Un effetto scenico molto raffinato senza esagerata sontuosità, i cromatismi degli arredi in bianco e nero dal laccato richiamo decò che si stagliano in un palcoscenico austero per luci ma di grande riuscita prospettica, gli eleganti abiti di un’alta società molle nei costumi di trasgressioni morali private e rigide convenzioni sociali pubbliche.
E’ questo il contesto scenografico scelto da Alessandro Camera in cui si svolge la storia verdiana di Violetta, traviata più volte, dagli uomini, dagli amici, dalla vita. Vittima di una vita che ha cavalcato in salute e che la vede soccombere in malattia senza mai perdere il coraggio e la nobiltà d’animo di rivendicare il rispetto per se stessa.
Questa atmosfera parigina che nell’opera in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave tratta dal dramma di Dumas figlio La Dame aux camèlias tutto esalta, attrae nelle feste, ma anche fagocita e consuma nelle miserie individuali in cerca di riscatto, è ben rappresentata dalla regia di Arnaud Bernard con i costumi di Carla Ricotti.
Il melodramma in produzione con un nuovo allestimento della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste – è denso di allegorie decadenti anche per merito del coro della Fondazione preparato dal Maestro Paolo Longo e l’orchestra è davvero apprezzabile sotto la direzione del Direttore e Concertatore trevigiano Enrico Calesso, il quale dialoga con tutte le sezioni in grande simbiosi musicale con i cantanti, con dettagli sicuri negli attacchi dei violini, dei legni, dell’enfasi nelle danze, rispettando in modo puntuale le voci anche quando la profondità del proscenio ne penalizza l’emissione timbrica.
In questa Parigi esaltata dalla frenetica Joie de vivre dell’ottocento (ma che potrebbe trovare la sua attualità anche nel secolo passato o contemporaneo di una Roma vitellona o di una Milano-da-bere) Violetta Valéry è il soprano Francesca Sassu e Alfredo Germont è il tenore Klodjan Kaçani.
Due giovani voci potenzialmente interessanti con agili guizzi di coloratura, buoni appoggi, ma nel complesso e per passaggi di registro diversi, vocalmente ancora irrisolte e non brillano. La Sassu – per diktat di scena – cade troppo spesso a terra dall’inizio alla fine del melodramma e abbiamo tutti capito che è malata terminale ma forse il catino per i conati polmonari risulta eccessivo portarselo appresso di giorno per casa e anche alla sera di festa. L’ “Addio del passato” è gradevole, espressivo e struggente se pur qualche delicata proiezione d’acuto risulta spezzata.
Kaçani ha buona presenza scenica e buono il fraseggio, non così la tecnica che risulta immatura e di potenza altalenante, più di un acuto appare appoggiato in sforzo. Annina è brava, l’interpretazione di Veronica Prando la rende adeguata al ruolo e merita attenzione anche Eleonora Vacchi in Flora Bervoix . Il cast si completa di Francesco Verna (Barone Douphol), Francesco Auriemma (Marchese D’Obigny) Andrea Pellegrini (Dottor Grenvil) Saverio Fiore (Gastone) Gianluca Sorrentino (Giuseppe) Giovanni Oliveri (domestico) e Damiano Locatelli (un Commissario).
Vere e proprie ovazioni tributate da tanti “bravo!” vengono riservate al baritono Federico Longhi nel ruolo di Giorgio Germont, padre di Alfredo, ed è proprio così. Davvero bravo!
L’interpretazione è fuori dagli schemi retorici di un padre proposto sempre anziano e di una serietà supplichevole. Longhi è altero, plastico nel portamento, cipiglio fermo e schiena dritta di chi avanza richiesta senza indecisa risposta. Evita il contatto fisico cercato da Violetta affinché il sentimento non lo corrompa. I suoi gesti sono lenti, nobili e austeri dapprima e vacilla nel dubbio delle sue valutazioni solo nell’ultimo atto quando sia in “di più non lacerarmi, troppo rimorso l’alma mi divora…” e nel “perdonami lo strazio recato al tuo bel core” conscio che per Traviata prova – a dispetto dei luoghi comuni sulle convenzioni sociali citate all’inizio – stima e rispetto.
Del suo Giorgio Germont ce ne parla lui stesso in questo video rilasciato per Operamundus (clicca qui)
La bella voce baritonale ha pregevole spessore, è brunita, robusta, profonda e scavata senza incertezze. Il fraseggio è ricco di sfumature e le straordinarie colorature drammatiche ben sanno esprimere lo sdegno nel “Di sprezzo degno di sé rende chi pur nell’ira la donna offende…” rivolto al figlio ebbro e dal gesto ignobile.
Esco da teatro in una Trieste meravigliosa, illuminata sapientemente in modo scenografico, la sera è serena senza vento e penso: “E che pace colà sol su te splendere ancor…”