Il mercoledì 7 luglio ha avuto inizio la XLV edizione del Rossini Opera Festival di Pesaro, la più ambiziosa e lunga degli ultimi anni, con quattro titoli principali (due nuove produzioni e due riprese) invece dei consueti tre, oltre a una versione in concerto d’Il viaggio a Reims, commemorando il 40° anniversario della sua storica prima esecuzione in tempi moderni, diretta da Claudio Abbado. La ragione: la proclamazione di Pesaro come Capitale Italiana della Cultura 2024. Quest’anno, il festival si inaugura con una nuova produzione di Bianca e Falliero, opera con libretto di Felice Romani (autore di altri celebri testi come Il turco in Italia, che potrà essere visto nella prossima edizione del festival; Norma o L’elisir d’amore) e che non veniva rappresentata al ROF dal 2005, in quell’occasione con protagoniste María Bayo e Daniela Barcellona.
Inoltre, la serata ha segnato l’inaugurazione di un nuovo auditorium per il festival, l’ex Palafestival, chiuso per più di vent’anni, ristrutturato e ora ribattezzato Auditorium Scavolini. Lo spazio dispone di una piccola platea (se paragonata alla Vitrifrigo Arena), sfruttando al contempo le scomodissime gradinate utilizzate nella sua doppia funzione come sede per eventi sportivi. Tutte le persone con cui ho potuto scambiare opinioni sulla rappresentazione, oltre a me stesso, hanno manifestato di aver sofferto di un intenso mal di schiena dopo essere rimaste sedute su queste gradinate per le 3 ore e 15 minuti che è durata la rappresentazione (invece delle circa 2 ore e 45 minuti che sarebbe durata una versione canonica, senza dubbio a causa della letargica direzione musicale di Roberto Abbado). Ho anche osservato come alcuni spettatori si lamentassero con gli addetti alla sala per la sensazione di vertigine dovuta all’altezza dei posti. E l’acustica non era certo delle migliori, o almeno così si percepiva dalla tribuna, con un’orchestra che, pur contenuta nel volume da Abbado, in molti momenti copriva i cantanti. All’inizio del secondo atto, un grande acquazzone si è abbattuto su Pesaro, sentendosi più il rumore della pioggia sulla cupola che la stessa rappresentazione.
Sono poche le occasioni che si presentano nella vita per guardare Bianca e Falliero dal vivo, poiché viene rappresentata con scarsissima frequenza.
La messa in scena di Jean-Louis Grinda, caratterizzata dall’assenza totale di direzione degli attori, non aiuta a sollevare il debole libretto di Romani. I cantanti si muovono abbandonati a sé stessi, costretti a movimenti stantii e arcaici (per esempio, i gesti imbarazzanti che Falliero deve compiere per infondere mascolinità, già visti in altre produzioni tradizionali quando una cantante donna interpreta un ruolo in travesti). Con tutto ciò, Grinda sembra voler enfatizzare con il suo allestimento l’idea principale di un padre, il sempre spregevole Contareno, che cerca di ostacolare con ogni mezzo l’unione tra Bianca e Falliero, mosso solo da interessi economici. Il finale è brusco e sorprendente: mentre Bianca pronuncia parole di felicità per aver finalmente ricevuto il beneplacito del padre per unirsi al suo amato Falliero, gli altri personaggi sembrano congelati –ancora di più…–, assenti, come se fosse un sogno di Bianca. Si notano anche grossolane imitazioni di altre produzioni rossiniane, come l’Otello di Moshe Leiser e Patrice Caurier, dove il vecchio Doge di Venezia (qui la decrepita madre di Bianca, come una sorta di fantasma che la tormenta) attraversa molto lentamente il palco camminando fino al suo posto durante i due minuti dell’intervento del coro che precede l’aria, creando un’immagine quasi comica.
Per quanto riguarda la scenografia, opera di Rudy Sabounghi, abituale collaboratore di Grinda, è spoglia e abusa della cartapesta e del movimento di grandi figure statiche. L’ambientazione spaziale, al di là di alcune proiezioni di dubbio gusto nel primo atto, è ambigua, eliminando completamente Venezia, così presente nella trama. L’unico indizio di una possibile collocazione temporale viene dai costumi – orribile la parrucca di Falliero! – pieni di gabardine.
Deludente, sebbene decente, la direzione musicale di Roberto Abbado, piuttosto piatta, priva di contrasti e con tempi pesanti, soprattutto nel finale primo o nel quartetto del secondo atto, “Parla dunque”, in cui l’assenza di tensione è palpabile. La mancanza di vivacità e immaginazione della direzione musicale di Abbado, intensificata dallo staticismo della messa in scena, si fa sentire soprattutto nelle sezioni lente di ogni numero, nonostante le bellissime melodie che Rossini conferisce loro. Ci sono stati anche degli errori; ad esempio, nella stretta dell’introduzione del primo atto, “Esce il Doge”, nel primo crescendo, mezza orchestra ha iniziato a suonare un tempo dietro il resto, culminando in una terribile cacofonia.
Tuttavia, non si può negare che Abbado abbia ottenuto un buon suono dall’eccellente Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, sempre compatta e trasparente, e ha messo in risalto con gusto le diverse linee melodiche. In somma, un’interpretazione raffinatamente noiosa. Da segnalare il solo di flauto nella scena di Falliero nel secondo atto. Degna di elogio è stata anche la decisione di includere nei recitativi del fortepiano l’accompagnamento di violoncello e contrabbasso, essendo questo l’unico dei tre titoli con recitativi secchi visti al festival in cui è stata attuata questa lodevole pratica. Corretto anche il Coro del Teatro Ventidio Basso, sotto la direzione di Giovanni Farina, penalizzato dall’acustica dell’auditorium, e forse un po’ più tiepido rispetto alle esibizioni dei giorni successivi.
Comunque, non tutto poteva essere negativo, ed è necessario riconoscere un trio vocale protagonista competente ed equilibrato, come testimoniato dai calorosi applausi che hanno ricevuto nelle loro esibizioni soliste.
Jessica Pratt, è una Bianca convincente. Fraseggia con gusto e include variazioni suggestive e impegnative per mettere in risalto il suo bel registro acuto. Impeccabile è stata anche la sua interpretazione dell’aria finale, che proviene originariamente da La donna del lago, rappresentata un mese prima di Bianca e Falliero (un esempio dell’economia di mezzi tipica del genio di Pesaro, sottoposto a incarichi frenetici), macchiata dalla latente mancanza di ritmo di Abbado, che l’ha condotta quasi al soffocamento. La Pratt è stata così audace da prolungare la durata del suo acuto finale al punto di sfiorare l’incidente.
Aya Wakizono, da parte sua, eclissata dalla Pratt nei duetti, è riuscita a gestire con abbastanza intelligenza i suoi limitati mezzi vocali, con un centro vocale e gravi molto modesti, lontani dalla vocalità di contralto che il ruolo di Falliero richiede. Tuttavia, il mezzosoprano giapponese ha giocato a suo favore con una solida musicalità. Così, la sua interpretazione della cavatina è stata corretta, venendo anche applaudita con entusiasmo nella sua scena del secondo atto, “Qual funebre apparato”.
Neppure la vocalità originale di baritenore ha molto a che fare con i mezzi di Dmitry Korchak, che è riuscito a superare abilmente le difficoltà della parte di Contareno, oscillando tra tessiture estreme gravi e acute. È risultato convincente nella sua aria del primo atto, come padre tenero sul punto di diventare un padre spietato contrario ai desideri della figlia.
Il resto del cast è stato completato dal giovane basso georgiano Giorgi Manoshvili (un solido Capellio, a cui, se continua così, si prospetta un futuro promettente), dalla soprano spagnola Carmen Buendía (costretta dalla scena a “dirigere” le domestiche di Bianca nel coro femminile del primo atto, “Negli orti di fiora”, sempre impeccabile nelle sue brevi apparizioni), Nicolò Donini come il Doge Priuli, Claudio Zazzaro come ufficiale e usciere, e Dangelo Díaz come cancelliere.
Trattandosi dell’inaugurazione del festival, l’alta società italiana, a cui l’opera interessa ben poco, ma che pensa solo a mettersi in mostra, ha dominato l’evento. Gli schermi dei cellulari accesi sono stati la norma nella prima parte. Nella seconda parte sono diminuiti, poiché le defezioni durante l’intervallo sono state notevoli, anche se l’auditorium non era comunque pieno nemmeno all’inizio dell’opera.
Fortunatamente, il nuovo giorno ha portato con sé un geniale Equivoco stravagante che è riuscito a dissipare completamente il retrogusto agrodolce lasciato da questa prima a chi scrive, come descritto in precedenza, irreprensibilmente corretta, ma raffinatamente noiosa.
El miércoles 7 de julio daba comienzo la XLV edición del Rossini Opera Festival de Pésaro, la más ambiciosa y larga de los últimos años, con cuatro títulos principales (dos nuevas producciones y dos reposiciones) en lugar de los habituales tres, además de una versión en concierto de Il viaggio a Reims, rememorando el 40º aniversario de su histórico estreno en tiempos modernos a cargo de Claudio Abbado. La razón: la proclamación de Pésaro como Capital italiana de la cultura 2024. Este año, el festival se inaugura con una nueva producción de Bianca e Falliero, ópera con libreto de Felice Romani (autor de otros célebres textos como Il turco in Italia, que podrá verse en la próxima edición del festival; Norma o L’elisir d’amore) y que llevaba sin representarse en el ROF desde 2005, aquella ocasión con María Bayo y Daniela Barcellona como protagonistas.
Además, la velada supuso la inauguración de un nuevo auditorio para el festival, el antiguo Palafestival, cerrado durante más de veinte años, reformado y bautizado ahora bajo el nombre de Auditorium Scavolini. El espacio cuenta con un pequeño patio de butacas (si lo comparamos con el Vitrifrigo Arena), a la vez que aprovecha las incomodísimas gradas empleadas en su doble faceta como recinto para eventos deportivos. Toda la gente con la que pude intercambiar opiniones sobre la representación, además de un servidor, manifestó haber sufrido un intenso dolor de espalda tras permanecer sentados en estas gradas las 3 horas y 15 minutos que duró la representación (en lugar de las 2 horas y 45 minutos que, aproximadamente, habría durado una versión canónica, sin duda debido a la letárgica dirección musical de Roberto Abbado). También pude observar como algunos espectadores se quejaban a los acomodadores de la sensación de vértigo debido a la altura de los asientos. Y la acústica tampoco es que fuese ninguna maravilla, o al menos así se apreciaba desde la tribuna, con una orquesta que, aun contenida en volumen por Abbado, en muchos momentos tapaba a los cantantes. Al comenzar el segundo acto, una gran tromba de agua cayó sobre Pésaro, escuchándose más cómo caía el agua sobre la cúpula que la propia representación.
La puesta en escena de Jean-Louis Grinda, caracterizada por la nula dirección de actores, no ayuda a remontar el débil libreto de Romani. Los cantantes actúan abandonados a su suerte y sometidos a movimientos rancios y arquetípicos (por ejemplo, los sonrojantes gestos que ha de realizar Falliero para infundir masculinidad, ya tan vistos en otros montajes tradicionales cuando una cantante femenina interpreta un papel travestido). Con todo esto, Grinda parece querer potenciar con su montaje la idea principal de un padre, el siempre despreciable Contareno, que trata de obstaculizar por todos los medios la unión de Bianca e Falliero, movido por el interés nada más que económico. El final es abrupto y sorprendente: mientras Bianca pronuncia palabras de felicidad por haber recibido finalmente el beneplácito de su padre para unirse con su amado Falliero, el resto de personajes parecen congelados –aún más…–, ausentes, como si de un sueño de Bianca se tratase. Igualmente, se detectan burdas imitaciones de otras producciones rossinianas, como el Otello de Moshe Leiser y Patrice Caurier, donde el anciano dux de Venecia (aquí la decrépita madre de Bianca, como una especie de fantasma que la atormenta) atraviesa caminando muy lentamente el escenario hasta llegar a sus asiento durante los dos minutos que dura la intervención del coro previa al aria, logrando una estampa casi cómica.
Por su parte, la escenografía, obra de Rudy Sabounghi, habitual colaborador de Grinda, es desnuda, y abusa del cartón piedra y del movimiento de grandes figuras estáticas. La ambientación espacial, más allá de algunas proyecciones de dudoso gusto en el primer acto, es ambigua, despojándose totalmente de Venecia, tan presente en el argumento. La única pista de una posible localización temporal la ofrece el vestuario –¡horrorosa la peluca de Falliero!–, plagado de gabardinas.
Decepcionante, aunque decente, la dirección musical de Roberto Abbado, algo plana, ayuna en contrastes y de tempi pesantes, especialmente en el finale primo o el cuarteto del segundo acto, “Parla dunque”, en los que la falta de tensión fue palpable. La ausencia de chispa e imaginación de la dirección musical de Abbado, intensificada por el estatismo de la puesta en escena, hace mella sobre todo en las secciones lentas de cada número, pese a las bellísimas melodías que Rossini les confiere. También hubo lugar para las pifias; por ejemplo, en la stretta de la introducción del primer acto, “Esce il Doge”, en el primero de los crescendi, media orquesta comenzó a tocar un compás por detrás del resto, culminando en una terrible cacofonía.
Aun así, no se puede negar que Abbado obtuvo un buen sonido de la sobresaliente Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, siempre compacto y transparente, y realzó con gusto las diferentes líneas melódicas. En suma, una interpretación refinadamente aburrida. A destacar el solo de flauta en la escena de Falliero en el acto segundo. Digna de alabanza fue también la decisión de incluir en los recitativos de fortepiano acompañamiento de violonchelo y contrabajo, siendo este el único de los tres títulos con recitativos secos vistos en el festival en que se ha llevado a cabo esta loable práctica. Correcto, asimismo, el Coro del Teatro Ventido Basso, a las órdenes de Giovanni Farina, perjudicado por la acústica del auditorio, y quizás algo más tibio que en sus presentaciones de los días posteriores.
No obstante, no todo podía ser malo, y es necesario reconocer a un trío vocal protagonista cumplidor y equilibrado, tal como atestiguaron los calurosos aplausos que recibieron en sus intervenciones solistas.
Jessica Pratt, es una Bianca solvente. Frasea con gusto, e incluye variaciones sugerentes y desafiantes para sacar a relucir su bello registro agudo. Impecable, asimismo, fue su interpretación del aria final, que originalmente proviene de La donna del lago, estrenada un mes antes que Bianca e Falliero (muestra de la economía de medios típica del genio de Pésaro, ante los encargos frenéticos a los que se veía sometido), manchada por la latente falta de pulso de Abbado, abocándola al ahogamiento. Tan atrevida fue Pratt al extender la duración de su agudo final que rozó el accidente.
Por su parte, Aya Wakizono, eclipsada por la Pratt en los duetos, supo administrar con bastante inteligencia sus limitados medios vocales, con un centro vocal y graves muy modestos, alejados de la vocalidad de contralto que exige el papel de Falliero. No obstante, la mezzo japonesa jugó a favor con una solvente musicalidad. Así, su interpretación de la cavatina fue correcta, siendo también aplaudida con entusiasmo en su escena del segundo acto, “Qual funebre apparato”.
Tampoco tiene mucho que ver la vocalidad de baritenor original con los medios de Dmitry Korchak, quien supo sortear hábilmente las dificultades de la parte de Contareno, oscilando entre tesituras extremas graves y agudas. Resultó convincente en su aria del primer acto, como el padre tierno a punto de convertirse en un padre despiadado contrario a los deseos de su hija.
El resto del elenco lo completaron el joven bajo georgiano Giorgi Manoshvili (un solvente Capellio y al que, si sigue así, se le augura un prometedor futuro), la soprano española Carmen Buendía (obligada por la escena a “dirigir” a las empleadas del hogar de Bianca en el coro femenino del primer acto, “Negli orti di fiora”, siempre intachable en sus breves intervenciones), Nicolò Donini como el dux Priuli, Claudio Zazzaro como oficial y ujier, y Dangelo Díaz como canciller.
Al tratarse de la inauguración del festival, la alta sociedad italiana, a la que la ópera le importa más bien poco, sino solamente hacerse ver, copó el evento. Las pantallas de los móviles encendidas fueron la tónica general en la primera parte. En la segunda parte disminuyeron, pues las deserciones en el intermedio fueron notables, si bien el auditorio tampoco estaba precisamente abarrotado al comienzo de la ópera.
Afortunadamente, el nuevo día trajo consigo un genial Equivoco stravagante que consiguió disipar por completo el agridulce sabor de boca dejado por este estreno en quien escribe, tal como se describió anteriormente, irreprochablemente correcto, mas refinadamente aburrido.