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Teatro Regio di Torino: Manon Lescaut “con passione disperata” (Puccini)

Teatro Regio di Torino - Manon Lescaut (Puccini) - Ph Simone Borrasi
Teatro Regio di Torino - Manon Lescaut (Puccini) - Ph Simone Borrasi

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Motivi musicali come riflettori puntati sui singoli personaggi, temi affidati a strumenti che ne diventano voce e cifra, movimenti delle masse corali che appartengono alla cinematografia più che all’opera: nessuno come Puccini è riuscito a creare, autenticamente, cinema, ed è per questo, forse, che molti registi, oggi, utilizzano il linguaggio della settima arte per raccontarne l’opera.

Si muove entro questi confini Arnaud Bernard, che attinge alla filmografia francese per costruire un percorso di ricerca, visiva e psicologica, attorno al personaggio di Manon Lescaut, eroina tutta francese creata dalla penna di Antoine François Prévost nel 1731; il romanzo “Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut”, giudicato scandaloso all’epoca, ispirò ben tre compositori nella seconda metà del XIX secolo. Daniel-François-Esprit Auber, Jules Massenet, Giacomo Puccini: a loro, ma soprattutto alle tre Manon, è dedicata la grandiosa soggettiva che apre la Stagione 2024/2025 del Teatro Regio di Torino.

La Manon di Puccini, terza in ordine cronologico, è in realtà la prima messa in scena al Regio (dove, nel 1893, trovò il proprio felicissimo debutto, cui seguì la definitiva consacrazione del Giacomo nazionale dopo un tiepido successo, Le Villi, e un disastro completo, Edgar).

Torino, città del Cinema all’ombra della Mole, diventa, dunque, set cinematografico, in grado di spaziare dal cinema muto ai lungometraggi anni Sessanta della ribellione femminile, al realismo poetico degli anni Trenta e Quaranta del Novecento: l’onirico surrealismo del sodalizio di Marcel Carné e Jacques Prévert si intreccia al tema dell’amour fou velato di sadismo di Henri-George Clouzot, che trasporta la vicenda della sua Manon nell’epoca devastata della Seconda Guerra mondiale e della fondazione di Israele immediatamente seguente…il deserto palestinese in cui la protagonista muore accende il finale di sfumature religiose che richiamano il destino di lei, inizialmente destinata al convento, proprio come l’analoga Terra promessa americana si fa prigione, e poi tomba, nell’opera di Puccini.

Un connubio che funziona, dunque, alla perfezione, così come la citazione letterale di “Les enfants du paradis” di Carné (la traduzione italiana “Amanti Perduti” restituisce ben poco dello spirito originario, che allude invece ai ragazzi che occupano il loggione, il posto più in alto del teatro); finzione, vita, teatro, maschere si mescolano, velano e svelano attorno alla protagonista, contesa dagli uomini, sfuggente nell’amore.

Gli inserti delle pellicole trovano piena rispondenza in una scenografia (firmata da Alessandro Camera, con luci di Fiammetta Baldiserri e video di Marcello Alongi) giocata sui toni del black and white e del seppia, stesse tinte dei costumi di Carla Ricotti. La sosta delle carrozze ad Amiens diventa una stazione ferroviaria con annessa sala d’aspetto, affittacamere e ristoro; la sontuosa boiserie bianca della dimora di Geronte è prigione dorata in cui Manon, attorniata dal lusso, che pure tanto ama, rimpiange gli appassionati abbracci di Des Grieux e consuma le giornate nella noia, recitando una parte, maschera lei stessa fra le maschere e il Pierrot usciti direttamente dal film appena citato e realmente proiettato sulla parete del salotto.

Coup de théâtre altrettanto cinematografico (…attenzione! Spoiler!) il finale II, che si chiude con l’assassinio in scena del ricco Geronte: Manon, sorpresa insieme all’amante, prima sbeffeggia il vecchio facendogli impietosamente notare la ben differente prestanza fisica di Des Grieux, quindi, nella concitazione dell’arresto e della tentata fuga, strappa la pistola al fratello e spara, freddandolo.

L’Intermezzo che precede il III atto si anima, letteralmente, delle sequenze cinematografiche di baci ardenti – citazione di “In quelle trine morbide” – e scene di passione in cui domina l’iconico Jean Gabin, che si saldano, senza soluzione di continuità, con l’assunto di fondo della storia di Manon: l’amore come condanna, la passione fatale, l’impossibilità di sottrarsi ad un sentimento – mai scisso dal desiderio – per il quale non può esserci lieto fine. È molto terreno, l’amore che lega Manon e Des Grieux, ed è destinato a condurli alla rovina: Puccini non si fa scrupolo di sottolinearlo, né di connotarlo, musicalmente, intrecciando i Leitmotive di Amore e Destino ed inserendo il Tristanakkord in punti (apparentemente) lontanissimi dalla tragedia, ad esempio la coda dei minuetti della lezione di danza nel II atto. Del resto, l’amore di Tristano e Isotta è paradigma della fatalità del sentimento, così come l’omonima opera di Wagner ne è cifra musicale; e il sor Giacomo, appena rientrato da Bayreuth insieme con Adolf Hohenstein, capo delle Officine Grafiche Ricordi, assimila e fa sua la tecnica della reminiscenza (Erinnerungsmotiv) e del Leitmotiv, gettando le basi per quella profondissima aderenza fra parola, musica e drammaturgia che sarà la sua firma.

Dall’amore appassionato alla tempesta il passo è breve: dopo la scena al porto di Le Havre, in cui Manon, in gabbia insieme alle prostitute, aspetta di essere imbarcata fra lo squallore dei container e la compassione dei presenti, tra III e IV atto la sequenza proiettata è la nave che solca l’Oceano verso le Americhe in balìa delle onde impetuose. Il sipario, finalmente, si apre, ma non c’è riposo alcuno nella desolata scena che ci viene mostrata. Il deserto della Louisiana del libretto e quello della Palestina del film Manon che vediamo sul fondale, i nostri protagonisti e quelli a tutto schermo – Michel Auclair e Cécile Aubry – che quasi li eclissano: tutto converge verso il finale tragico, dopo la grande aria “Sola, perduta, abbandonata” che sottolinea – con la forza della disperazione – il profondo amore per la vita della protagonista. Oltre a gridare con tutta se stessa “Non voglio morire!”, Manon, nell’estremo istante, chiede all’amante gli ultimi, appassionati baci; è una sensibilità tutta fin de siècle, questa, non si tratta soltanto dell’indifferenza di Puccini verso le dimensioni ultraterrene.

Il tempo della consolazione celeste, tanto cara a Verdi, è terminato. Priva di qualsiasi pudore o sentimento religioso, ella consegna l’anima al mondo più che al cielo, lasciando di sé una traccia effimera quanto potente: “Muoio: le mie colpe travolgerà l’oblio, ma l’amor mio non muore”.

Veniamo ora all’orchestra e alle voci, che regalano una prova convincente e ben amalgamata.

La bacchetta di Renato Palumbo, senza mai perdere della consueta precisione, conquista per un senso pienamente “teatrale” che apre a squarci di ampio, levigato sinfonismo, così come a sequenze di grande sentimento. Le scene del secondo atto, particolarmente a rischio caricatura, sono invece accompagnate da un’intelligente concertazione, che evita qualsiasi leziosità pur caratterizzando perfettamente il mood dell’insieme, ricco di contrasti e di pathos, soprattutto nel duetto. L’Intermezzo, attesissimo, non delude le aspettative, grandioso e struggente, pieno di slancio eppure così intimo. I colori e gli impasti sono scintillanti e ben modulati in accordo con le scene, e le voci sono sostenute con chiarezza ed attenzione, per quanto a volte i volumi vadano a sovrastarle (specie nell’atto I). L’Orchestra del Teatro Regio, as usual, è pronta ad ogni richiesta e ben preparata, con suoni lucenti, vividi, pieni.

Il Coro di Ulisse Trabacchin si conferma rassicurante presenza, scenicamente vivace, tecnicamente saldo e ben presente vocalmente. I movimenti della massa sono in generale ben calibrati, forse un po’ troppo convulsi nel primo atto: è ben resa l’idea della stazione ferroviaria affollata di viaggiatori, ma la continua concitazione a volte fa sembrare un po’ affannosa la scena e non giova alla comprensione delle singole scene per chi non conosce bene l’opera.

“Rubano” a volte la scena ai protagonisti gli eccellenti comprimari, in testa Carlo Lepore (Geronte), che risolve una parte poco simpatica con un tocco di elegante irriverenza e una vocalità ben delineata. Di pregio anche il resto del cast: Giuseppe Infantino (Edmondo), Janusz Nosek, (Sergente degli arcieri/oste), Lorenzo Battagion (Comandante di marina), Didier Pieri (Maestro di ballo/ lampionaio), Reut Ventorero (Un musico) con il gruppo dei quattro Madrigalisti (Pierina Trivero, Manuela Giacomini, Giulia Medicina, Daniela Valdenassi), che trasformano in un delizioso numero di cabaret la scena del madrigale.

Menzione speciale merita Alessandro Luongo (Lescaut), simpatico sbruffone dal cuore tenero, che disegna magistralmente la propria parte con una bella resa vocale, fraseggi giusti e padronanza scenica. È molto bella la scelta di evidenziare, anche registicamente, il rapporto con Manon: nel loro vivere alla giornata essi sono legati da un affetto profondo, e la loro confidenza giunge al punto che la ragazza si rivolge senza imbarazzi al fratello, nella magnifica “In quelle trine morbide”, per raccontare quanto le manchi, nell’alcova, la passione carnale con Des Grieux!

Roberto Aronica è un Des Grieux convincente, che, dopo un inizio un po’ sottotono, acquista solidità a mano a mano che l’opera scorre; ben presente a se stesso in una parte sicuramente non semplice, ma ben sostenuta da una solida vocalità, Aronica si mostra sicuro negli acuti, con un timbro particolare e ricercato. Nel primo atto, “Tra voi belle” è reso con spensierata leggerezza, mentre la timidezza del corteggiamento (“Cortese damigella”) si trasforma palpabilmente in un sentimento profondo in “Donna non vidi mai”; Aronica mostra qui ottima padronanza vocale e fraseggi perfetti, forse manca un po’ di fuoco. Nel secondo atto, il suo “Ah, Manon! Mi tradisce il tuo folle pensier” è molto più scuro e tormentato, saldo nei centri, pienamente efficace nel rendere il rovello interiore dell’uomo costretto a venire a patti con la propria coscienza, dal momento che l’amore – o l’ossessione, forse – lo ha trascinato nel fango. La perorazione del III atto a Le Havre (“No! Pazzo son!”) è accorata, e infine, nel lungo duetto del finale, egli sa accogliere e sostenere la protagonista, così come la partitura intreccia passato e presente mostrando la conseguenza di quanto già udito in precedenza: la morte di Manon non è che il risultato del suo modo di prendere la vita con incauta sfrontatezza.

Last but not least, la nostra protagonista, Erika Grimaldi, che ad ogni recita rafforza ulteriormente la conferma di essere una delle più belle voci dell’attuale panorama musicale: una tecnica vocale salda che non teme gli acuti ed è ben presente nei centri, una voce piena e morbida,  un timbro luminoso e levigato, un fraseggio attento.  Tutto converge nel modulare la resa scenica del suo personaggio, mostrandone l’evoluzione da timida fanciulla a femme fatale, con tocchi di malizia e leggerezza gradualmente sostituiti dalla consapevolezza, che comunque si trasforma in disperazione soltanto negli ultimi istanti, di fronte all’evidenza. Manon quasi non crede, pur di fronte al disastro, che qualcosa possa realmente andare storto; per lei è come se, negando il problema, esso scomparisse. Il soprano astigiano mette bene il luce questo contrasto di fondo tra ciò che è reale e ciò che Manon ritiene tale, e può inoltre contare sul physique du rôle e su una preparazione puntuale ed attenta, che le permette di calarsi in modo convincente nella parte. Nel secondo atto, riesce a passare dalla candida frivolezza di “L’ora, o Tirsi” all’intensità di “In quelle trine morbide”. Il finale è da brividi, con un “Sola, perduta e abbandonata” di grande efficacia, in cui lo slancio appare espressivo e pieno, mentre i più sottili pianissimo degli ultimi sospiri di Manon sono resi con emissione cristallina.

La soggettiva Manon, Manon, Manon si apre dunque sotto una buonissima stella, con un primo “ciak” pucciniano convincente e coinvolgente, accolto con entusiasmo dal numeroso pubblico.

12 ottobre 2024 – Manon Lescaut – Teatro Regio di Torino

Dramma lirico in quattro atti

Musica di Giacomo Puccini

Libretto di Luigi Illica, Domenico Oliva 
e Marco Praga

tratto dal romanzo Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut di Antoine-François Prévost

Prima rappresentazione assoluta:
Torino, Teatro Regio, 01/02/1893

CAST

Manon Lescaut Erika Grimaldi

Renato Des Grieux Roberto Aronica

Lescaut Alessandro Luongo

Geronte di Ravoir Carlo Lepore

Edmondo Giuseppe Infantino

Un lampionaio e Il maestro di ballo Didier Pieri

Un musico Reut Ventorero

Sergente degli arcieri e L’oste Janusz Nosek

Il comandante di marina Lorenzo Battagion

Madrigalista Pierina Trivero

Madrigalista Manuela Giacomini

Madrigalista Giulia Medicina

Madrigalista Daniela Valdenassi

 

Direttore d’orchestra | Renato Palumbo

Regia | Arnaud Bernard

Regista collaboratore | Marina Bianchi

Maestro del coro | Ulisse Trabacchin

Orchestra e Coro Teatro Regio Torino

Nuovo allestimento Teatro Regio Torino

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Ilaria Castellazzi

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