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Intervista a Stefano La Colla: emozioni in canto, tra sacrifici e limiti del repertorio

Intervista a Stefano La Colla Emozioni in canto, tra sacrifici e limiti del repertorio
Intervista a Stefano La Colla Emozioni in canto, tra sacrifici e limiti del repertorio

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Ho avuto il piacere di intervistare il tenore Stefano La Colla. Tra un salto di connessione e l’altro (ebbene sì, l’intervista è stata fatta a distanza), abbiamo avuto l’opportunità di confrontarci sulla nostra visione del teatro come forma d’arte capace di trasmettere emozioni. 

Buongiorno e benvenuto Stefano. 

Mi piacerebbe fare una premessa! Fra poco partirò per una nuova produzione di Edgar a Nizza, ed è per me un’occasione “particolare”, perché quest’opera viene raramente eseguita nella sua forma integrale. Di solito viene proposta in tre atti, ma questa volta il teatro di Nizza ha deciso di rispolverare la versione completa in quattro atti.
Edgar è uno dei primi lavori di Puccini, che ci ha lavorato più volte nel corso del tempo. Dopo il successo de Le Villi, l’editore Ricordi commissionò anche quest’opera. Nonostante Puccini non amasse le forzature, è riuscito a creare una bellissima opera, piena di spunti che ritroviamo anche in lavori successivi. Ad esempio, nel quarto atto si sente un’anticipazione del finale di Tosca, e ci sono “musiche” che ricordano l’inizio di Manon Lescaut. È evidente come nella sua mente avesse già idee che avrebbe sviluppato più tardi e che amava già. L’estro di Puccini si conosce. 

Sono davvero contento di portare in scena quest’opera a Nizza, proprio perché è una delle poche opere del compositore meno eseguite.

Di solito ci si confronta sempre con le “solite” Tosca, Bohème, Turandot. Il debutto alla Scala (di cui parleremo in seguito) è stato per me croce e delizia, perché quando ho chiesto quale opera avrei dovuto interpretare, mi hanno risposto: “Turandot”…

 

A questo punto, visto che stiamo parlando dell’Edgar a Nizza, mi sembra di capire che tu abbia vissuto la chiamata in maniera molto positiva.

Ero contento quando mi hanno chiamato, perché anche la direzione artistica del teatro apprezza molto le mie doti. Il direttore artistico, in un articolo uscito qualche mese fa, ha detto: “Secondo me, una voce come quella di Stefano La Colla è perfetta per questo tipo di ruolo”. Sono molto onorato di queste parole e farò del mio meglio per non smentirlo.

Che giorno potremmo venire a vederti?

8, 10, 12 Novembre 2024

Lo segniamo per tutti i nostri appassionati. … Forse Nizza è un po’ troppo lontana per me!

Partiamo con le domande ora!

Sappiamo che provieni da una famiglia fortemente appassionata all’opera lirica e che dove la passione per la musica è una tradizione familiare.

Cosa ti ha spinto, però, a muovere i primi passi sul palcoscenico? C’è stato qualche evento o qualche opera in particolare che ha segnato questo approccio?

Tutto parte da lì, perché i miei genitori, mio padre e mia madre – lei è ancora in vita – sono grandi appassionati di opera. Mio padre ci faceva ogni anno un abbonamento al teatro. Vivevamo a Torino e ci faceva l’abbonamento per un palco, così guardavamo tutte le opere.

Per me, bambino di 6-7 anni, quella scatola magica che si apriva la sera e ti portava in un mondo completamente diverso era una cosa che mi affascinava particolarmente. Mi faceva sognare e pensavo: “Potessi farlo anch’io!”…
… Con le luci, i colori, i suoni, tutto resta impresso nella mente di un bambino.

Queste sensazioni mi sono rimaste impresse e, nel tempo, ho intrapreso la carriera di cantante quasi per caso. Provavo e riprovavo, finché mio padre un giorno disse: “Va bene, andiamo da un maestro per vedere se ci sono possibilità”. E quel maestro rimase entusiasta, dicendo: “Qui c’è la stoffa per lavorarci”. Io poi avevo tantissima passione, così mi sono tuffato in questo mondo. Ho debuttato con Mascagni a Livorno, poi Torre del Lago ogni estate con le opere pucciniane. Ho fatto anche altri compositori, ma quello che mi rimane più impresso nel cuore è sempre Puccini.”

Il nostro spirito guida! Anche perché, probabilmente, tu hai interpretato più opere di Puccini rispetto ad altri compositori.

Interpreto spesso opere di Puccini e Verdi. Le direzioni artistiche, non so perché, tendono a fossilizzarsi su certe idee: se sei francese, fai opera francese; se sei italiano, fai il repertorio italiano, lirico spinto.

Ho anche un po’ paura che, prima o poi, mi offrano Otello con la scusa del “Saresti maturo adesso”. Ma la mia preoccupazione è che, una volta fatto Otello, potrei non fare più altro. Penso che, finché si ha la possibilità di cantare il proprio repertorio – che sia italiano o francese – è meglio mantenere una certa varietà. Ad esempio, avrò presto l’opportunità di interpretare Carmen. Le direzioni artistiche, però, spesso pensano: “Italiano? Facciamogli fare opere italiane”.

L’opera italiana è un po’ l’emblema della lirica nel mondo, anche se non credo che opere francesi o spagnole possano essere paragonate direttamente. Per un cantante italiano, eseguire il repertorio nazionale è anche un onore. Abbiamo già la fortuna di conoscere la lingua, e quando leggiamo uno spartito possiamo capire subito le inflessioni, i significati che il compositore vuole trasmettere. A livello fonetico, sappiamo come interpretare i dialoghi e i personaggi. Un cantante che non conosce la lingua, invece, fa molta più fatica a comprendere e interpretare correttamente quello che sta cantando. Lo stesso vale per noi italiani quando affrontiamo il repertorio francese o spagnolo.

Per noi italiani può sembrare banale, ma per chi non parla la lingua è complicato. In Francia, ad esempio, ci sono coach che ti correggono continuamente. Forse è un po’ colpa nostra se in Italia non è così … ci siamo un po’ adagiati!

Noi italiani, come popolo, siamo molto esterofili: ci piace ciò che viene da fuori, come se fosse sempre meglio di quello che abbiamo. Pensiamo che, siccome conosciamo già ciò che abbiamo, allora ciò che viene dall’estero è automaticamente superiore. In alcuni casi può essere vero, ma non sempre. Dovremmo dare più valore agli artisti italiani, perché ce ne sono tantissimi, bravissimi. Io, per esempio, in Italia canto raramente, a parte alla Scala o, occasionalmente, al Teatro dell’Opera di Roma. Anni fa mi chiamarono al San Carlo di Napoli, ma poi cambiarono direzione artistica e con essa cambiarono anche i gusti e le scelte.

A proposito, ti volevo fare una domanda proprio su questo: una delle cose che mi ha colpito maggiormente della tua carriera è la straordinaria varietà di teatri in cui hai avuto l’opportunità di esibirti, tra cui la Bavarian State Opera di Monaco, la Deutsche Oper e la Staatsoper di Berlino, il Teatro dell’Opera di Roma, la Staatsoper di Vienna, La Monnaie a Bruxelles, la Dutch National Opera e il Concertgebouw di Amsterdam, l’Opernhaus di Zurigo, la Lyric Opera di Chicago, la Sydney Opera House, la Melbourne Opera House e fino ad arrivare al Bunka Kaikan di Tokyo.

Prima di tutto, mi piacerebbe sapere quale teatro ti è piaciuto di più e perché, anche in relazione all’opera che hai interpretato!

Ogni teatro, con l’opera che si sceglie, è come un artigiano che crea qualcosa di unico. Parlo per esperienza personale: a volte ti trovi bene in un teatro perché il ritorno del suono è migliore rispetto a quello che avevi in un altro. Ma la magia del teatro, quello che io chiamo la “scatolina”, è che ogni “scatolina” è diversa. E secondo me, il divertimento sta proprio nell’affrontare queste sfide con leggerezza e divertimento. L’obiettivo è fare sempre qualcosa di divertente. Io devo divertirmi, perché, anche se il teatro è un lavoro, non dobbiamo viverlo come tale. Bisogna farlo con serietà, certo, ma anche con leggerezza.

Non posso dirti quale sia il mio teatro preferito, perché mi piacciono tutti. Ognuno ha una particolarità che lo rende unico.

Se lo vuoi davvero, non ci sono muri che ti possano fermare. Devi essere umile ma serio, offrendo il tuo talento senza essere arrogante.

Mi è piaciuta molto questa risposta, perché la maggior parte dei cantanti, quando gli fai questa domanda, ha un teatro di riferimento. Ti dicono: “Mi è piaciuto questo per come è costruito” o “Quell’altro perché è stato il teatro del mio debutto”. Tu, invece, hai una vera passione per la “scatola” e per tutto il contorno che la circonda. Penso che questa sia la cosa più magica: vivi il tuo lavoro come se ogni giorno andassi in un posto nuovo per esplorare nuove esperienze. È davvero bellissimo!

A questo punto ti chiedo, come hai fatto a metterci del tuo all’interno di questi teatri? 
A prescindere dal fatto di esserti dovuto adattare per quanto riguarda la risonanza della voce ed altri aspetti tecnici, come hai fatto a portare Stefano al loro interno? 

Ti sembrerà banale, ma semplicemente essendo Stefano. Ovviamente c’è uno Stefano sul palco e uno Stefano fuori dal palco, però quando canto cerco di portare quello che ho dentro: la mia luce, il mio sole, la mia voglia di smuovere le coscienze delle persone. Perché anche noi cantanti abbiamo un compito importante: far ricordare alle persone che, a volte, certe cose sarebbe meglio evitarle per non lasciare che le conseguenze si ripercuotano sui posteri.

Abbiamo una responsabilità. Quando vai all’opera, il pubblico — e io ne sono sicuro, perché ho fatto parte del pubblico anch’io — se ne accorge se stai recitando o se sei davvero dentro la parte. Essere dentro la parte non significa che non stai recitando: tu devi trasmettere qualcosa, cerco di dare emozioni. Quello che dai, in quel momento, è qualcosa di magico, ma sarà per quella volta. Domani sera non so se farò bene o meno, ma questa è la bellezza e la magia del teatro: succede solo in quel momento. Nel cinema, una volta registrata la pellicola, quella è e quella rimane. Nel mondo lirico non è così, perché ogni sera ti metti in gioco.

 

Infatti, la magia del teatro sta proprio nell’essere una forma d’arte hic et nunc (qui e ora), e si può vivere solo in quell’esperienza. 

È un po’ brutale, ma quando il pubblico paga il biglietto per venire a sentirti e vederti, anche io, come tutti, ho i miei problemi e i miei pensieri. Però, quando si alza il sipario, non ci deve essere più Stefano. Non è facile, non succede così, all’improvviso: devi imparare, poco a poco, a staccarti da tutto. Perché lo spettatore che è lì non vuole sapere delle tue preoccupazioni quotidiane. Per due ore vuole divertirsi, rilassarsi, sentire un’emozione. Uno dei miei vecchi maestri mi diceva: “Devono sentire la scossa elettrica, se sentono quella, allora hai fatto il tuo lavoro”. Questo è il punto: regalare emozioni al pubblico.

Un vecchio maestro del coro una volta mi disse: “Stefano, per assurdo, io non voglio che tu sappia le note alla perfezione, le devi conoscere in modo funzionale. Devi trasmettere qualcosa, non limitarti a stare dalla parte delle note. Preferisco che tu sbagli una nota ma mi dia un’emozione, piuttosto che essere sterile”.

Sono del parere che la musica, essendo un’arte, debba trasmettere qualcosa, proprio come un dipinto. Bisogna cercare di raggiungere il pubblico, e forse, se non ci stai riuscendo, è possibile che tu stia sbagliando qualcosa, come se non stessi davvero facendo il tuo lavoro.

È così!

Oggi, chi lavora in teatro spesso pensa solo al proprio compito, senza capire che il successo di uno spettacolo dipende dal lavoro di squadra. La riuscita è frutto di un lavoro comune. Se il direttore è troppo rigido, ad esempio, può compromettere tutto. Il teatro deve essere come una macchina. Quando si apre il sipario, non sai mai chi c’è tra il pubblico, ma devi sempre dare il massimo. Io lo faccio con serenità, mettendo da parte tutto e concentrandomi sulla parte. Il pubblico percepisce sempre la tua sincerità, e se riesci a essere autentico, ti restituisce mille volte tanto. Questa è la mia adrenalina, ed è ciò che il pubblico ama.

A proposito, tu fai qualcosa prima di una messa in scena per portarti fortuna o vai e… buona la prima?

Non ho riti particolari, ricordo che Luciano (Pavarotti) cercava un chiodo sul palcoscenico e altri che evitavano il viola per scaramanzia. Prima di entrare in scena, oltre che alla classica preparazione con vocalizzi (ecc…) mi piace fare una grande sorriso e dire “Ok, lo posso fare”. 

Confido nella benevolenza del pubblico, che non mi ha mai deluso. La sincerità viene sempre premiata e la mia forza sta proprio in questo. Non è necessario coinvolgere tutti; basta toccare anche una sola persona e trasmettere emozioni. Cerco sempre di essere vero, perché il pubblico è fondamentale. Il nostro lavoro è come coltivare un fiore: richiede cura e dedizione.

Sappiamo che una vera e propria svolta nella tua carriera è stata il debutto nel 2015 sul palco del Teatro alla Scala, con il ruolo di Calaf nella Turandot, che ha inaugurato l’Expo e segnato l’esordio di Riccardo Chailly come direttore generale del Teatro alla Scala, che per l’occasione ha deciso di rappresentare l’opera con il finale scritto da Luciano Berio.
Una rappresentazione che strizza un po’ l’occhio alle avanguardie del 900′ a partire dalle scelte d’interpretazione di Riccardo Chailly stesso, fino ad arrivare alla regia di Nikolaus Lehnhoff .

Essendo il tuo debutto su un palco così prestigioso, come ti eri preparato per affrontare questo ruolo così importante?

Il ruolo mi è sempre piaciuto e non potevo chiedere un miglior debutto; era l’opera per me, ero felicissimo, e poi comunque l’avevo già debuttata in altri teatri. Vuoi o non vuoi la Scala è il faro di tutti i teatri, è bellissimo, ma non ci puoi andare come debutto, come prima prova, perchè lo stress è talmente tanto che ti curano ogni dettaglio (abbiamo comunque avuto tempo).

Rimango sorpreso oggi dagli errori che si commettono, che evidenziano la mancanza di tempo per studiare insieme. La voce è uno strumento e bisogna abituarsi a presentarlo sul palco. I teatri sono diventati macchine che devono sfornare produzioni senza prendersi il tempo necessario, a discapito dell’arte. Le produzioni degli anni ’60 e ’70 erano magiche proprio perché creavano un senso di famiglia tra i membri del cast. Trovare del tempo per produrre ad oggi è una vera utopia.

Mi rattrista sentire che in Italia con la cultura non si mangia; l’Italia è ricca di cultura e può essere un faro per le altre società. Dobbiamo proteggerla e valorizzarla, ricordando che una grossa fetta del patrimonio culturale mondiale è nostro e va preservato.

Siamo giunti all’ultima domanda, e vorrei chiudere con una riflessione che tengo a fare a tutti i cantanti che intervisto:

quale consiglio daresti ai giovani che desiderano intraprendere una carriera nel mondo dell’opera lirica? 

Il consiglio non te lo do! Ma ti racconto una storia.
Un grandissimo maestro di danza classica aveva una talentuosa ballerina. Un giorno, lei si innamorò e decise di diventare mamma, chiedendo al maestro se avesse paura che lei abbandonasse la danza. Lui rispose di no e le fece seguire le sue scelte. Dopo un po’, lei tornò in teatro, ma il maestro le disse che doveva ripartire da capo. Lei chiese perché avesse incoraggiato la sua scelta di andarsene. Lui le spiegò che, sebbene incoraggiasse tutti a seguire il proprio cuore, ciò comportava inevitabilmente delle rinunce.

Morale della favola: questo lavoro è bellissimo, ma richiede sacrifici. Non dobbiamo incolpare gli altri, come il pianista o il direttore; la responsabilità prima di tutto è nostra.

Se desideri veramente intraprendere questa carriera, devi studiare ogni giorno. Lo strumento evolve e va rispettato, senza avere l’ansia di guadagnare subito. È fondamentale essere consapevoli dei propri limiti ma fare qualcosa solo per farlo non ha senso.

Grazie mille per questo consiglio, bisogna saper riconoscere i propri limiti ma io sono dell’idea che se tu vuoi puoi fare tutto. 

 

Ci fai un saluto a Opera Mundus?

Ringrazio tantissimo Opera Mundus per questo invito, ne sono tanto onorato, spero che il portale cresca in maniera velocissima, e che dirvi? Vi aspetto su Opera Mundus!

 

Grazie a te Stefano per il tempo che ci hai dedicato.  

 

Info / Calendario / Repertorio – Stefano La Colla (tenore) – OPERABASE

Maria Anzivino

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