia d’estrema provincia come Giorgio Germont, ma nei rapporti che cantanti e coristi hanno con le donne sul palcoscenico: strattonate e vilipese come durante le due feste ad alto tasso alcolico, con molti cinematografici frame-stop scenici che hanno un qualcosa d’orrorifico e con la partecipazione danzante di ragazzi travestiti che sembrano scappati fuori da una triste Folies Bergère di piume di struzzo e paillette, come un amaro ricordo del finale della felliniana Dolce Vita.
Notevolissima la direzione di Enrico Calesso, una partitura che il maestro ben conosce avendola affrontata molte volte, dalla prima del 2013 al Mainfranken Theater di Würzburg. Alla prima rappresentazione si sono evidenziati tempi forse troppo rallentati nel primo atto ma, nella matinée del giorno successivo, è riapparso il necessario vigore dimostrato nelle precedenti esecuzioni dell’opera. Con evidenza, ogni nuova edizione della Traviata gli sollecita nuove riflessioni musicali e in questo l’orchestra e il coro del Teatro Verdi sono riusciti a seguirlo egregiamente. Ad esempio, nel preludio e nel tema musicale “Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero” che segue la trasformazione di Violetta. All’inizio il direttore evidenzia la seduttiva brillantezza orchestrale dell’amour fou nelle note appassionate d’Alfredo, poi insinua irresistibilmente questo tema nel canto trepidante di Violetta che scioglie poco a poco la sua incapacità d’amare; lo fa poi riappare nell’atto conclusivo affidandolo ad un emozionante pianissimo di due violini, ma questa volta è soltanto un eco disilluso e lontano, un mesto dissolversi dei ricordi nella consapevolezza dell’imminente morte. Ancora, l’orchestrazione del direttore Calesso approfondisce con efficacia la “musica da festa”: nel primo atto sottolinea il clima avvolgente del valzer nel brindisi, del duetto e del “Sempre libera” come flagrante evidenza d’una rigida separazione di classi sociali nella vita pubblica e, per contro, la sua trasformazione in un’intima mescolanza che la danza e tutto quello che dopo prosegue possono permettere nei luoghi appartati del divertimento prezzolato. Solo alla fine della festa in casa di Flora riappaiono musiche da festa, ma nevrotizzate e dal sapore funesto come nella scena del gioco delle carte, interrotte da inserti di forte patetismo come nel “Che fia?.. morir mi sento!” della protagonista o nell’intervento di duro rimprovero di Giorgio Germont, fino a scomparire nel grande concertato finale dell’ ”Alfredo, Alfredo, di questo core”. Nell’ultimo atto, le danze sono quelle dei festanti del Carnevale e irrompono dall’esterno della casa della derelitta Violetta come un eco lontano, mesto ricordo della passata vita mondana e del perduto splendore di giovane donna. In questo senso, dal celeberrimo debutto-fiasco del 1853 alla Fenice fino alle rappresentazioni contemporanee, l’arduo personaggio della Violetta verdiana, alias la vera demi-mondaine Alphonsine Marie Duplessis della Parigi di metà Ottocento, alias Marguerite Gautier romanzata da Alexander Dumas figlio, ha avuto interpreti in un raggio d’azione vocale e interpretativo che va dall’inarrivabile sublime al tombalmente dimenticabile. Si sa, il ruolo sopranile è d’estrema complessità per la progressiva trasformazione fisica e psicologica del personaggio: votato alla leggerezza della disincantata cortigiana e padrona di casa che sa il fatto suo nel primo atto, alla tensione lirica d’una donna molto innamorata che decide il sacrificio dell’amore nei due quadri del secondo atto, alla drammatica terribilità della morte imminente nel terzo atto. E, ancora, s’aggiungono le infinite possibilità d’interpretazione che questa immenso capolavoro suggerisce alla cantante: La Traviata è una delle opere in cui più si riesce a percepire che è soprattutto il canto che mette in scena, tutto è già presente in partitura, nella parola che facendosi musica sa restituire l’intensità multiforme del personaggio (imperativo musicale che il regista Arnaud Bernard sa rispettare ma che molti suoi colleghi spesso non riescono a comprendere).
Il soprano Maria Grazia Schiavo in questo ruolo si contraddistingue per il preciso fraseggio: ogni parola viene cesellata nell’efficace modalità di chi ha saputo riscoprire i recitativi d’opere meno conosciute di Jommelli, Händel, Mozart per poi diventare una delle più acclamate belcantiste dei palcoscenici italiani. Ha un ammirevole phisique du rôle e una recitazione espressiva e controllata, ma è soprattutto l’interpretazione vocale affinata dalle passate frequentazioni del personaggio della Traviata che oggi le permette, di volta in volta e secondo la sua spiccata sensibilità musicale, di approfondire Violetta nelle sue sfumature. Per fare un esempio, la scena finale del primo atto viene risolta con accettabile bravura facendo risaltare le agilità in modo fiorito e brillante, ben padrona dello scaltrito ruolo ammaliante di chi può darsi a chiunque basta che paghi, studiatamente frivola nel suo “folleggiare” sempre ostentato: “follie, follie!”, “si folleggiava”, “sempre libera degg’io folleggiare di gioia in gioia”, “tutto è follia nel mondo ciò che non è piacer”. Nell’atto conclusivo, il soprano ribalta gli accenti di questo disincantato virtuosismo vocale nella drammatica consapevolezza del suo stato terminale: vorrebbe correre con l’amato in chiesa per ringraziare Dio del suo ritorno ed emette con straordinaria espressività i tre trilli del “…ora son forte vedi?” per riesumare l’immagine della smaliziata donna di mondo d’inizio spettacolo. Tutto inutile, nessuna seduzione di virtuosismo belcantistico potrà salvarla. Perde ogni forza e cade intonando con voce straziata “Gran Dio!..non posso!”. Voce d’eccellenza, dunque, che raggiunge i vertici nelle commoventi mezzevoci in piano del “Dite alla giovane sì bella e pura”, “Alfredo Alfredo, di questo core”, “Addio del passato”.
L’Alfredo di Antonio Poli è frutto di una costante frequentazione del personaggio, non ultima la ripresa all’Opera di Roma nel 2019 nel famoso allestimento della regista Sofia Coppola e i costumi di Valentino. Una voce dall’emissione nitida e dal timbro chiaro, di giovanile freschezza, molto adatta al personaggio di Alfredo. Anche lui buon attore e con un perfetto phisique du rôle, e la riuscita dei personaggi del suo repertorio vocale lo dimostra: Nemorino, Mcduff, il Duca di Mantova, Fenton e anche Don Ottavio, Tito, Tamino, con felici incursioni concertistiche nel Magnificat di Bach, nella Messa in Fa Maggiore di Schubert, nei Requiem verdiano e mozartiano, nello Stabat Mater rossiniano, nella Messe solennelle de Sainte-Cécile di Gounod al Musikverein di Vienna. Solida tecnica e voce omogenea nella linea di canto, non particolarmente potente ma dotata di quello squillo da genuino tenore lirico italiano. Sa inoltre legare i suoni con grande espressività: nel primo incontro emozionato con Violetta sfuma con dolcezza “d’ignoto amor” in “di quell’amor“ come solo un giovane molto innamorato può fare, o in “Parigi, o cara” dove ogni parola si lega all’altra in splendide mezzavoci.
Roberto Frontali è baritono di lungo corso e il personaggio di Giorgio Germont l’ha fatto mirabilmente crescere nei decenni. Ha debuttato nel ruolo al Teatro Verdi di Trieste esattamente trent’anni fa e l’ha eseguito nei più importanti teatri del mondo. Capita di sentire Germont d’arroganza tonitruante, come urlanti spauracchi della Morale colpevolizzante, occhi da cerbero e posture attoriali esagitate. All’opposto, fin dalla domanda d’ingresso “Madamigella Valery?”, Frontali restituisce un personaggio magistralmente tracciato sia dal nitido e autorevole fraseggio ricco di colore e sfumature, sia dal composto atteggiamento scenico di trattenuto disprezzo: proprio per questo fa emergere ancora di più dal punto di vista psicologico la spietata volontà di eliminare per sempre la donna dalla vita del figlio. L’apparente e signorile distacco, il freddo e implacabile contegno del “Pura siccome un angelo”, “Di Provenza il mar, il suol”, “No, non udrai rimproveri” vengono restituiti in un canto che non deborda mai in un’inutile rabbia perché Germont è ben consapevole della forza che ha dentro di sé, quella del pregiudizio d’una società borghese che giudica, accusa e condanna senza appello chi osa trasgredire il suo sistema di valori. Salvo poi emozionare negli ultimi istanti di Violetta morente dove il Germont di Frontali, con accenti di sincero pathos, nel concertato si commuove (finché avrà il ciglio lagrime, io piangerò per te).
Buona resa vocale e notevole presenza scenica per tutti gli altri cantanti: la Flora Bervoix frivola e intrigante di Eleonora Vacchi; l’Annina premurosa di Veronica Prando; il Gastone di Saverio Fiore, amico e complice d’Alfredo; il Dottor Grenvil di Andrea Pellegrini; il Barone Douphol di Francesco Verna; il Marchese d’Obigny di Francesco Auriemma. E Gianluca Sorrentino, Giuseppe Oliveri, Damiano Locatelli rispettivamente nei ruoli di Giuseppe, un domestico di Flora e di un commissionario.